BRUNA SPAGNUOLO

DIVAGAZIONI

(prima... urbi et orbi 'umane'/poi-in calce- anche...)

LETTERARIE

©by Bruna Spagnuolo

Indice di questa pagina:

"Genere umano, quo vadis?": Introduzione/Riots and killings between Muslims and Christians/Last warning to Kafirs (proclama di Ibrahim Barde, sedicente responsabile della 'commissione islamica rivoluzionaria')/Risposta a Ibrahim Barde/Strage di Yelwa

Bracconieri di valori: Il segreto dei grandi/"Mamma" e "papà" fantasmi da cancellare/Il mondo: un treno su un binario senza prosecuzione.../Selezione della specie/Pistorius/2008: Cina, Olimpiadi e sangue/Fiaccola olimpica in manette/Si vis pacem para bellum/Aprile 2008: auguri agl'Italiani/I misteri dolorosi del rosario quotidiano dei giorni concessi (o lesinati?) al genere umano/La guerra dell'ambiente/Le gocce piccole delle speranze grandi

Trucidatori di innocenza: Bambini violati

Una tra le infinite dimensioni del creato: Mini-prologo/ Viaggio da Abuja a Kaduna e viceversa/ Domenica 04 Maggio: Santa Messa in Nunziatura/ Come l'Africa guarda al terzo millennio/ Ode per Tellusfolio-Semi indesiderati-Paesi, usanze e disincanto/ Morte di un innocente

Divagazioni letterarie: Riflessioni su M.M.Kaye, Horwood, W. Smith (con citazione di Ruark e Clavell)/ 'correzione' di pagine famose (di turno: Ammaniti- e, 'di striscio', Manfredi)

 

GENERE UMANO, QUO VADIS?

Immemore di chi era e alla faccia di chi vuole diventare e dove vuole andare, il mondo "ricco" salta a piè pari tranquillamente nel vuoto, con vecchi, donne, bambini e neonati.

Non vede il vuoto, ovviamente e, perciò, non lo teme, ma esso si nasconde, striscia e avanza, con passi felpati, intrufolandosi nel suo cuore e nella sua mente anestetizzata dai vari placebo consumistici e mediatici.

Il mondo povero non ha bisogno di domandarsi chi era (perché ha ancora i piedi ben radicati nel passato), né chi sarà (perché è troppo impegnato nella lotta della sopravvivenza quotidiana). Non ha neppure bisogno di chiedersi dove dirigerà i suoi passi, perché sa benissimo che vuole andare verso il mondo ricco.

Alcuni esseri umani (appartenenti a entrambi i mondi suddetti) hanno l'impressione che le masse siano affette da cecità endemica e inguaribile e, che, per tale ragione, seguano i loro leader su strade contorte e, spesso, efferate (in una sorta di make believe, che dà ai popoli che si ritengono 'ricchi' il diritto di andarsi a prendere le ricchezze dei popoli che chiamano 'poveri' e di spazzare via, strada facendo, le parentele ecologiche vitali della terra e pure interi popoli, se, per caso e senza saperlo, diventano d'intralcio).

Le masse mondiali (povere e ricche) sono ignare di tutto e, intanto, nell'ombra si tramano le alleanze del denaro e nel sole i sorrisi delle strette di mano della finzione umanitaria. Il mondo ricco non lo sa e quello povero neppure, ma sono entrambi vittime dei giochi di potere.

Qualcuno trama ai danni di tutti, intanto, sibilando pensieri di risentimento e di odio da cui trarre vantaggiosi venti di guerra, partorendo fenomeni terribili come il terrorismo, usando alcuni esseri umani come carne da macellare e altri come bombe di carne da smembrare/ foggiando automi capaci di dissacrare l’essenza stessa della vita e di fare persino della sacralità della propria persona carne trita sanguinolenta portatrice di morte per molti fratelli. Coloro che tirano i fili delle marionette ignare inseguono il richiamo del potere, ma coloro che credono di doversi sacrificare per estirpare il ‘male’ guardano, osservano, giudicano le diaspore ramific-ate/anti delle culture altre/ cercano nelle distorsioni morali dell'opulenza e dell'edonismo sfrenato l'alibi dei loro delitti tremendi contro la vita.
Il loro mondo politico gestisce il potere sociale e religioso in modo da tener salva la facciata/ non mettere in discussione o, peggio, schernire l'autorità precostituita/ non sciorinare in pubblico i panni sporchi/ non causare perdita carismatica alle figure di spicco, ovvero ai capi.

Il mondo opulento non pone limiti alla vivisezione-dissacrazione continua e feroce contro tutto e tutti, né alla ‘fantasia creativa’ degli abbattitori di valori. Vere e proprie squadre mondiali di cacciatori dei valori da abbattere s’ingegnano notte e giorno, per immaginare, progettare, programmare, visualizzare e realizzare il maggior numero di abbattimenti della storia.

I nemici della vita e i Terroristi, perciò, non devono faticare a trovare gli 'alibi' da usare nel condizionamento delle loro "bombe" umane. L'umanità di buonsenso (mussulmana o no e di qualsiasi religione) ha molto su cui riflettere e su cui ricredersi, se vuole correre ai ripari. Gl'individui di buona volontà hanno molto lavoro da fare, per combattere le dicotomie fratricide e per costruire ponti del buonsenso e della tolleranza che non siano a senso unico/ prevedano 'il doppio senso di circolazione' nei rapporti umani/ siano propedeutici ai ponti dell'amicizia . Le divisioni e le mattanze non sono mai il rimedio giusto per nessun male/ erano-sono-saranno 'fratricide', sempre / comunque /dovunque. Tutti gli esseri umani, di qualsiasi origine e/o provenienza, sono fratelli (anche gli Occidentali e i Terroristi). Tutti (individui e nazioni) devono cominciare a capire che vantaggi e svantaggi, sulla terra, vanno condivisi, che nessun essere umano può considerarne un altro inferiore, che anche le risorse naturali vanno condivise e che i popoli devono darsi la mano e smetterla di trucidarsi tra loro. L'Occidente non farebbe male a rispolverare alcuni dei valori sani della storia passata e a porre rimedio alle insidie del vuoto morale in cui rischia di far affondare le nuove generazioni. Gl'Integralisti estremi e più arrabbiati farebbero un regalo al mondo e a se stessi, se prendessero in considerazione la moderazione costruttiva e si liberassero dell'odio (che è un carico troppo pesante da portare ed è foriero di buio doloroso e refrattario alla luce della sopravvivenza, oltre che all'amore di Dio). Coloro che prendono alla leggera tutto quanto farebbero bene a non scherzare mai sulle diatribe varie e, soprattutto, in assoluto, a non 'giocare' a nessun titolo e a nessun livello (neppure soltanto lessicale o pittorico) con le religioni dei popoli. Nessuna popolazione o etnia si dovrebbe esimere dal dovere del rispetto verso le altrui culture e/o religioni. Nessun individuo dovrebbe sentirsi libero di disprezzare mentalità e credenze altrui e di reagire con indicibile virulenza (sia pure a gesti esecrabili). Tutti gl'individui del mondo, indipendentemente da religioni/ razze/ culture e geografia, dovrebbero ritenersi 'parenti' e, di conseguenza, dovrebbero fare gl'interessi dei loro simili lontani e vicini come se fossero i propri.

 

Excerpt of the book “Sour Roast Figs…” (unpublished):

1) Riots and killings between Muslims and Christians started all over again, first in Jos, then in Kano, causing Ginevra shear suffering and uneasiness. She could not understand why and how that terrible hate could not subside and kept dreaming that one day people would wake up and see the world as it was: a place inhabited by two legs human beings all born in the same way and all dying in the same way/ all crying and suffering in the same way, all eating and defecating in the same way too. That day was bound to come first or late; people could not go on being as blind as not to see that every human being had the same physiological needs related to the same old planet’s earth-air and water. How could they think that different beliefs could make different human beings? How could they be deaf and blind to the suffering of their kin? How could they think that calling God with a different name made them sons of a different God? How could they be as crazy as to feel entitled to hate and kill some other sons of their same father-God and still think that God would go on loving them and would be happy about what they did? How could people of any religion imagine that God the Father would love them for killing their brothers who where his beloved children? She was amazed at how mad human kind could be and, hard that she might try, she could not imagine how somebody’s mind worked. She tried again and again to see the point of view of the hating people and could not see it. If people with the same physical characteristics, with the same customs and habits, with the same roots, with the same love for places, for food, for music and for love could kill each other just because they worshipped God calling Him in a different way, what would become of the whole world…? Her heart ached badly for she loved those people, all of them. She sympathized with them all and felt at a loss not knowing how to tell them that they were all her brothers, whether they loved or hated her. She felt her heart sink and turn in pain when she thought of all the blood shed, all the grief-despair-brutalization-helplessness-horror hidden behind every slaughter. She could imagine every mother waiting anxiously to see her children back home safe and sound and could feel in her chest every wretched mother’s anguish of whatsoever faction and was astonished at how blind human beings could be. How could they ignore that there was no difference between a young boy being slaughtered on whichever part of the barricade he happened to be? How could they be so blind not to see that the blood on the killers’ hands was the same purple crying for pity, for love and for repentance at last?

She knew that religion was but an occasional alibi for the many cultural differences (and political patterns) which caused the hate that unchained the killings there, in Nigeria, and all over the world. Nigeria was born by assembling a cauldron of infinite ethnic groups as big as states and was paying for this, but had Nigeria not been assembled as a huge nation and not been called thus wouldn’t people there find other reasons for killing one another all the same?

Ginevra felt a heartrending pain whenever she imagined somebody cutting somebody else’s throat… Each time her breathing increased and she run short of air: what a terrible-terrible waste of young beautiful bodies, thoughts, dreams, lives… Her mind could not see the difference between one and the other. How could people think themselves different from one another? They should be learning from death… Couldn’t they see that after dying they were all alike? When the beehive of ideas would stop raging in their heads, they would be laying one over the other as if hugging each other, oblivious of all the hatred they had thought eternal. A preternatural aloofness surrounded the dead and should have been touching the heart of the living, but men were too busy killing each other to listen to the warning their fallen screamed to them. That’s what they were: creatures of the same creation, all similar, all with two legs, two arms, one head and the same orifices. Death made all the differences inexistent and gave men back to God just as He had created them: all equals, all children he loved tenderly one by one. And God would be experiencing pain and anger for what men were doing… How could men ignore this? God would not be happy with one of them for killing his brother just because he could not accept the different ideas dwelling in his brother’s head. To God all human beings were as one. He cared for each one of them in the same way. How could some of them think that God could take sides and hate some of his children? It was so clear and so normal that people should sympathize with one another and accept each other’s different culture and ideas. But she could not give up hope that one day the populations of the world would understand they were made of brothers, if for nothing else, at least for the awareness that human kind survival was depending on taking care of the world as of their own house and on being fair to their fellow creatures. She had a dream: one day there would be no fear and distrust on earth and people would experience the magnificent feeling of brotherhood. That day no mother would worry for his children and no one would harm anybody.

Whenever she thought of that dream she could smile anew. That’s what she did that day. Despite the riots, she trusted people and felt safe around.

2) Il piccolo 'proclama', qua sotto, è un documento vero, distribuito porta a porta, nella città di Kaduna, nel maggio 2004: Last Warning to Kafirs By Ibrahim Barde (For Islamic Revulotionary committee)

“We are very proud and we stand very tall that Muslims in this country have maintained their dignity as we have taught the Kafirs a big lesson in Kano (si riferisce alle gole tagliate in kano, in risposta alla strage di Yelwa, ove, insieme ai Mussulmani, sono morti altrettanti Cristiani-600 tra gli uni e gli altri, come ben descrive il libro Fichi acerbi arrostiti/Sour roast figs) . We are now warning Kafirs in Kaduna and everywhere that we will never tolerate any insult and challenge from your cowards like the one at Yelwa. For one Muslim you kill we shall kill twenty of you. We are proud of his excellency, alhaji Shekarau and all the Mullahs and notable Muslims who stood for Islam at the trying moment in Kano. We also condemn Gov. Makarfi who is favouring the cowardly Christians against his own religion in Kaduna. We want to warn that we must take our own action of revenge and deal decisively with the infidels here when they don’t expect it. We are not afraid as the jihad blood is still fresh in our veins and we don’t care what it cost us to defend our great religion. We are also reminding all Muslims never again to vote for any Christian president as you have been warned by our great and courageous Buhari. We must take back our presidency in 2007. Anybody who wishes to challenge us after that will test the bitter pill of his life. We are appealing to all Faithful to get ready for the great showdown in Kaduna and Zaria. Also, the stupid talk by the cowardly Obasanjo means nothing to us.”

3) Risposta a "Last Warning...":

Caro Signor Ibrahim Barde (se davvero questo è il tuo nome),

ho ricevuto una copia del tuo proclama mussulmano e l' ho letta attentamente, senza preconcetti né pregiudizi. Prima di tutto, devo dire che tale lettura non ha causato animosità verso di te e verso i tuoi fratelli mussulmani e che ho trovato difficile pensare a me stessa come a una tua nemica kafir. Il sentimento che ho provato era amichevole, comprensivo e fraterno e lo è ancora. Ti dirò di più: ho ammirato lo spirito coraggioso del tuo piccolo "manifesto", perché riconosco i cuori coraggiosi quando li incontro e non sono insensibile all'orgoglio e alla fede. Hai un cuore pieno di coraggio e di orgoglio e pronto a versare il proprio sangue per i valori e per le cause sante. Siccome anch'io mi sento allo stesso modo riguardo alle cause grandi e ai valori, non sbaglio riconoscendoti come mio fratello, ma... ci sono particolari che mi fanno dissentire dolorosamente dalla tua posizione: odio, vendette, mattanze. Mi rende veramente triste scoprire, in Nigeria come altrove nel mondo, che persone davvero dotate e speciali indirizzano il loro meraviglioso carisma nella direzione sbagliata. Sì, mio fratello mussulmano, Dio ti ha elargito molti doni e io gli sono grata per questo, ma sono sicura che Egli non li ha destinati all'odio e al massacro.

Quanto sarebbe magnifico investire gli splendidi doni di Dio in gesti di fratellanza e di amicizia,per la pace e per la salvezza del mondo! Gli uomini non possono scegliere se nascere neri o bianchi, alti o bassi, bruni o biondi, mussulmani o cristiani, a Nord o a Sud, a Est o a Ovest, con una cultura o con un'altra su questa terra; possono, però, scegliere di essere fratelli, di essere tolleranti con le rispettive culture e religioni e di aiutarsi anziché sterminarsi. Quanto deve essere triste Dio nel vedere i suoi figli levare la mano assassina l'uno contro l'altro, come demoni senz'anima, macellando l'uno i figli dell'altro, come se non provenissero dallo stesso Padre-Creatore! La storia insegna al mondo che l'odio non porta da nessuna parte se non alla distruzione e alla morte. Gli esseri umani sono nati con caratteristiche fisiche diverse e con culture diverse; cioè, di diverso hanno l'aspetto e le cose che imparano da quando nascono a quando muoiono. Ciò è cosa buona, altrimenti essi sembrerebbero tutti uguali e parlerebbero tutti allo stesso modo, rendendo il mondo un serraglio monotono e noioso.

Le differenze sono ricchezza e noi le dovremmo accettare come un dono di Dio, anziché usarle come mezzo di divisione, di odio e di violenza, perché la violenza è come un brutto presagio sulla terra. Una volta innescata la catena della violenza, gli uomini non sanno più spezzarla. Nel bel mezzo di essa nessuno sa più da quale parte sia la verità o chi ha cominciato per primo: tutto ciò che conta è l'odore del sangue sparso in lungo e in largo dal felicissimo demonio. La gente coraggiosa crede suo dovere sfidare il nemico e ottenere una vendetta soddisfacente, ma, ahimè, non ci può essere soddisfazione nell'uccidere esseri umani che sono propri fratelli! Fratelli di un'altra religione, fratelli con idee diverse, ma sempre fratelli. La verità è altrove, dove nessuno vuole guardare per non vederla e per non servirla: un nuovo massacro non sarà mai qualcosa di buono, non sarà mai l'ultimo, non sarà mai la soluzione a nessun problema, perché innescherà altro odio, altre uccisioni, altri massacri, altra distruzione (-per guadagnarci che cosa?- dimmi, per favore). In tal modo gli uomini si dovrebbero sterminare fino agli ultimi rimasti sulla terra?

E non sarebbe più semplice (e di gran lunga meno faticoso) accettare le differenze ed essere tolleranti con le idee diverse? La gente di religione diversa può coabitare felicemente e a michevolmente, indirizzando il coraggio e i cuori arditi verso la nazione, per farla migliore e più forte; incanalando l'eroismo verso la bandiera nazionale. Spero che il governatore e il presidente Obasanjo, cui hai indirizzato parole offensive, ti diano un esempio di tolleranza e misericordia; spero che tu cambi idea e che veda chiaramente quale crimine orrendo è (e non dico 'sia' volutamente) macchiarsi le mani con il sangue dei fratelli (so che rifiuterai fortemente questa definizione riferita ai Cristiani, ma questo è ciò che sono, che ci piaccia o no; questo è ciò che sono per l'Esseresuperiore che tu chiami Allah e che è Dio, in ogni caso. Pensaci.

L'odio è un cattivo consigliere sempre e ovunque, perciò, per favore, usa i doni che Dio ti ha affidato per rendere il mondo un posto migliore in cui far crescere i bambini, un posto diverso dallo spaventoso mattatoio in cui non c'è posto per arte, cultura, musica, gentilezza e famiglie felici.

La tua sorella kafir

Ginevra Sognatrice

(che non ha scelto dove nascere e chi o che cosa essere sulla terra, ma che vuole preferire sempre e ovunque l' amicizia all'inimiciza e l'amore all'odio e che, ove l'amicizia non fosse possibile, sceglierebbe di schierarsi almeno per la tolleranza foriera di pace, poiché il Dio che ama i Mussulmani, i Cristiani, i Lillipuziani, i Neri, i Bianchi e i Viola… è uno soltanto… e rifugge i cuori-casa dell’intolleranza e dell’odio. ) “

//Copyright by Bruna Spagnuolo//   

Discorso di Ginevra, durante la strage di Yelwa: «Dimenticate l'odore del sangue, per un momento solo, vi prego! E ascoltate quello che ho da dirvi! Sono una di quelli che i Mussulmani chiamano Kafir, cioè pagani, Barbari infedeli e sono anche “baturia”, “senza pelle”, come dite voi (in Nigeria)! Non ho la pelle come la vostra, ma ho un cuore uguale al vostro e vi sento miei fratelli! Non sono nata qui, no, ma non significa nulla per me. Io mi sento Nigeriana e trepido per la vita dei miei fratelli nigeriani, di qualunque religione essi siano.Voi, laggiù, smettete di sgozzarvi e ascoltate! Non siete animali da macello, voi siete esseri umani! Mi sentite? Siete esseri umani e siete figli di Dio! Non alzate la mano assassina sui figli di Dio! Qualunque sia il nome con cui chiamate Dio, guai a voi se uccidete i figli che Egli ama!

Miei cari fratelli, prego Dio di illuminare i vostri cuori e le vostre menti, così che possiamo vedere chiaramente, infine, e interrompere l'orribile catena di odio e di omicidi che non porta da nessuna parte, perché la vendetta è una piaga senza fine. Ai giovani dal cuor di leone, che mordono il freno, in attesa di mettere alla prova il loro coraggio indomito, come bellissimi destrieri rampanti, dico: "Arruolatevi nel vostro esercito e mostrate lì quanto possono essere coraggiosi e nobili i vostri cuori, difendendo la vostra bandiera e i confini della vostra nazione; oppure unitevi alla polizia e mostrate il vostro coraggio, rischiando la vita giornalmente per difendere la legge e i deboli. Questa terra è piena di corruzione, è marcia fino alle ossa: scagliatevi contro le radici di questo, non contro altri innocenti... Siate coraggiosi, sì, ma siatelo per costruire un posto in cui possiate vivere; lottate contro chi vi dissangua e vi affama, non contro i vostri fratelli; ribellatevi quando vi ricattano e vi schiaccinao e difendete gli altri poveri da tutto questo e fatelo unendovi e usando mezzi civili: solo così farete qualcosa di "nobile", Credetemi. Nell'odiare e nell'uccidere i vostri fratelli non c’è né onore né coraggio.

Che siate Cristiani o Mussulmani, sappiate che non c'è nulla di nobile nell'uccidersi tra fratelli! No, non protestate! Questo è ciò che sono le persone che vivono nella stessa nazione, calpestano la stessa terra, respirano la stessa aria, mangiano lo stesso cibo: fratelli! Non c'è nulla di nobile nell'approfittare delle rivolte per rubare ai vostri vicini tutto ciò che hanno e incendiare le loro case; non c'è nulla di nobile nel tagliare le loro gole; non c'è onore nell'uccidere donne e bambini; non c'è onore in fatti come quelli che si stanno verificando qui e che si sono verificati durante le rivolte in Kaduna, dove vivo io. Una vecchietta fu derubata, brutalizzata e bruciata viva nella sua casa. Il suo corpo carbonizzato, trovato seduto nella sua sedia abituale ha commosso e turbato il mio cuore. Tutte le uccisioni mi hanno colpito come violenza fratricida orrenda, ma l'immagine di quella vecchietta indifesa, bruciata viva, m'insegue, come una vergogna pertutto il genere umano. Non c'è onore in gesti come quello.

Qualunque lingua parlino, qualunque religione conservino dietro le loro palpebre pensose, le vittime innocenti saranno sempre la vergogna dei loro assassini e giammai qualcosa di cui essi possano essereorgogliosi, in qualunque latitudine del mondo. Pensare di perpetrare tali orrori nella propria città, che altro non è se non la propria casa allargata, è più assurdo, orribile e paradossale che mai.

Per favore, fate prevalere il buonsenso e rispondete a questa domanda: qualcuno di voi ha potuto scegliere dove nascere, da quali genitori e con quale religione? No! Nessuno ha avuto questo privilegio. Ognuno è dove Dio (o, se credete, il destino) lo vuole, bianco o nero, bello o brutto, istruito o ignorante, ricco o povero che sia.

Può qualcuno cambiare a suo piacimento tutto ciò? Assolutamente no! E, allora, perché dovrebbe essere una colpa da pagare con la morte essere nati Cristiani anziché Mussulmani o viceversa? Se non possiamo scegliere dove-come-quando/da chi nascere e come essere, perché dovremmo essere ritenuti amici o nemici a causa di ciò che siamo? Dobbiamo essere accettati per ciò che siamo, fratelli miei, ecco tutto. Dobbiamo accettarci per ciò che siamo e dobbiamo coabitare pacificamente.

Non c'è altro che possiamo fare, a parte sterminarci, che è contro ogni legge umana e divina. Coloro che non accettano tutto ciò, scelgono di vivere come fuorilegge davanti a Dio e davanti agli uomini.

Ci sono tante cose che non possiamo decidere, tante scelte che non possiamo fare, ma c'è una cosa che possiamo scegliere con libero arbitrio e determinato consenso e con tutta la responsabilità vitale che ne deriva: possiamo scegliere di schierarci con il bene o con il male sulla terra. Ed è in base a questa scelta che dovremmo essere giudicati.

Sì, fratelli miei, ognuno di noi, giallo, rosso, verde, arancione o blu, credente in un dio o in un altro, in una mucca, in un fiume o in una nuvola, dovrebbe essere giudicato soltanto in base al bene o al male che fa agli altri esseri umani che sono tutti suoi fratelli.

La gente può avere caratteristiche fisiche diverse e credenze diverse, ma non per questo è diversa: diversa è la cultura, non l'umanità. I crimini commessi contro ognuno dei nostri fratelli sono crimini commessi contro l'umanità, non importa quali caratteristiche fisiche il fratello specifico abbia, né quale sia il tempio in cui egli vada a pregare.

Ogni essere umano deve credere nella tolleranza e nella fratellanza. I Governi devono insegnare e praticare la tolleranza specialmente nei confronti dei giovani che sono il vivaio del futuro delle nazioni e che non devono essere abbandonati sulle strade senza cure e senza istruzione; gli adulti devono mostrare ai bambini come coabitare pacificamente con le differenze culturali, perché le differenze sono ricchezza e non devono mai diventare ragione di divisioni e di odio.

Che succederebbe se nessuno dovesse accettare queste regole basilari di convivenza civile nel mondo? Che presto saremmo spazzati via dalla faccia della terra, questo è tutto.

E che accadrebbe se né il Governo né la popolazione le accettassero in Nigeria? Vediamo: indipendentemente dalle differenze religiose, Kanuri, Tiv, Fulani, Hausa, Yoruba, Ibo si troverebbero d'accordo sulle varie scelte? Concorderebbero sull'elezione del presidente, per esempio?Se qualcuna di queste vostre etnie dovesse vincere la presidenza, per esempio l’etnia Ibo, si troverebbe nel paradiso terrestre? Non comincerebbe ad avere seri problemi con le altre etnie e persino con le sue stesse altre identità di Ibo Abriba, Ibo Onitsha, Ibo Nnewi, Ibo Medio-Occidentali? Se altre etnie vincessero, non avrebbero gli stessi tipi di problemi con le varie identità culturali (Yoruba-Ijebu, Ishan, Itsekiri, Urhobo, Fulana, Ijaw, Jihadisti, non-Jihadisti e così via)?

Soltanto la tolleranza può essere foriera di pace e solo la pace può essere foriera del benessere che tutti cerchiamo e per cui tutti ci scontriamo, fratelli miei, qui, in Nigeria, come in tutto il mondo.

Dobbiamo imparare a vivere pacificamente, accettando e/o tollerando le reciproche differenze culturali, perché questo è ciò che Dio si aspetta da noi su questa terra.

Dio si aspetta che ogni essere umano faccia la sua piccola parte nella costruzione della pace, fino all'ultimo dei suoi respiri. Perciò, per favore, ognuno cominci ad essere ben disposto verso il governo, sia esso Mussulmano o Cristiano, e non pretenda da esso cose sbagliate come "la libertà di uccidere i propri nemici", perché non c'è nessun nemico tra coloro che amano le stesse ricette e gli stessi luoghi, seppelliscono i morti nella stessa terra, si tormentano allo stesso modo per la morte dei figli, perdono sangue dello stesso colore e muoiono allo stesso modo.

Costruire è meglio che distruggere, comportarsi amichevolmente è meglio che aggredirsi ferocemente, dare ai nostri bambini la speranza di un futuro è meglio che lasciarli privi di vita da ereditare.

Dio ama ognuno di noi, Cristiani e Mussulmani o di qualunque religione, e continua a chiamare i nostri nomi da sempre; continua a chiederci di smettere di odiare e di schierarci dalla parte del bene, perché l'odio sta dalla parte del male e lo rafforza, indebolendo la vittoria di Dio stesso.

Gli uomini hanno bisogno di smettere di odiare e di uccidere, perché hanno già reso il male troppo forte. Il sangue versato e l'orrore delle carneficine hanno nutrito il male ed esso sta già avvolgendo gli uomini e rischia di ingoiarli per sempre.

Abbiamo bisogno di tenerci per mano e di stare dalla parte del bene, rafforzandolo e richiamandolo su questa terra, prima che sia troppo tardi e che soccombiamo al male.

Per favore, fratelli Mussulmani e Cristiani di buona volontà, dite ai vostri figli che devono amare tutti, dite loro di darsi la mano in amicizia e di salvare il mondo dal buio, perché nell'odio ci sono le tenebre e nell'amore c'è la luce.

Vi amo tutti, mi sento sorella di ognuno di voi e spero che la gente speciale metta i suoi talenti al servizio dell'amore piuttosto che dell'odio e del massacro.

Rivolte e mattanze tra Cristiani e Mussulmani sonomotivo di disagio e di sofferenza per tutti voi. Non capisco perché e come quest'odio terribile non riesca a scomparire! Continuo a sognare che un giorno la gente si svegli e veda il mondo com'è: un luogo abitato da individui con due gambe che sono nati allo stesso modo, muoiono allo stesso modo, soffrono e piangono allo stesso modo, mangiano allo stesso modo e defecano anche allo stesso modo. Quel giorno deve arrivare prima o poi! La gente non può continuare ad essere così cieca da non vedere che ogni essere umano ha gli stessi bisogni connessi con la stessa aria-terra-acqua dello stesso vecchio pianeta.

Non riesco proprio a capire: com'è possibile pensare che le credenze diverse possano rendere diversi gli esseri umani? Com'è possibile essere sordi e ciechi alla sofferenza dei fratelli? Com'è possibile pensare che chiamare Dio in modi diversi renda gli uomini figli di un Dio diverso? Come si può essere così pazzi da sentirsi autorizzati a odiare e a uccidere altri figli di Dio e pensare di fare cosa gradita a quello stesso Dio-Padre?

Sono sbalordita e non riesco proprio a decifrare i meandri strani e contorti della mente umana. Ho provato e riprovato a cercare il bandolo del punto di vista delle persone invasate di odio, ma non sono riuscita a trovarlo. È stato già orribile che degli uomini abbiano commesso atrocità contro i loro fratelli dalla pelle di un altro colore, nella storia passata. Se gente con le identiche caratteristiche fisiche, le stesse usanze, le stesse radici, la stessa terra, gli stessi cibi e la stessa arte riesce a massacrarsi perché prega Dio chiamandolo in modo diverso, l'umanità è proprio messa male!

Nulla mi ferisce di più, fra tutti gli orrori del mondo. Quest'odio e questa violenza fratricida e questi genocidi continui mi portano a chiedermi quali speranze abbia il genere umano. Il mio cuore duole per tutte le persone che sono morte e che muoiono nel mondo. Io le amo tutte come se mi appartenessero.

E il mio cuore duole per il sangue versato qui e ora, a fiumi! Non pensate a tutto il dolore e alla disperazione nascosti dietro questo massacro? Non riuscite a vedere le madri in ansiosa attesa dei figli? Non sentite già l'urlo dei loro petti squassati dall'orrore di questi giovani corpi massacrati? Non c'è differenza tra le madri cristiane e quelle mussulmane e non ce n'è tra gli adolescenti macellati sui due versanti della barricata. Guardate le vostre mani: il sangue sulle mani dei Cristiani ha lo stesso colore di quello sulle mani dei Mussulmani !

So che, spesso, la religione è soltanto un alibi, per chi arma la mano dei semplici, ovunque nel mondo, e che qui il terreno è fertile per molte ragioni. La nazione è nata da un calderone di antichi reami e di gruppi etnici grandi come stati e non si è mai completamente liberata delle rivalità iniziali.

Ma, di fronte a tutte queste gole tagliate da mani fratricide, non sentite il cuore accelerare i battiti? Che terribile spreco di giovani corpi, di giovani vite, di sogni, di pensieri, di speranze...! Come fate a non vedere che, quando vi uccidete tra voi e l'alveare delle idee smette di fluire, cadete gli uni sugli altri immemori dell'odio che avevate creduto eterno?

Guardate questi corpi immobili per sempre: riuscite a distinguere i corpi dei Cristiani da quelli dei Mussulmani nel groviglio di membra senza vita? I nemici che prima si scannavano con ferocia, ora sono "i morti" e sono tutti uguali. L'alone soprannaturale che li circonda non vi tocca il cuore? Non v'insegna nulla? Guardate i morti e imparate da essi! Guardate queste vite spezzate e piangete. Centinaia di creature del vostro stesso creato domani non vedranno sorgere il sole e mai più si muoveranno nel vento o faranno una carezza ai loro cari. Guardate i morti e guardate voi stessi: vedete qualcosa di diverso? Siete tutte creature con due gambe, due braccia, una testa e lo stesso numero di orifizi, e vi macellate a vicenda come termiti impazzite dello stesso termitaio. La morte rende vane tutte le differenze e restituisce gli uomini a Dio proprio come Lui li ha creati: tutti uguali. I vivi dovrebbero imparare dai morti, invece di massacrarsi solo perché nelle loro teste girano idee diverse. Come potete pensare addirittura che Dio possa fare il tifo per gli uni o per gli altri? È così chiaro che sulla terra gli uomini non riescano a comprendersi e ad accettare le loro diverse culture, eppure non riesco a rinunciare alla speranza: un giorno le popolazioni del mondo comprenderanno di appartenersi, se non altro per la consapevolezza che la sopravvivenza può dipendere soltanto dalla pacifica convivenza sullo stesso pianeta che è la casa di tutti. Ho un sogno: un giorno non ci saranno più paura e sfiducia sulla terra. Quel giorno tutti saranno fratelli e nessuna madre si dovrà preoccupare per il figlio, perché nessuno farà più del male a nessun altro. Quel giorno per voi è adesso, fratelli miei!»

Estratto da"Fichi acerbi arrostiti"(ancora inedito)- Copyright by Bruna Spagnuolo

BRACCONIERI DI VALORI

Il segreto dei grandi

Pensavo, quando ero bambina, che i grandi custodissero un segreto impenetrabile, dal quale io fossi destinata a restare esclusa per sempre (con la conseguenza di rimanere piccola altrettanto per sempre). Ho sorriso spesso, a quel ricordo, rivedendo con la mente le risate, le occhiate, i dialoghi e le intese tra adulti (che erano, per me, rebus senza chiave di lettura). Oggi non sono più tanto sicura di essermi sbagliata da bambina. Ci sono, di nuovo, tante cose che non comprendo e che non hanno senso. Enumerarle tutte è impresa impossibile; ne citerò una che, tra le altre è davvero-davvero disturbing. Ho letto sul giornale dell’anvolt (Associazione Nazionale Volontari Lotta Contro i Tumori) ciò che dice il professor Attilio Giacosa sulla prevenzione. Dice che vegetali, olio extravergine di oliva e succo d’uva sono una buona prevenzione e che il pasto tipo della salute dovrebbe contenere circa 650 grammi al giorno di vegetali (frutta e verdura). Semplifica la dieta così: una spremuta di agrumi a colazione, un’insalatona a pranzo, una zuppa di verdure a cena e due frutti nell’arco della giornata. Va bene, non c’è nulla di difficile in questo, anche se viene da chiedersi: perché non lo facciamo? Il professor Giacosa, però, spiega un’altra cosa. Dice contestualmente: “Il pane e la pasta sono oggi prodotti con un tipo di farina che nulla ha a che vedere con quella utilizzata nel modello mediterraneo. Io recentemente sono stato a Nicotera, un paesino della Calabria caposaldo del modello mediterraneo, e i cittadini mi hanno parlato del loro ‘pane bigio’. Questo ‘pane bigio’ è un’espressone tipica di ciò che veniva abitualmente consumato in passato. Non è né bianco né nero, non è un pane integrale al 100%, ma è una formula di tipo intermedio che veniva utilizzato a inizio secolo. Oggi, invece l’utilizzo incontrollato delle farine bianche porta a un costante aumento della glicemia nel sangue e quindi dell’insulina. La continua disponibilità di quest’ultima nel sangue svolge una funzione di abbassamento degli zuccheri, ma soprattutto un’altra, che noi chiamiamo di fattore di crescita. Cioè l’insulina esercita una funzione di stimolo su tutte le linee cellulari dell’organismo a duplicarsi velocemente e ciò favorisce l’aumento del rischio di errore, quindi di insorgenza di tumore. È la stessa situazione di chi vuole effettuare una manovra troppo velocemente. Spesso sbaglia e si hanno conseguenze negative”. Sembrerà strano, ma questa spiegazione chiara e illuminante ha scatenato in me una vera e propria crisi di identità, in questa nostra società contemporanea (così piena di paradossi e di veri e propri genocidi). È semplicemente assurdo pensare che una tale verità, così chiara e così lampantemente illuminata dagli ‘addetti ai lavori’ (gli oncologi ricercatori) venga grossolanamente ignorata, oscurata e tenuta in cantina. Mi chiedo, allora: qual è il segreto che io ignoro e che gli altri conoscono (e che legittima tale imperdonabile ‘omissione’)? Questo è il secolo del tumore esteso ai bambini (nella forma ormai definita ‘tumore della crescita’). I bambini (e gli adolescenti), perciò, che hanno una riproduzione cellulare già incredibilmente accelerata, non avrebbero bisogno di ulteriore accelerazione (ovvero: non avrebbero bisogno di farine bianche). Il Professor Veronesi ha spiegato che , più dei tubi di scappamento, sono cancerogene le aflotossine e le micotossine (muffe naturali) nascoste nella polenta e nel latte. Uno pensa: “Ok, mangerò latte in polvere (che, oltretutto, contiene gli alginati che si combinano con la radioattività, in circolo nell’organismo, e la scaricano) e cercherò un produttore di farina gialla casereccia, comprerò la farina appena prodotta e la congelerò. Dicono anche che la carne (specialmente rossa) sia cancerogena: ne mangerò poca e, magari, solo bianca”. Il cittadino, in qualche modo, cerca delle certezze e si difende come può dalle sabbie mobili, che sembrano volerlo inghiottire, ma la semplice verità dischiusa dal professor Giacosa lascia interdetti e sovverte tutte le certezze. Il pane, la pasta, tutti i farinacei vari, dolci e merendine di ogni tipo inclusi (di cui adulti e bambini si nutrono), non sono altro, oggigiorno, che farine bianche… I bambini contemporanei si nutrono, praticamente, di sole farine bianche, sono essi stessi una farina bianca (che ha un intero universo di pubblicità-atmosfere-musiche-colori-feste  fatti di ‘merendine’ semplici, ripiene, rivestite, arrotolate, a strati, eccetera, eccetera, eccetera). I bambini…, proprio coloro che hanno già tutte le linee cellulari dell’organismo come piloti di formula uno (on a border line), vengono bombardati con pubblicità mirate, perché consumino più farine bianche possibili ed accelerino, inconsapevolmente, la velocità delle loro giovani cellule fino a farle impazzire da qualche parte (in genere a livello osseo). Vengono, praticamente, presi per mano (da tutta la società, apparentemente per/con/verso l’infanzia organizzata) e condotti verso l’insorgenza della più terribile delle malattie. I genitori, coloro che per i bambini darebbero la vita, coloro che sulla terra sono “l’arco attraverso cui Dio stesso lancia le sue frecce (figli) lontano” (come dice il poeta libanese khalil Gibran), vengono ingannati e indotti a comprare ai loro figli cibo foriero di cancro. Tutto l’amore con cui le madri e i padri nutrono i propri bambini si rivolta contro questo sistema e ‘grida vendetta al cielo’ (ben venga l’espressione usurata e trita, che rende bene l’idea di ciò che accade): “Perché, perché, perché” griderebbero i genitori delle migliaia di bambini che si avvicendano nel reparto pediatrico dell’Istituto Dei Tumori, “nessuno ci ha detto queste cose?” Io mi domando perché non si dia spazio agli oncologi (togliendone, magari, una milionesima parte ai reality omologanti e dopanti), che queste cose le esperimentano, e non si permetta loro di informare la gente; mi domando che cosa cambierebbe per i produttori, se si creasse un’inversione di tendenza, con una catena alimentare a base di farine meno raffinate e più salutari. Il mondo deve morire, perché l’avidità di potere lo divora sin dai tempi più remoti (forse fin dal big bang), ma l’uomo potrebbe almeno usare il buonsenso là dove il guadagno può essere garantito insieme alla vita… (?) Ogni adulto è stato bambino. Ogni adulto sa, perciò, che i sapori dell’infanzia sono quelli che restano incisi nell’inconscio (se non nel DNA). Ciò vuol dire che, se le mamme nutrissero i bambini con pappine integrali ( o semintegrali) e poi con minestrine e con vere e proprie pietanze integrali, i bambini crescerebbero amando il gusto del cibo integrale; se ciò può salvare loro la vita, che cosa ne vieta la realizzazione? ‘Il sistema’? Perché, dunque, non può il sistema andare incontro alla vita almeno dove non ci sono tentacoli di oro nero, bianco o giallo? Le stesse aziende produttrici di cereali/farine/paste/dolci/ecc. non dovrebbero cambiare nulla nella catena di produzione, credo, e potrebbero produrre esattamente tutto ciò che producevano prima, anche senza raffinare troppo le farine (o no?!?). La richiesta non c’è, questo è il dilemma…, ma la richiesta non potrà mai esserci, se la gente non dispone dell’informazione di base. Il mare è fatto di gocce… Le cose piccole, messe insieme, possono diventare grandi. Di bocca in bocca, di mente in mente, le informazioni viaggiano e…, chissà: come la piccola palla di neve diventa valanga, la piccola notizia può farsi rumorosa… Voglio sperare che salvarsi sia possibile per questa nostra società globalizzata. La bambina che è in me vuole sperare che nell’uomo sia ancora viva la scintilla di infinito che lo ha generato e che sulla terra voglia lasciare un po’ di polvere di stelle (e non soltanto misfatti e veleni)…

 

 

“Mamma e papà/fantasmi da cancellare ”

Il tempo dei valori da seguire come bandiere è tramontato (?), insieme alle mani callose dei genitori stanchi e savi, che moltiplicavano le briciole e l’amore con cui sfamare i loro bambini, e alle certezze sicure che scandivano la vita sul ritmo delle stagioni… L’alba dei valori-sabbie mobili fa impallidire le aurore accecanti e canterine e indebolisce i battiti del cuore…

In Gran Bretagna si vuole vietare nelle scuole l’uso dell’espressione “mamma e papà”, perché potrebbe insegnare ai ragazzini che la famiglia normale è formata da madre, padre e figli. Ciò “sarebbe offensivo” per le famiglie con due padri e/o due madri. La società occidentale sta dimenticando il buonsenso, forse, ma sta sicuramente dimenticando le precauzioni necessarie al rispetto di quella parte di umanità che si chiama infanzia e che rappresenta il futuro del mondo. Gli adulti di oggi, spinti da condizionamenti contingenti, sottovalutano l'effetto rebound terribile a lunga scadenza che le loro azioni racchiudono. La cosa davvero terribile è che essi non paiono avere saggezza e preparazione necessaria a capire che le ovvietà apparenti su cui basano le loro visuali limitate della realtà non sono affatto quelle su cui si basa lo sviluppo psichico dei bambini e di tutta la categoria di esseri umani compresi in quella fascia che è definita età evolutiva. Gli adulti prendono le loro decisioni, senza chiedersi neppure lontanamente quale impatto esse possano avere sull'inconscio dei bambini... Ciò è semplicemente un'enormità...

I bambini hanno occhi che osservano, orecchie che ascoltano, memoria che registra, inconscio che conserva-cataloga-stratifica i messaggi ricevuti... I bambini non si chiedono da quali e quanti assiomi politici e/o sociali le azioni degli adulti siano dettate. Si limitano a percepirne le sensazioni, le espressioni e tutto ciò che si colleghi ai loro organi sensoriali e alla loro sfera affettiva. I bambini sono come l'oceano...

Le profondità oceaniche sono universi sommersi, che, in superficie, appaiono trasparenti, rassicuranti e immemori di tutto. Nulla è più bello, calmo, accogliente e obliante del grande oceano; eppure, in presenza di un elemento scatenante, come un maremoto, nulla della trasparenza e della calma che l'uomo conosce rimane in vigore; le profondità sconvolte agitano e portano a galla tutto quanto vi sia contenuto, con torbide onde micidiali e terrificanti.

Nulla è più innocente e più rassicurante degli occhi dei bambini (che sembrano essere lo specchio dell'anima). Quegli occhi, però, tutto abbracciano e inviano all'inconscio, che si fa oceano di prospettive-esperienze e di angolazioni-immagazzinamento imprevedibili. Nessuno sa quando, dove, come e perché gli in put sbagliati possano venire a galla, né quali e quanti maremoti scatenanti possano innescarne l'intorbidamento manifesto, ma è sicuro come l'incedere del buio e della luce che, prima o poi, ciò accadrà (magari nella vita da adulto). Coloro che sono adulti ora un giorno sono stati bambini e portano nel loro inconscio ancora le percezioni che hanno immagazzinato allora... Nessuno sa quali e quanti adulti abbiano subito quali e quanti soprusi volontari o involontari da bambini; pochi degli adulti sono consapevoli di quali e quanti aspetti del loro carattere avrebbero potuto essere diversi (migliori o peggiori) se la loro infanzia fosse stata diversa. Certo e sicuro è, però, che le loro azioni di oggi possono determinare la 'fisionomia' psichica degli adulti di domani (che oggi sono bambini). Agl'Inglesi e a tutti gli abitanti delle nazioni chiedo di pensare ai bambini (a tutti i bambini...), quando prendono delle decisioni e varano dei provvedimenti...

Proibire l'uso dell'espressione "mamma e papà" è una follia senza precedenti e senza giustificazioni e ha così tanti piani di lettura che è quasi ciclopico esaurirli pienamente. Proverò a fare luce almeno su tre punti.

1)Tutti i bambini che formano le scolaresche inglesi, cui tale provvedimento è diretto, hanno famiglie con "mammy and daddy" come punti di riferimento. L'uso di quelle due parole è parte delle abitudini vitali, come tutte le funzioni fisiologiche dei bambini (la cui vita ruota attorno ai propri "mammy and daddy" in modo incontrovertibile e indispensabile). Censurare l'uso di tale espressione, sia pure soltanto nel parafrasare degl'insegnanti, è come amputare una parte del corpo vivo e dolorante della società in senso lato e delle individualità specifiche. Gli stessi gay sono possessori di "mammy and daddy" e non credo che possano avere qualcosa da ridire sull'uso di queste due innocenti, sane, tradizionali parole. Capisco che sognare di "procreare" al di fuori della biblica sfera riproduttiva perenne possa rientrare nelle ambizioni degli omosessuali, ma non capisco perché ciò dovrebbe vivisezionare la psiche dei bambini nati da famiglie normali/castrarne le abitudini linguistiche/limitarne le implicazioni sociali di armonia.

2)Le scolaresche attuali sono formate da bambini provenienti da famiglie normali, cioè naturali; se in tale maggioranza sono inseriti pochi bambini provenienti da famiglie omosessuali, i bambini della maggioranza non devono sentirsene messi in minoranza, come se le loro once pesessasero di meno rispetto a quelle dei bambini di famiglie omosessuali, su un'assurda bilancia senza capo né coda. I bambini hanno avuto, hanno e avranno sempre bisogno delle due figure di riferimento più importanti che ci siano (la mamma e il papà). I bambini delle 'famiglie' omosessuali non fanno eccezione: tra i due 'papà' e le due 'mamme' essi faranno una discriminazione inconscia di ruoli, sistemandoli, nel quadro psichico di " madri e padri" che la 'fisionomia' caratteriale dei personaggi suggerirà all'incredibile perspicacia infantile.

3) I bambini sono delle persone alle quali non si può e non si deve mentire. I due uomini omosessuali che dovessero volersi calare nel ruolo di madri e padri non possono che adottare il figlio di qualcun altro, cioè di una mamma e di un papà (che perciò esistono). Il rispetto di tutte le etiche comanda che al bambino si dica la verità e che cioè quei due "genitori" di sesso maschile dicano al 'figlio' che lo hanno amato e voluto e che sono pronti a crescerlo e a fare tutto ciò che è necessario per condurlo e avviarlo alla vita da adulto (si spera), ma che, non potendolo procreare e partorire, lo hanno 'preso in prestito' da una “mamma e da un papà”. Mentire al bambino sarebbe possibile per quanto tempo? E dove condurrebbe? Nel caso della famiglia con due mamme, una delle due donne, se vuole partorire, deve usare l’inseminazione, ma poi che cosa pensa di dire al suo bambino? Dovrà dirgli che ha 'preso in prestito' il seme da un ignoto “papà”; non può mentirgli al punto di fargli credere che “due mamme” possano procreare.

Non capisco il provvedimento inglese. Io, che sono adulta, non capisco e mi sento confusa e tradita. Come si sentiranno i bambini, che non hanno strumenti di difesa nei labirinti demagogici dei grandi? "Mamma e papà” esistono sia per i bambini delle famiglie normali, oggi definite naturali (che sono la norma ancora, per fortuna, e sono la testa del corpo sociale vigente) che per i bambini delle famiglie omosessuali . La Gran Bretagna vuole decapitare tale corpo sociale?!? Non capisco, non capisco proprio a chi possa essere venuta in mente una tale idea balzana, perché credo che, forse, neppure i Gay abbiano a cuore una simile cosa che è assurda e contraria alla pluralità e alla tolleranza. Proteggere le minoranze non vuol dire schiacciare le maggioranze e questo è ciò che, invece, questo provvedimento fa. Mi viene in mente un episodio. Qualche anno fa, non ricordo in quale paese lombardo, alcune maestre "non qualificate ed inqualificabili" (Indro Montanelli mi perdonerà dall'altro mondo, se prendo in prestito una sua famosa espressione), abolirono la celebrazione del Natale, per non offendere il piccolo e unico Mohameddino mussulmano che era entrato in una delle molte classi dell'Istituto. Ne nacque un putiferio. Il padre del bambino, consultato, si stupì e disse: "Noi siamo arrivati in un paese nuovo e siamo noi che ci dobbiamo adeguare. Voi fate le cose come le avete sempre fatte e lasciate a noi le decisioni che ci riguardano; e poi Gesù rientra tra i profeti che la nostra religione riconosce". Quell'uomo mostrò più saggezza di quanta ne dimostri tanta gente, oggigiorno. La confusione regna sovrana e le leggi più elementari del buonsenso ne fanno le spese: essere ben disposti verso il diverso e/o le minoranze, far loro spazio non vuol dire rinnegare ciò che si è, vergognarsene e indietreggiare annullandosi; vuol dire, piuttosto, convivere in armonia e in pieno rispetto (o almeno tolleranza) con le diverse identità senza perdere la propria e senza rinnegare nulla di ciò che si è. A coloro che hanno partorito il provvedimento della decapitazione linguistica "mammy and daddy" in U. K. chiedo di riflettere bene sulle implicazioni perniciose del loro provvedimento e di tornare sui loro passi, restituendo ai bambini un diritto intoccabile come l'aria che respirano.

Il mondo: un treno su binari senza prosecuzione

Temo che tutti i politici del mondo si siano messi d'accordo per estinguere la razza umana. Quelli delle 'potenze' e quelli delle 'non potenze' parlano allo stesso modo. "Corrono" (da soli o in compagnia), ma...dove vanno?!? Almeno loro sanno dove stanno andando?!? Sembrano fatti tutti con lo stampo: parlano, con aria assennata, con toni convincenti e picchi di 'sincerità' sconvolgenti, imboniscono le folle e se stessi, arringano e si arringano e il cittadino piccolo piccolo (che non ha visibilità e non ha voce) si sente invadere dalla disperazione: "Sì, ma io.../e i miei figli..., la loro vita...., la loro sicurezza..., il loro futuro...?/E i miei nipoti...? Come vivremo-vivranno..., per quanto..." I politici sembrano in preda al delirio, mentre indossano (tutti) occhiali-tornaconto visibili solo dall'esterno. Non ce n'è uno che parli di vita, di morte e di sopravvivenza. L'America ne ha pochi che "corrono per le presidenziali", noi ne abbiamo intere mute agguerrite. Corrono tutti contro la vita. Non ho sentito un solo discorso, un solo programma che parli delle molteplici direzioni che potrebbero aprire uno spiraglio per il futuro e per la vita. Somigliano tutti a macchinisti che, sapendo di essere su un treno lanciato in velocità su binari senza prosecuzione, si scarmiglino e si aggroviglino, disputandosi gli arredi e le 'ricchezze' contenute nei vagoni occupati dai passeggeri, immemori della direzione del treno su cui viaggiano, della responsabilità nei confronti delle vite umane loro affidate e del fatto che il treno precipiterà e si frantumerà nel burrone dopo alcuni chilometri, trucidandoli tutti. Pensando ai miei nipotini non ancora nati, mi sento stringere il cuore, anche perché non vedo schiarite-speranza. Siamo ridotti a dover sperare che gli Alieni esistano e che vogliano intervenire per far cessare almeno i delitti contro la natura, perché i popoli sono inermi da sempre, simbiondi del mexica Motecuzoma (Montezuma nella pronuncia spagnola errata): colui che potrebbe annientare i quattro straccioni arrivati dal mare e che si toglie le scarpe e gli va incontro a piedi nudi... La speranza è un bene prezioso. Non voglio che i nostri figli la perdano..., ma non so fare altro che rivolgere il pensiero a Dio e, onestamente, non so bene neanche che cosa chiedergli, perché dovrei chiedergli troppe cose. I miracoli da ottenere sarebbero davvero tanti, uno per ogni mente di coloro che comandano. Dio dovrebbe impadronirsi delle menti di tutti i politici della terra e dirigerle verso le decisioni risananti... I sogni sono possibili, comunque... Non ci restano che quelli e... le preghiere... In fondo, Dio è il solo che tutto può (chissà, magari farà scendere lo Spirito Santo sul popolo e lo farà sollevare contro le demagogie fuorviate/fuorvianti prima che l'intero gregge finisca nel burrone a capo chino...).

A Napoli, la gente ha cominciato a ribellarsi..., il resto del popolo non comprende... (cui prodest?). Il problema "sarà affrontato" e la gente se ne dimenticherà, istupidita e ipnotizzata dai vari placebo-Grandi Fratello (per le mandrie produttrici di eco-balle- perché "eco" poi, se tutto sono fuorché ecologiche). "Sarà affrontato" (?!?): ciò che conta è che la gente non veda più l'immondizia sulle strade, altro non le interessa. ‘Risolto’ il problema non sarà, per molto, molto tempo (perché l’immondizia è stata- è anche fabbrica d’oro, per chi in lingotti ha saputo- sa trasformarla- specialmente se ha tanto pelo sullo stomaco, da attutirvi l’impatto con la realtà dell’immondizia-fabbrica di diossina e di morte). Il tanto blaterare ha ventilato la necessità dei termovalorizzatori e della raccolta differenziata e ha ‘poeticamente’ quantificato il potenziale letale della diossina da falò selvaggio e di quella da ciminiera di termovalorizzatori. La scelta fornita alla vita umana è quella tra il male maggiore e il male minore. Né più, né meno. Bruciando l’immondizia con il fai da te, si muore di tumore in tanti e più in fretta, perché si produce la diossina e la si sparge attorno subito e in abbondanza. Bruciando l’immondizia con termovalorizzatori, si muore di tumori più lentamente, perché si produce meno diossina e la si deposita/accumula attorno nel tempo. È terribile ciò che la capacità di imbonitore dell’essere umano riesce a far accettare alla mente dei suoi simili…! Siamo davvero a un passo dall’estinzione, se possiamo accettare che si parli della vita umana in termini di statistiche e di numeri più o meno appariscenti o spaventosi.

Il problema non è quanta diossina/quanti tumori/quante vite umane… Il problema è: crea diossina? Provoca tumori? Uccide vite umane? Perché anche una sola vita umana è un prezzo troppo alto da pagare!!! La conclusione, allora, è: l’immondizia in sé non ha mai ucciso nessuno; ciò che la rende letale è la plastica che vi è mescolata. La raccolta differenziata risolve il problema? No!!! Perché ricicla soltanto la plastica di un certo tipo, ma lascia nell’immondizia i sacchetti, le vaschette e gl’imballaggi (a perdere) vari. Ben venga la raccolta differenziata: è necessaria, per riciclare il molto che è riciclabile, ma non basta e risolve meno della metà del problema. I vari parlatori-imbonitori, dunque, devono dire che è tempo di pensare a sopravvivere e che ciò non è possibile senza smettere di gettare nella spazzatura tonnellate e tonnellate giornaliere di imballaggi tossici. Occorre smettere di fabbricarli e di distribuirli con le varie merci, senza dare al cittadino molte chance di scelta. Chiudere le fabbriche relative sarebbe disastroso, per l’economia… Occorre, allora, diversificare la produzione delle varie industrie produttrici degli imballaggi tossici.

Capisco che il 'pil' famoso sia lavoro, benessere e cibo per tutti, ma capisco anche che ai morti di tumore non serva né pil né cibo. È tempo di trovare un’alternativa alla fabbricazione di imballaggi dannosi. I sacchetti di plastica stanno deturpando il mondo (e vi assicuro che persino l’Africa ne è ammorbata). È tempo di smettere di fabbricarli, toglierli dalla circolazione e sostituirli con sacchetti di stoffa o almeno di mater. Dobbiamo cominciare a tornare sui nostri passi, se vogliamo sopravvivere. Ci siamo spinti fin troppo in là…

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2008-Cina, Olimpiadi e sangue…: il Tibet piange e il mondo che fa…?

Il Tibet piange. L’etere attonito ascolta il suo grido e se ne lascia trafiggere… Perché il mondo non sente il lamento che si alza da una terra che è stanca di carni lacerate e di petti squarciati…? Perché la Cina è sorda alle invocazioni di aiuto e agli appelli dei pochi, dei molti e del mondo? La grande Cina ha preparato nozze tra la grandezza secolare e la simbologia di gloria e di civiltà con le Olimpiadi coniugate, ma qualcosa, da qualche parte, stride e si fa entropia ineliminabile e tragica.

La prima Olimpiade (776 a. C.) fu un evento che nessuno avrebbe mai dimenticato, un parametro-baluardo tra il prima e il dopo quell’accadimento, qualcosa che cambiò, in un certo senso, il mondo, tanto che anni ed avvenimenti furono computati e datati a partire dall’anno di quella prima Olimpiade (vedi Timeo ed Eratostene). L’antica Grecia, nella sua bella Olimpia, pensò e mise in atto i Giochi Olimpici in onore di Zeus e li volle grandiosi, indimenticabili e adatti ad onorare la massima divinità allora conosciuta. L’attesa dei quattro anni d’intervallo tra l’una e l’altra di queste gare divenne come un periodo di riflessione, un arco di tempo durante il quale prepararsi ad essere degni di quella manifestazione di livello elevato e di alta ispirazione simbolica.

Le cose stanno ancora così. Ospitare le Olimpiadi è un onore che le potenze mondiali si disputano da tempo immemorabile. La Cina è giunta a tale traguardo non a cuor leggero, non con facilità, non senza attesa, non senza impegno, non senza sofferenza, non senza complessi processi evolutivi, ma… (a livello di rispetto della vita umana) quanta parte ha dedicato nel prepararsi ad essere degna delle Olimpiadi e della loro valenza allegorica?

La Cina, la grande Cina che canto nella pagina web dedicata alla ‘mia Cina’ è la Cina del popolo stoico e tenace, la Cina del popolo detentore di una saggezza millenaria… La ‘mia’ Cina è quella cantata da J. Clavell in Taipan, quella che, ai tempi in cui l’Europa era ancora immersa nella preistoria, conosceva già livelli notevoli di civiltà; quella che, mentre il mondo moriva di scorbuto e di dissenteria beveva già acqua bollita sotto forma di tè; quella che, mentre in Europa si credeva ancora che fosse necessario indossare maglie di lana e cappotti in piena estate (e si sudava a morte e si puzzava non poco, soffrendo fino a schiattare), indossava già ndumenti di seta e alleviava la calura con bagni frequenti. Vorrei che ‘quella’ Cina prendesse il sopravvento e impedisse alla politica di invocare diritti-gioghi disumani e crudeli.

 

Il Tibet era una terra unita e felice governata dal Dalai Lama. L’Esercito di Liberazione della Repubblica Popolare Cinese di Mao Zedong vi giunse e la invase (non tanto in là nel tempo…, soltanto nel 1950) e accampò diritti che fanno pensare alla fiaba di Fedro in cui il lupo, abbeverandosi al fiume, disse all’agnello: “Ti devo mangiare perché mi hai intorbidato l’acqua” e, sentendosi rispondere dall’agnello: “Io sono a valle rispetto a te, come posso averti intorbidato l’acqua? Caso mai è il contrario…”, concluse: “Se non me l’hai intorbidata tu, me l’avrà intorbidata tuo nonno…”. I Cinesi dissero al Tibet che era loro diritto invaderlo, poiché i Mongoli, appartenenti allo stesso popolo, lo avevano già invaso secoli prima. Il Governo Cinese costituì (nel 1956) il Comitato Preparatorio per la Regione Autonoma del Tibet. La cosa parve una concessione quasi generosa, poiché a capo di tale Regione i Cinesi misero il Dalai Lama. Egli, però, dovette accorgersi presto di non avere voce in capitolo: ‘tutti’ gli altri appartenenti al Comitato erano alle dirette dipendenze del Governo Cinese.Una rivolta incontrollabile nata nel Tibet orientale (1957) si estese a Lhasa (1959). La Cina represse nel sangue ogni dissenso. Il Dalai Lama fu convinto dai monaci (che temevano per la sua vita) a lasciare il Tibet. Vestito da soldato (il 17 marzo) abbandonò, con la morte nel cuore, il leggendario luogo (il Palazzo del Norbulingka) delle sagge astrazioni medit/anti/ate-trovate nei pensieri e nei battiti involontari del cuore e si rifugiò in India, ove fondò il ‘Governo del Tibet in esilio’. La Regione Autonoma del Tibet, nota con l’acronimo TAR (Tibet Autonomous Region/in tibetano Bod Rang Sky Ljongsong/in cinese Xīzāng Zìzìqū, Regione dei Tibetani dell’Ovest), ebbe un governatore tibetano, il cui segretario cinese, di etnia han, era in realtà il controllo segreto del Partito Comunista Cinese. La Cina Comunista, con quella che fu chiamata rivoluzione culturale, commise un genocidio (trucidò molto più di un milione di Tibetani), distrusse 6.254 monasteri (con tutte le bellezze e le opere d’arte in essi contenute), schiavizzò in campi di lavoro almeno 100.000 Tibetani, commise veri e propri delitti contro la natura, distruggendo tutte (o quasi) le foreste. Hua Guofeng, salendo al potere, dopo la morte di Mao (1976), capì che procedere come in precedenza in Tibet era controproducente e invitò il Dalai Lama a tornare. Una commissione di monaci fu mandata in Tibet, a verificare la reale possibilità di tale rientro, con il permesso del governo cinese, e capì che far tornare il Dalai Lama sarebbe stato come metterlo in trappola. Deng Xiao Ping, successore di Hua Guofeng, inviò una sua commissione in Tibet e si rese conto delle condizioni disumane in cui versava la popolazione. Decise di imporre meno tasse, di concedere una certa iniziativa privata e la riapertura del Jakong e del Palazzo del Potala. La diminuzione dei divieti di culto permisero la riapertura di alcuni monasteri e funsero, per il governo cinese, come mezzo per richiamare in patria il Dalai Lama e impiegarlo in Cina come funzionario. Il Dalai Lama rifiutò; l’invito fattogli fu ritirato e ogni colloquio fu interrotto. Era il 1983; da allora il popolo tibetano, guidato prevalentemente dai monaci e dalle monache, ha cercato di far giungere a Pekino il suo grido di dolore, per i diritti umani negati. La risposta è stata una repressione senza pietà e il progetto di aver ragione dei circa sei milioni di Tibetani attraverso l’introduzione di una quarantina di milioni di Cinesi di etnia Han. La ferrovia del Qingzang (attiva dal 2006), che ha collegato Lhasa a Pekino, ha reso questo progetto molto più di una mera possibilità, dando il via ad un’immigrazione massiccia che prima era impossibile… Il turismo è permesso, con il supporto di guide cinesi. Le guide tibetane lavorano difficilmente e con molte limitazioni. Il XIV Dalai lama (Tenzin Gyatso), spezzato, come il suo popolo, dalla soverchiante sofferenza e impotenza, non chiede più l’ndipendenza e la sovranità del Tibet. Si accontenta di accettare la TAR (Regione Autonoma del Tibet) voluta dalla Cina e di chiedere che vi si riconoscano i diritti umani.

Tale richiesta, nel terzo millennio, nell’anno in cui la Cina si appresta ad ospitare le Olimpiadi, è uno schiaffo all’umana decenza, perché è impensabile e incredibile che esistano ancora popoli cui vengano negati i diritti basilari della razza umana. Non è accettabile che una nazione possa ritenere di essere degna di ospitare le Olimpiadi e di avere, contemporaneamente, il ‘diritto’ di negare i diritti altrui. La grande Cina dell’antica saggezza, delle ricchezze d’arte e di storia non puòcontinuare a fare un tale scempio del leggendario Tibet, che è patria della Montagna più alta del mondo e che, con l’Everest, pare essere casa della bellezza e degli dèi…/non può perpetrare tanta ingiustizia contro degli esseri umani e continuare ad essere recidiva…

La regione autonoma Xinjiang, le province cinesi Qinghai e Sichuan, l’India, il Nepal, il Bhutan, lo Yunnan hanno condiviso confini, odori, atmosfere e molto di più con il Tibet, attraverso i secoli.Le etnie cinesi Han e quelle tibetane si sono intrecciate in armoniose convivenze dal tempo dei tempi, insieme a quelle Hui, Monpa e Lhoba, prima dell’invasione cinese; perché la Cina comunista ha dovuto interrompere tale armonia e macchiarsi di delitti efferati?

Io ho molto amato la Cina (la sua storia, la sua vastità, la sua poliedricità, la sua ricchezza di spazi-paesaggi-monumenti, la sua bellezza, la sua seta, la sua arte, il suo artigianato, il suo popolo); ora, però, non posso accettare quanto accade in Tibet (è più di quanto il mio cuore possa sopportare). Non ho potere, non ho voce e non ho nulla da offrire alla Cina, in cambio di una sua inversione di marcia. Se avessi potere evoce, imporrei alla Cina i sogni come legge e la obbligherei a rinunciare a tanto accanimento orribile e ingiustificato. Ha tanto corso e scalpitato, ha tanto frustato i suoi ‘cavalli’ umani dell’economia (non senza altre deroghe ai diritti umani), per diventare una potenza mondiale: perché vuole rovinare tutto, mostrando oltre ogni possibilità di giustificazione il volto disumano di una politica sanguinosa e criminale? Ho chiuso nella memoria i giovani studiosi sterminati (a migliaia) in piazza Tienammen e ho trattenuto il fiato a lungo, per riuscire a calpestare quel selciato abbeverato con il sangue dei corpi tritati delle giovani menti del futuro cinese… Ho fatto appello a tutto il mio amore universale, per riappacificarmi con quella terra che aveva potuto sterminare il vivaio dei suoi rampolli umani e ho, di nuovo, amato la Cina…

Fingo di non sentire e non sapere ciò che si dice dell’uso dei giustiziati smembrati nelle prigioni e addirittura spellati e venduti a qualche nazista criminale reincarnato (perché li inceri e li spacci per ‘sculture’)… e dovrei fingere anche che queste nuove repressioni sanguinose in Tibet non siano reali…? Devo affermare che oltre questo limite il mio amore per la Cina non può proprio andare… e che la continuazione delle stragi in Tibet è la goccia che fa traboccare il vaso… Est modus in rebus, dicevano i Latini… e avevano ragione. Arriva il giorno in cui le usanze barbare vengono allo scoperto e devono cessare; per la Cina quel giorno era ieri, oggi è già tardi per perseverare nella incivile e criminale negazione dei diritti umani.

Il resto del mondo che cosa aspetta a revocare le Olimpiadi? E gli atleti, coloro cui il messaggio della vita sana e giusta (e della pace) è associato, come pensano di accendere e di portare la fiaccola simbolica e di gareggiare in una simile nazione? Meglio sarebbe annullare le Olimpiadi e dare un segno forte a chi, nel mondo, pensa di servire ‘Dio e mammona’ senza rimetterci neppure la faccia e senza perderci investimenti-stima e capitomboli industriali. La Cina sarà pure diventata una potenza, ma se il resto del mondo non le insegna oggi a ridimensionarsi, domani potrebbe estendere il Tibet chissà da dove a dove… È tempo (o, meglio, sarebbe) di porre argini ai soprusi, alle invasioni e ai genocidi (e di farlo senza armi e senza guerre: con la forza civile della condanna morale).

 

Olimpiadi in Cina (ovvero: Fiaccola olimpica in manette)

(‘Il Tibet piange’- seconda puntata)

Il giovane barone Pierre Fredi Da Coubertin ha fatto rivivere i Giochi Olimpici (morti e sepolti sin dal 393 a. C.).

Molti erano stati i tentativi falliti (1859 / 1870 / 1875), prima che lui riuscisse nell’impresa. Gli sforzi dei vari sognatori si erano infranti tutti contro la mancanza di strutture adeguate (che avevano relegato i giochi nel ruolo di gare rionali). Da Coubertin diede al suo sogno ali robuste, spendendo buona parte del suo patrimonio, viaggiando da un angolo all’altro del mondo e tessendo le trame dei consensi internazionali necessari alla dimensione ‘ecumenica’ dei Giochi Olimpici. 

Riuscì, infine (nel 1892), ad ottenere l’approvazione dell’Unione Francese per gli Sport Atletici e, successivamente, a far approvare la Prima Olimpiade dell’Era Moderna da parte del Congresso Internazionale di Parigi. Era il 1894, il miracolo di resuscitare le Olimpiadi era stato un successo!

Atene, nel 1896, fu la prima città-casa di quei ‘Giochi’ che non le erano estranei. Il re Giorgio 1° di Grecia lanciò da quel pulpito prestigioso l’idea che tutte le Olimpiadi future si tenessero in Atene.

Da Coubertin e il CIO decisero, invece, che i Giochi Olimpici, allo scadere dei quattro anni di rito, onorassero la Francia (Parigi- 1900), al turno successivo gli Stati Uniti d’America (1904)  e, di volta in volta, sempre una nazione diversa.

Il mondo tornò ad unirsi attorno ai Giochi Olimpici. La loro fiaccola ricominciò a far sognare e ad ispirare ideali nobili e belli. Le vie delle miserie umane sono infinite, però, e, purtroppo, s’imparentano con quelle della tracotanza, non risparmiando neppure i vessilli dei sogni. Le Olimpiadi conobbero una pagina buia, servendo al nazismo (1936) per celebrare (a Berlino) lo spirito nazionalista, militarista e razzista che, alla base del tristemente noto pangermanesimo, avrebbe segnato il mondo con indimenticabili orrori.

Pierre Fredi Da Coubertin, che morì l’anno dopo, fece in tempo a subire il grande dolore di vedere quell’undicesima edizione dei Giochi Olimpici trasformarsi in una farsa amara dei valori che egli aveva sognato di veder sventolare al di sopra dei confini-barriere tra i popoli e di veder diffondere attraverso l’atletismo (ispirato al sacrificio, alla disciplina e alla responsabilità del singolo-creatura dotata di capacità decisionali/autonomia e libertà). Le Olimpiadi di Pechino di questi valori hanno fatto piazza pulita, escludendo Pistorius, l’atleta che li incarna al di sopra di tutti; appoggiando la piattaforma dei ‘Giochi’ dei tempi di pace sull’oppressione del Tibet, ove il ‘singolo’, sia come individuo che come membro della collettività, è schiacciato nella sua libertà individuale e persino  eliminato dalla faccia della terra.

Le Olimpiadi 2008 ricordano quelle del 1936 e faranno rivoltare Da Coubertin nella tomba, checché ne dica Pechino, perché il suo parere è di parte e non è sincero.

Capisco i sacrifici degli atleti e gl’interessi mastodontici che sciamano nell’ombra, dietro le varie edizioni dei Giochi Olimpici, ma capisco anche che si dovrebbero salvare gl’interessi senza affossare il significato di una così alta manifestazione (che non può e non deve ‘passare il Rubicone’ letteralmente disseminato di ‘cadaveri’). Io non ho antipatia per la Cina, anzi l’amo, ma amo il suo popolo e la sua cultura e disapprovo la politica della violenza. Chi non la disapprova? I cori in tal senso sono unanimi, ma Pechino si mette la maschera e ne inventa ‘di cotte di crude’, per giustificarsi in modo puerile. Ha invaso e oppresso per decenni, potrebbe ora avere la decenza di riconoscere, almeno, i diritti umani? Si è presa la terra, la ricchezza e la vita della gente, potrebbe ora riconoscere a quei poveri oppressi il diritto di pregare e di onorare Dio come meglio credono, senza massacrarli e ammonticchiarli, intridendo di sangue la terra di cui si vuole servire? La terra si vendica dei suoi aguzzini e restituisce il sangue che riceve, prima o poi, ogni invasore se ne dovrebbe ricordare. Le Olimpiadi stanno a cuore a tutti, ma le nazioni che commettono crimini così efferati non le dovrebbero meritare, o no? I preparativi sono troppo avanti e non si può tornare indietro, ma si poteva qualche tempo fa… Perché le altre nazioni hanno borbottato come un padre contrariato (che permetta a uno dei figli di trucidarne altri)? Pechino sta facendo i comodi suoi, a parte inezie-passi da gambero. Ha massacrato e ha mentito, distribuendo a poveri giovani in divisa i travestimenti da monaci con cui aggiungere la beffa al danno del genocidio senza quartiere. Provo pena per i soldati comandati, che possono soltanto scegliere se versare il sangue altrui o quello proprio, ma non ne provo alcuna per chi li manda a commettere gli orrori.

Le nazioni del mondo avrebbero dovuto pensarci; se le Olimpiadi non potevano essere annullate, avrebbero dovuto essere trasferite. La voce del Dalai Lama tra quelle in favore delle olimpiadi a Pechino è amore per la Cina e inno per la mitezza. Egli si accontenta di salvare la vita dei Tibetani rimasti e non chiede più altro all’invasore, ma il resto del mondo dovrebbe pretendere qualcosa di più e non dovrebbe permettere lo scempio di inviare i nostri atleti a disegnare nel cielo di Pechino la grazia della loro bravura e ad avallare, in qualche modo, i modi di fare del padrone di casa (alias, la sua politica irriguardosa dei diritti umani in senso lato e dei valori più sacrosanti in assoluto). Io credo che, ancora una volta, la politica abbia scavalcato il volere del popolo: in tutte le nazioni, la fiaccola olimpica è stata contestata, o, meglio, ne è stato contestato il passaggio, data la sua meta finale. Le varie nazioni non hanno preso nota del volere del loro popolo, ma si sono schierate accanto alla Cina e lo hanno fatto nel peggiore dei modi: hanno spento il senso di quella fiaccola proprio tenendola accesa e impedendo ai manifestanti di raggiungerla. Coloro che volevano spegnerla, per assurdo, la volevano accesa. Gli Stati hanno scortato la fiaccola olimpica con le armi, come un prigioniere ammanettato… e questo è un pugno allo stomaco che non ha parametri passati-presenti-futuri / è una concessione alla violenza, un macigno pesantissimo sul piatto opposto a quello del bene, un’alleanza con le forze che non sono nella parte bianca del tao. Le ‘scorte’ della fiaccola diretta a Pechino hanno fatto anche uso delle armi. La fiaccola, in alcuni luoghi, ha lasciato, dietro e attorno a sé, esseri umani insanguinati…  

Questo è un precedente pericoloso: se (noi, cittadini del mondo) abbiamo potuto accettare che la fiaccola olimpica viaggiasse ‘in manette’ , fingendosi simbolo di libertà e di valori assenti, forse non sappiamo chi eravamo e da dove veniamo e non ci chiediamo chi saremo e dove stiamo andando…

       Bruna Spagnuolo

 

 

 

 

 

 

 

 

Selezione della specie

La razza ariana ha fatto tanto parlare di sé, spaventando il mondo intero, con le sue pretese di “razza pura”. Il mondo è inorridito e ancora lo fa (anche grazie alle giornate della memoria e alla condanna della storia).

Il nostro 'civilissimo' Occidente fornisce alla gente assistenza sanitaria e cure mediche e alle donne gravide dedica attenzioni senza fine. Ecocagrafie ed esami vari si sprecano a pioggia su ogni donna in attesa. Con ricorrenza regolare e ‘normale’ si prescrivono amniocentesi di qua e di là, per valutare con ‘naturalezza’ e ‘disinvoltura’ se sia o meno il caso di nutrire in seno, partorire, consegnare alla luce e alla vita ‘certi’ bambini, cioè certi figli di Dio. Evito di impegolarmi in diatribe circa l'opportunità e/o la saggezza di varie amniocentesi/villocentesi invasive (che potrebbero essere sostitituite o, almeno, precedute da uno Sca-test informatizzato e assolutamente innocuo tanto per la madre che per il feto); mi soffermo su altro (di più vitale valenza). Pare che ai medici, in primis, e ai genitori poi corra‘l’obbligo’, cioè il ‘potere’ di indirizzare alla nuova vita (già impiantata e in crescita nell'utero materno) pollice verso, ove ci dovesse essere sentore di ‘disagi’ e/o di ‘inabilità’ del nascituro. La nostra ‘civilissima’ era si permette il lusso di accendere l’infuriare delle discussioni sull’uso delle cellule embrionali e della clonazione, ma poi si autoinveste di poteri di vita e di morte e li dispensa con spaventosa seraficità a creature umane (che non hanno voce in capitolo). L’amniocentesi è, per il feto di turno un vero e proprio processo che può portare alla condanna a morte. Il verdetto può essere, infatti, infausto, se il caso vorrà che si possa ipotizzare (il più delle volte con estrema incertezza) la nascita di un bambino portatore di handicap. Senza girarci troppo attorno: se il bambino si ipotizza sano, forte e intelligente, viva, altrimenti muoia!

Che bella società di voltafaccia-assassini abbiamo creato! Diciamo di amare i nostri ‘disabili’, tanto che abbiamo inventato mille modi per non chiamarli handicappati (anzi, siamo così 'sensibili' che le nostre delicate orecchie non sopportano neppure il suono della parola 'disabili' e abbiamo inventato la dicitura 'diversamente abili'-che ipocriti!). Abbiamo lottato e lottiamo per l’abbattimento delle barriere architettoniche e per l’inserimento sociale a vari livelli dei disabili e ci sentiamo migliorati e arricchiti dalla loro presenza tra noi (tutte cose sacrosante). Li amiamo tanto che, pur di non farne nascere altri, li uccidiamo ancor prima che crescano nel grembo materno e che vedano la luce…Mi domando: se i medici avessero la palla di cristallo e potessero prevedere il futuro, con le mutilazioni sopraggiungenti insieme al rischio di vivere, consiglierebbero alle madri (dei futuri individui destinati agl'incidenti) di portare avanti la gravidanza o le indurrebbero ad interromperla? I bambini 'scomodi' (perché con qualche cromosoma 'impertinente') li dobbiamo sradicare come pianticelle in embrione di 'malerba' umana (per ora); più in là, non arriveremo a testare il quoziente intellettivo dei bambini non ancora nati e a sopprimere quelli che non ne hanno uno al di sopra della media (o che hanno ereditato qualche cromosoma da un antenato che non gode della nostra approvazione)? E la vita, in tutto questo, da che parte sta...? E il diritto di vita o di morte chi lo ha ricevuto da chi (e quando)? Chi è che, spada in mano, fa inginocchiare davanti a sé medici e donne gravide, li tocca sulla spalla e li grazia con un'investitura a tutto campo di cavalieri sterminatori di bambini down / poco intelligenti? Coloro che 'contano' (i politici -che legalizzano quanto accade) non perdono occasione per vantare molta 'generosità' nei confronti dei 'disabili'/'diversamente abili' (in occasione delle campagne elettorali, alcuni di loro trovano utile farsi fotografare con gli handicappati, perché la cosa può portare addirittura dei voti)... Non è difficile pensare che essi, forse, cercano di approfittare dell'occasione (finché sono in tempo, cioè finché la 'selezione della specie' scrupolosamente perseguita non porti a completa estinzione della 'campionatura' ancora in circolazione). Chiedo perdono per il tono che può apparire terribilmente cinico; tale non è, lo posso garantire: nasce soltanto da una disarmata, dolente e stupita impotenza, in quest'era di confusione estrema, in cui posizioni (di destra, di sinistra, di centro, d'apice, di vertice, d'ipotenusa, d'angolo, di cinrconferenza) che dovrebbero essere teoricamente opposte coincidono, infine, nel tritatutto ideologico e nell'olocausto di qualsiasi argine sensato.

L’uomo, forse, dovrebbe vergognarsi di guardarsi allo specchio… (quando si accorgerà di aver toccato il fondo -nella sua caduta a picco verso il basso?). L'umanità dovrebbe tremare per i delitti contro gl'innocenti. I bambini sono tutti innocenti (più intelligenti, meno intelligenti e down). I bambini down già nati vengono sottoposti a interventi di chirurgia estetica (per fornire 'alibi' alla superficialità umana); quelli non ancora nati (gl'innnocentii più indifesi che ci siano, perché non hanno neppure consistenza-morbidezza-visibilità/visino e manine con cui suscitare tenerezza) vengono eliminati bellamente (con quella che è, in realtà, una vera e propria 'epurazione' e che viene camuffata con sofismi a volontà). Medici e genitori dovrebbero avere il coraggio di farli nascere e di tenerli in braccio, prima di sopprimerli (gettandoli, eventualmente, da una rupe tarpea moderna appositamente allestita). Ciò che fanno ora non è meno empio (benché sia meno visibile). Non credo sia vero che le azioni umane non abbiano conseguenze morali e credo, invece, che, da qualche parte, nell'universo, esista una banca delle azioni positive e/o negative: le azioni cattive sono semi del male e non possono che portare frutti adeguati. Le vie del tornaconto (della comodità e dell'assenza di sacrificio) sono, indubbiamente, più larghe, ma... sicuramente non vanno verso l'alto...

  ‘Si vis pacem, para bellum

(‘Auguri agl’Italiani’- seconda puntata)

Gli eventi si susseguono con una velocità eccessiva. La gente impara a farseli scorrere addosso, per non soccombere. Le menti individuali si fanno simbiondi inconsapevoli della collettività globalizzata e, intanto, si costruiscono bolle-nidi all’interno dei quali s’illudono di vivere realtà familiari protette e ‘lontane’ dagli sconvolgimenti comunali, provinciali, regionali, nazionali, internazionali e mondiali. La cronaca, rosa-viola-gialla o nera, locale o mondiale, ha sfondi più grigi che azzurri; è comunque variopinta d’ansia, buca i reality dopanti e penetra all’interno della corteccia-divisorio che separa la tana familiare apparente dal mondo esterno preoccupante. I singoli si sentono, allora, come scoiattoli braccati bisognosi di nascondersi nel folto della foresta viva e sommersa. La vita, in fondo, negli alveari-condomini circostanti, fuori dalla finestra, ai lati dei finestrini delle auto, nei negozi e nei centri commerciali, nelle città e nella nazione, nelle notizie mediatiche e nei giornali, scorre e si rinnova con il sorgere e il tramontare del sole e con le varie lunazioni ignorate. Le ombre che si profilano, attraverso le notizie indesiderate, sono nubi da fugare, per poter snodare le ore del quotidiano, con tutti i suoi affanni spiccioli niente affatto trascurabili. Il singolo suda dietro la sua ‘carretta’ privata e non ha tempo, per alzare gli occhi (e le mani) verso il carro più grande che trasporta le piccole ruote individuali e verso la piattaforma generale che racchiude tutti i carri nazionali. Qualcuno si accorge che si sta per deragliare in massa e si sgola, per avvertire gli altri (invano), a corto di fiato, infine, si dibatte nel dubbio: conviene continuare a gridare o smettere e piegare la schiena sui propri interessi e lasciare che “chi sa fare faccia, chi non sa fare comandi e chi non sa comandare insegni”? L’inconscio, però, non tace e continua a tormentare la coscienza di chi non è passivo e non sa ‘farsi i fatti suoi’, alla faccia della sopravvivenza generale. Ci vorrebbe un miracolo, ci vorrebbe che il Nazzareno tornasse a calpestare le Galilee del mondo, aprendo le orecchie dei sordi e gli occhi dei ciechi, con impacchi di semplice fango e saliva e con la parola “Effeta”. “La speranza è l’ultima a morire”:  auguriamoci che non muoia mai! Il singolo crede di non poter fare nulla e di non avere voce in capitolo; tutte le sue cellule ricevono messaggi in tal senso a livello subliminale. Gli ignavi si scrollano di dosso qualsiasi disagio e si sentono a posto, anche quando vedono e sentono, potrebbero intervenire e non muovono un dito. Loro non sanno che non stare dalla parte di nessuno significa sempre stare, comunque, dalla parte della prevaricazione, dell’ingiustizia e, alla lunga, del male. Chi lo sa fa quel che può, anche a costo di sfiorare il ridicolo e di imbattersi in trappole imprevedibili.

Non bisogna scoraggiarsi. Il mondo è sempre stato complicato, pieno di ingiustizie e di guerre, nonché di filantropi volenterosi, di eroi, di tiranni e di ignavi indifferenti. È tutto vero, ma… il mondo di ieri non rischiava l’estinzione… Le guerre e le invasioni di ieri potevano ‘esportare’ la violenza, gli eccidi, i genocidi e le oppressioni; potevano annettere e annettersi e cambiare l’assetto degli equilibri e dei confini tra imperi e nazioni. Le ‘guerre’ di oggi, oltre a combattersi dietro le trame occulte della dilpomazia e a cambiare i giochi di potere dei confini visibili e invisibili sparsi sul globo terrestre, albergano minacce-estinzioni world-wide e senza deflagrazioni. Le popolazioni odierne hanno pochi mezzi-difesa e sono pressoché inermi. Le minacce contro la loro salute hanno in comune con alcune di quelle del passato soltanto l’invisibilità, ma si sono allargate in tipologia e numero in modo così spropositato che l’inconscio individuale e collettivo ne è ‘nanificato’ e ‘orrificato’. Il risultato è che la gente è ‘overcome’ dalla paura: nelle sue case respira ellettrosmog e fuori respira polveri sottili (e magari anche diossine e Dio sa cos’altro); sulla sua tavola apparecchia diossine e una quantità infinita di altri veleni; sul mercato industriale viene condizionata e spinta verso prodotti (anche farmaceutici) dannosi (quando non letali); al suo rubinetto attinge atrazine e altro ancora. Un senso ineliminabile di impotenza è la conseguenza inevitabile e nefasta, che porta i cittadini dei vari stati a chiudersi in una corazza di indifferenza fatalistica e, ahimé, di ignavia.

Abbiamo bisogno, in Italia, come altrove di politici nuovi e di politica illuminata, perché soltanto i politici, ormai, hanno voce in capitolo, se e quando hanno mente e animo scevri da pastoie-connivenze locali e/o planetarie e cuori aperti all’amore per il proprio futuro e per quello del genere umano.

Ho fatto gli auguri agl’Italiani, alla vigilia delle elezioni. Erano auguri che nascevano da un escursus di buona parte dei partiti papabili al voto e dei motivi di sconforto dell’elettorato. Ho, poi, osservato un periodo di silenzio sabbatico, che interrompo ora. L’Italia ha un nuovo governo. La valenza dell’attributo ‘nuovo’ dipenderà dal cocktail delle sovrapposizioni-sforzi della maggioranza e delle interessenze-opposizione e dalla consistenza delle loro sincerità-fedeltà al bene comune.

Rifaccio gli auguri agl’Italiani: che le ideologie estreme (di qualunque punto cardinale) non siano benvenute in alcuna scia-influenza  con strascichi-decreti-provvedimenti legislativi. Vorrei poter esprimere gioia e fiducia senza riserve. Vorrei poter dire agl’Italiani: “Siate sereni e non preoccupatevi più di nulla”. Vorrei poter dire lo stesso al resto del mondo…: se lo facessi, anche i più indifferenti mi deribbero. Quelli che un tempo erano ‘problemi’, oggi sono ‘macroproblemi’ e ricadono tutti sulle mani dei politici mondiali. Essi, perciò, non sono più coloro che vengono eletti in una nazione per occuparsi dei problemi di quella nazione; sono coloro che, oltre ad avere la responsabilità della vita dei loro connazionali, hanno in tasca chiavi che neppure sanno di avere e che possono aprire porte che danno accesso a dimensioni dalle ripercussioni imprevedibili.

Limitandoci a parlare dei fatti di ‘casa nostra’ rimaniamo comunque legati ai fatti mondiali ed è con questa premessa che faccio, ora, gli auguri all’Italia e a coloro che si stanno organizzando per governarla da ora e per cinque anni. Dato il periodo disastroso dal quale l’Italia è reduce, non si fanno diagnosi di cadute di questo governo; su di esso gl’Italiani contano per mille e una soluzione di problemi. “Auguri” è la parola da indirizzare anche al governo. La formulo nel cuore, con slancio sincero, ma nella mente essa si rannuvola di un disagio subdolo e tenace... Vorrei che i politici dicessero alla gente cose diverse da quelle di ieri, cose adeguate al secondo millennio, cose legate ai problemi della sopravvivenza globale e vorrei che la gente non volesse essere trattata come infanzia bisognosa di ninnenanne-placebo pietose, egocentriche e infantili. L’aumento del costo dei generi di prima necessità, del latte, del grano e dei carboidrati in generale sta sconvolgendo gli equilibri globali del pianeta; il rischio di catastrofi varie ha iniziato il suo count down; la nazione amata e bella di ognuno non è più la sola casa a cui badare, perché ha porte-vasi comunicanti con le case altrui. Non possiamo più limitarci a parlare di pensioni e/o di spazzatura, perché i drammi urbi et orbi disseminati sono ormai divenuti tutti ‘nostrani’. La politica ha mai come oggi avuto tanto bisogno di miracoli-oculatezza senza fine, perché mai come oggi ha avuto bisogno di guardare lontano e di non limitarsi ai ‘sintomi’ vicini dei malesseri sociali. Ho parlato di ‘politici illuminati’ ed è con tristezza che mi rendo conto che tale dicitura non può più essere presa alla leggera. Essere ‘illuminati’, per i politici di un tempo, voleva dire avere un occhio attento alla politica interna e a quella esterna e saper dire al popolo ciò che voleva sentirsi dire. Temo che i politici modiali siano rimasti ancora e sempre lì, ma oggi le cose sono cambiate: essere o non essere ‘illuminati’ può fare la differenza tra sopravvivere ed estinguersi come genere umano… I politici contemporanei non possono più permettersi di ‘sentirsi illuminati’ soltanto perché ricevono maggiori consensi degli avversari; hanno il dovere di mettere sul piatto della bilancia tutti i problemi mondiali, anzi tutti i macroproblemi, e di sganciarsi dalla politica spicciola dell’interesse economico (sia esso legato all’orticello personale o a quello nazionale). I problemi socio-economico-sociali del pianeta oggi riguardano tutti, nessuno escluso. I politici devono svegliarsi e devono cambiare ‘occhiali’, perché decidono della vita dei pochi, dei molti e di tutti. Gli antichi Romani usavano dire: “Si vis pacem, para bellum”. L’impero romano fu costruito con tale lungimiranza; se i Romani avessero atteso la calata dei nemici, illudendosi che la cosa potesse non evvenire e oziando, nell’indifferenza, sarebbero stati spazzati via prima che la storia sapesse della loro esistenza. Lo sfaldamento dell’impero romano è iniziato proprio quando il senato romano, divorato dalle ambizioni e dalla corruzione, ha dimenticato di uniformarsi a tale detto.   

I politici dovrebbero abbeverarsi a quel proverbio, adattandolo  al presente del pianeta terra: “Se vuoi sopravvivere, pensaci per  tempo”; se hai un problema di power-shortage, risolvilo pensando all’ambiente e alla vita del genere umano, anche se ciò dovesse significare fare qualche rinuncia, e non lasciarti accecare dal numero di consensi che la via più breve e meno in salita ti procurerebbe; se puoi eliminare gl’imballaggi pericolosi e bruciare l’immondizia senza uccidere, spiana le vie di quella direzione e non saltare alle soluzioni immediate che stendono i visi con i sorrisi e scavano le anime con rughe profonde come cimiteri atti a contenere i genocidi; se devi scegliere alleanze, cercale tra i popoli rispettosi dei diritti umani;  prepara per tempo le strategie salvanti del pianeta e ricordati che non sei eterno in questo mondo e che nel giorno della morte (sicura per i potenti, come per gli ultimi miserabili) renderai conto delle mappe-gesti che hai additato ai ‘Posteri’.

Scegliere di entrare in politica è da tutti; scegliere di fare il politico ‘illuminato’ non lo è ‘neanche per sogno’. Non vorrei ‘essere nei panni’ dei politici e neppure ‘in their shoes’, perché le loro possibilità di errore sono infinite e le cose di cui risponderanno a Dio sono abnormi. Ci vuole misericordia nel giudicare chiunque e quella misericordia va moltiplicata per milioni, quando si tratta di politici ad alto livello, purché essi si facciano casa della scintilla divina della creazione e non la rinneghino prestando giuramenti al solo fango che li ha generati.

Facciamo nostro ciò che disse M.L.King: “I have a dream”. Diciamo anche noi: ‘Io ho un sogno’ e questo sogno sia che il presente e il futuro vedano la nascita (o la rinascita?) di infinite figure di politici ‘illuminati’, o, magari, la nascita di quella sola categoria di politici e la scomparsa definitiva dei politici corrotti, ottusi, ciechi e ‘auto-distruttivi’.   

Bruna Spagnuolo

I MISTERI DOLOROSI DEL ROSARIO QUOTIDIANO DEI

GIORNI CONCESSI (O LESINATI?) AL GENERE UMANO

Ho già detto, in lungo e in largo, come e perché le scelte di una sola nazione siano importanti per tutte le altre e come e perché incrementare il numero delle centrali nucleari sia una terribile scelta tesa a posizionare reattori-minacce perpetue e fisse e a ‘distribuire’ nella già inquinatissima terra di regioni e nazioni scorie giornaliere sine qua non di uranio e plutonio e come tutto ciò possa portare a un punto di non ritorno.   

Mi guardo attorno e vedo pochi spiragli. Ci sono molte ‘gocce piccole di speranze grandi’, nel mondo, è vero… e alcune città e nazioni virtuose e sagge. La cosa triste di questa nostra era è che le persone dalla vista corta, quando governano, possono vanificare le cose magnifiche fatte dai grandi della terra… Accade, in questo ‘progredito’ terzo millennio, purtroppo, che ogni singolo stato possa mettere in pericolo la vita di buona parte del pianeta, che ciò che fa l’Europa non possa lasciare indifferenti gli altri continenti e viceversa e che ciò che noi Italiani facciamo (o chi per noi) vada a pesare sulla vita di gente che pare non avere nulla a che fare con noi.

L’Italia ha un nuovo governo e si sta rimboccando le maniche… Le cose da fare sono tante e le decisioni da prendere sono di vitale importanza. Non voglio entrare nel merito della governance spicciola dei vari ministeri. Mi domando soltanto in che direzione stiamo andando, nel quadro più grande della sopravvivenza mondiale. Non sono interessata alle varie etichette politiche, né alle varie ideologie (di casa e di fuori casa) che, ormai, per quanto diverse, non sono utili a nulla e a nessuno (dal momento che hanno cambiato padrone e che non servono più il genere umano). Immaginando che la vita sia un santo rosario, avrei voluto che gl’Italiani potessero scegliere di recitare i misteri, se non gloriosi, almeno gaudiosi, ma temo, ormai, che non possano fare altro che subire quelli dolorosi: il governo italiano ha deciso per il nulceare. Ho già spiegato come e perché tale decisione sia disastrosa per l’Italia e per il resto del mondo, che dovrebbe indirizzarsi verso le fonti di energia alternativa (rispettose della vita sulla terra e meno costose). 

Le centrali nucleari verranno costruite. Ciò è un dato di fatto schacciante, che, di per sé, pesa addosso agli esseri umani come una catastrofe incombente, ma contiene anche risvolti pratici che non andrebbero disattesi da chi è favorevole al nucleare. Verranno costruite oggi centrali nucleari che saranno superate prima di essere completate e che vedranno, prima di cominciare a funzionare, la nascita di centrali con l’impiego della tecnologia nuova e più sicura (ora in fase di sperimentazione). I nostri governanti hanno scelto una fonte di approvvigionamento che, se va bene, cederà alla terra soltanto il suo potenziale radiottivo giornaliero sicuro come la morte e, se va male, cadranno nelle spire di qualche errore umano o di qualche catastrofe naturale e causeranno un’ecatombe immediata. Il resto del mondo rischia di fare le stesse scelte e di non lasciare molte alternative alla vita sulla terra… Ogni stato si lascia depistare dal fatto che ‘tanto gli altri hanno già fatto tale scelta’ e trascura la nozione essenziale che la percentuale attuale lascia al mondo ancora delle buone chance e che aumentarla è demenziale.

Gli uomini hanno oltrepassato il punto d’incontro tra umanità e benessere e si sono trasformati in ibridi asserviti e incosapevoli: da padroni sono divenuti schiavi della sete di potere e servono la loro stessa autodistruzione. Essi, perciò, lungi dal merittare odio e rancore, suscitano pena, come bambini ignari del destino al quale corrono incontro giocando.

Gli argomenti degni di riflessione sono infiniti, come i vari rami dello scibile umano, ma tutti perdono d’importanza di fronte allo stridore prioritario che denuncia i pericoli primari. ‘La gente’, in generale, non ama sentir parlare di sopravvivenza e di estinzione, non ama sciorinare le sue paure e preferisce, piuttosto, seppellirle sotto strati doppi e tripli di indifferenza apparente, gratificandosi con le sensazioni rassicuranti provenienti dalle finzioni-cosmesi pubblictarie e dalle scene di vita agiata e piacevole.  Sappiamo tutti di essere circondati da gente che muore, ma preferiamo sperare che non accadrà a noi e demandare a ‘chi di dovere’ il ruolo di decidere ‘per il meglio’ al posto nostro. Chi vorrebbe fare di più non va da nessuna parte e lotta contro i mulini a vento. Chi comanda ‘programma’ la vita del ‘paese’ e dimentica di scandagliare la ‘programmazione’ globale a breve-media-lunga scadenza. ‘Dimentica di ricordarsi’ che ha già vissuto a lungo, che la vita restante è breve anche per chi governa e che può servire a dare impulsi per la sopravvivenza o per l’estinzione dei Posteri. Pensa, in poche parole, solo a ciò che gli può dare vatnaggi nel misero e caduco ‘oggi’. Il ‘domani’ gli appare come un’ombra molesta da rimandare o da destinare ad ‘altri’.

Così e soolo così si spiega il perché di certe decisioni. Ho già detto cose simili e non ho paura di ripetermi. Vorrei poter gridare la gioia delle decisioni sagge di chi governa la nostra nazione e le nazioni altre. Mi piacerebbe tanto. Posso, anzi, dire che non aspetto altro…, ma, per ora, non mi resta che sperare che i figli dei nostri figli abbiano ancora un mondo in cui vivere e che, se il mondo vedrà il giorno della fusione nucleare, abbia la capacità di ‘smantellare’ e di ‘bonificare’ la morte duratura che ora decide di spargere lautamente ovunque.

Bruna Spagnuolo

- La guerra dell’ambiente -

  L’uomo ha cercato di migliorare le sue condizioni di vita, sin dalla sua comparsa sulla terra. Ciò rientra nella giusta vivacità della sua mente, fatta per raccogliere sfide e per uscirne vittoriosa, ed è una caratteristica di cui il genere umano dovrebbe andare orgoglioso. Per molto, molto, molto tempo, infatti, ne è andato orgoglioso, ma può essere ancora così…?

   Raccogliere le sfide della natura significa prepararsi a sostenerne la prorompente forza d’impatto, per sopravvivere e convivere con essa. L’uomo dei giorni nostri, ormai, non si limita più a fare tutto questo. Si è spinto ben oltre il rapporto consentito tra la natura e le sue creature e ben oltre la linea di demarcazione tra il “cogito ergo sum” e l’esatto contrario di esso. L’uomo dei nostri tempi ha dimenticato il senso e persino l’esistenza di parole come ‘etica’,’prudenza’,’sopravvivenza’, ‘pensare’,’scegliere’; si è costruito un ego a misura di universo, vi si è collocato al centro e si è avventurato oltre frontiere che non avrebbe mai dovuto varcare. Ha partorito mostruosità, che lo inseguono, chiamandolo ‘padre’, di cui invano  misconosce la paternità. Ha reso possibili cose terribili, di cui la guerra dell’ambiente è un esempio dalla portata imprevedibile e immensa.

   Ogni singolo ingegno dedito allo studio, alla ricerca e alla scoperta non avrebbe mai immaginato l’impiego riprovevole del frutto dei suoi sacrifici (se lo avesse fatto, forse, avrebbe distrutto ogni traccia delle sue scoperte). L’uomo, oggi, grazie agli scienziati (che credevano di fare doni incommensurabili all’umanità) è in grado di scatenare tsunami, terremoti e trombe d’aria di proposito; con l’uso di trivellazioni e di bombardamenti mini-nuke o di vario tipo, è in grado di agire sullo strato di ozono, sulla terra e sul mare; è in grado di rivoltare le forze della natura contro intere popolazion inermi e innocenti e di provocare catastrofi infinite e vere e proprie apocalissi.

Mai la storia dell’umanità ha conosciuto mostri e mostruosità di simile entità…

   La guerra tra popoli è sempre esistita, ma il potere devastante di cui l’uomo contemporaneo si può servire (subdolamente e diabolicamente) sconfigge qualsiasi potenziale descrittivo degl’idiomi terrestri. Coloro che hanno osato arrivare a simili estremi hanno ucciso l’urlo del guerriero/ la tensione scultorea dei muscoli degli audaci tesi nello spasimo della lotta per la vita/ i Gengis Khan della steppa/ gli Achille e gli Ettore del mito/ la carica epica delle cavallerie di tutti i tempi/ l’eroismo dei cuori votati alla morte per spirito di corpo, per una patria, una famiglia, una bandiera/ le strategie che prevedevano un campo di battaglia impassibile, immemore, immutato e immutabile testimone delle stragi reiterate degli avvicendamenti-formicai umani.

   Hanno ucciso anche Superman e gli attacchi in picchiata dell’aquila dall’adunco rostro; hanno spazzato via tutto, insieme alla stessa guerra e ai piccoli uomini che la combattevano. Ciò che hanno lasciato è talmente macroscopico che non può entrare nei piccoli cervelli umani (spesso, purtroppo, abbastanza idrocefali).

   Vedere gli esseri umani morire come mosche in tragedie apocalittiche è terrificante, ma doversi anche chiedere se tali tragedie siano volute e/o causate da altri esseri umani è al di là di qualsiasi possibile sopportazione. Sedotta, tradita e vilipesa, la scienza s’interroga sugli alfabeti-saggezza necessari a far rinsavire il bipede umano ormai impazzito. Chi ha ancora un’anima si domanda se esista ancora l’uomo, i. e. se l’essere vivente capace di ‘tanto’ possa ancora chiamarsi ‘uomo’. Sarebbe, forse, il caso di decretare l’inizio di una nuova era ‘abitata’ da una nuova specie dal genoma bacato. Tale specie potrebbe essere chiamata ‘genobaca’. Coloro che non si riconoscono nella specie dei Genobaca e che ritengono di potersi ancora chiamare ‘uomini’ molto avranno da patire e da lottare, se vorranno invertire il count down innescato dai Genobaca. La terra è stata teatro di lotta per la sopravvivenza da sempre ed è arrivata al punto in cui due soltanto saranno gli schieramenti contrapposti, sulla sua superficie sferica: quello dei suoi nemici e quello dei suoi amici. I Genobaca sono nemici della terra e di ogni forma di vita su di essa, gli ‘uomini’ sono gli amici su cui la terra e tutte le forme di vita possono contare. Non resta che chiamare tutti gli ‘uomini’, ovunque sparsi, a prestare servizio attivo, in qualsiasi postazione, e a non cedere terreno agli oppositori, perché la posta in gioco va oltre la piccola monade individuale e anche oltre la monade collettiva estesa al vicinato, alla città, alla regione, alla nazione…     

  Bruna Spagnuolo

- Le gocce piccole delle speranze grandi- Continua…

   Tutti hanno sentito definire Modena ‘capitale del biologico’, in questi giorni. L’esposizione-crocevia mondiale di tutto ciò che dall’ambiente/nell’ambiente/per l’ambiente e per l’uomo si produce a tutta rosa dei venti è magnifico e fa ben sperare. Viene spontaneo pensare che sia una fortuna che cose come questa accadano e vadano a fare da contrappeso sulla bilancia della vita sulla terra … È rincuorante scoprire che, insieme alle forze del male, le forze del bene sciamino come alveari benefici e creativi. Ogni giorno che passa porta doni pregevoli alle possibilità di sopravvivere senza danneggiare né l’ambiente né la vita dell’uomo. I modi per creare energia pulita si arricchiscono di ora in ora; là dove prima esisteva l’energia eolica di ‘vecchio tipo’ (mi si perdoni la definizione) ora esiste anche la possibilità di costruire generatori eolici troposferici che possono sostituire migliaia di torri a pale eoliche, occupando poco spazio e basandosi su un sistema di funi e di poetici aquiloni. Uno di tali generatori potrebbe sostituire a buon diritto una centrale nucleare. Uguaglianze tra un generatore eolico troposferico e una centrale nucleare : necessità di una zona di divieto di volo; attività estesa a un numero quasi illimitato di ore; alta produzione.

Differenze tra un generatore eolico troposferico e una centrale nucleare: il generatore troposferico non avrebbe alcun impatto negativo sull’ambiente; non danneggerebbe neppure gli uccelli che eventualmente vi finissero dentro; non farebbe che bene alla salute della gente; costerebbe infinitamente meno (come costruzione: circa seicentomila euro), in una proiezione economica a breve raggio, e ancor meno, in una proiezione a lungo raggio, poiché userebbe ‘materia prima gratuita’ (il vento); potrebbe essere costruito anche nelle zone senza vento, perché il vento lo va a pescare dove c’è sempre (nella troposfera).

La centrale nucleare, al contrario, come tutti sanno, emette scorie altamente radioattive che vanno ‘allettate’ negli strati geologici della madre terra (come figli velenosi e matricidi) auspicabilmente tra strati di sale (indice di mancato passaggio di acqua), di granito o di argilla (impermeabili -se, a lungo andare, ci si potesse fidare dello smaltimento abituale, ripetitivo e oneroso, che, avversato dalla gente consapevole, potrebbe non tardare a finire nelle vie tortuose dello smaltimento abusivo, e se nessun movimento tellurico o tettonico ne disturbasse il ‘sonno’); nuoce alla salute della gente e uccide la vita sulla terra; costa quattro miliardi di euro (come costruzione) e ancor di più come mantenimento quotidiano, perché si basa sul consumo di minerali rari e costosissimi come il plutonio e l’uranio; non può essere costruita ovunque.

-L’insensatezza delle centrali di terza generazione –

La sanno tutti l’ultima sulla scelta di voler costruire, a tutti i costi (ma proprio tutti-tutti) e frettolosamente, le centrali nucleari in Italia? Si poserà la prima pietra, per così dire, entro il 2011, di almeno quattro delle centrali in programma, che cominceranno a funzionare nel 2020. Lo scopo di ciò è coprire il 10% dell’energia di cui l’Italia è carente. Traduco: si costruiranno centrali che produrranno scorie radioattive tremende a pioggia continua; si esporranno lavoratori in carne e ossa (che dovranno essere monitorati, ecc.) ai turni di lavoro nei loro ambienti malsani; si dovranno decidere siti in cui ‘conservare’ le terribili scorie; si metterà una nazione intera in balia degli elementi della natura (sempre meno sicuri, con i tempi che corrono) e dell’imprevisto da scongiurare… per risolvere il 10% del problema!!! E tutto questo sapendo che basterebbe aspettare qualche anno ancora, per poter costruire le centrali di quarta generazione, quelle che non producono scorie radioattive!!! E sapendo anche che, con tutti i milioni di euro che spenderemo per costruire quelle fabbriche di morte potremmo comperare energia da qui all’eternità (o quasi)!!! I bruciatori dell’immondizia li si vuole costruire a tutti i costi del tipo che scarica diossina nell’aria (di qualsiasi percentuale si tratti), sebbene esista la possibilità di scegliere quelli che non ne producono; le centrali nucleari le si vuole costruire in fretta e furia del tipo che uccide, sebbene si possa attendere e costruirle, tra alcuni anni, del tipo che non uccide…, ma, allora, c’è qualcosa (di molto grave) che non va da qualche parte!!!

Passi che il popolo tutto si sia espresso a sfavore del nucleare (nientemeno attraverso un referendum) e che non gli sia stata data altra possibilità di riconfermare o smentire tale parere, ma ci vorrebbe almeno un senso in ciò che un governo decide per i suoi elettori (specialmente quando ne va della loro vita e di quella dei figli dei figli, ecc.). Questo governo non sarà più là, quando le centrali nucleari si ergeranno contro l’orizzonte  con tutto il loro potenziale malefico intrinseco, ma tutti i suoi componenti saranno testimoni degli eventi di cui si rendono artefici ora. Vorrei che riflettessero: quando le centrali di terza categoria cominceranno ad essere smantellate nel mondo, perché foriere di radioattività spaventosa, loro saranno ‘orgogliosi’ di veder inaugurare quelle dello stesso tipo (cui ora danno l’avvio ‘con piena avvertenza e deliberato consenso’)? Perché vogliono dissanguare la nazione per costruire delle strutture che, oltre ad essere pericolose, sono già superate in partenza? Non conviene attendere di poter costruire le centrali di quarta generazione e intanto reperire il 10% energetico attraverso le vie ‘pulite’? La giustificazione per la costruzione delle centrali nucleari è la carenza di energia (che compriamo da ‘chi le centrali le ha’): se la ‘carenza’ non verrà coperta, che giustificazione è? Le energie alternative non si vogliono prendere in considerazione ‘perché coprirebbero solo una piccola parte del bisogno energetico’... e ora sappiamo che le centrali nucleari farebbero esattamente la stessa cosa…  Sapere che il 10%, racimolato con energia ‘pulita’, rispetta l’ambiente e la vita umana e che lo stesso 10%, strappato all’uranio e al plutonio, con centrali non ancora perfette, la vita la uccide, non dovrebbe lasciare dubbi sulla sola direzione possibile…

Non so come ci si possa far ascoltare, ma una cosa è certa: non è giusto che il cittadino non debba avere voce in capitolo…

A tutti i componenti del governo vorrei lanciare un appello: per favore, state dalla parte dei cittadini e dalla parte della vita (anche vostra e dei vostri eredi)…!

Bruna Spagnuolo

 

Olimpiadi 2008 (Pechino)

Pistorius non correrà alle Olimpiadi

...ma sono le Olimpiadi che ne escono mutilate. Le anime di coloro che hanno così decretato hanno bisogno di protesi e il mondo continua a fare scempio delle intelligenze e delle sensibilità e ad abbattere valori. Non so trovare altro termine: è vergognoso, nient'altro che vergognoso emettere un simile verdetto. L'uomo è sceso davvero al di sotto del livello di scempiaggine consentito. Ma, in nome del cielo, quanti magnifici giovani uomini come Pistorius ci sono sulla faccia della terra? Quanti atleti del suo calibro? La grandezza di un essere umano è contenuta nel suo animo e non nelle sue gambe, né in nessun'altra parte del corpo. Quel ragazzo è rimasto senza gambe, inerme e impotente. Ha perso tutto quanto potesse concedergli una vita normale e avrebbe dovuto vivere una vita fatta di piattume e di immobilità abbrutente o quanto meno scoraggiante e, invece, che fa? S'inventa una forza, una determinazione, un coraggio e un miracolo che è meraviglia e grandezza assolutamente eccelse, ineguagliabili e magnifiche. Il mondo dovrebbe inchinarsi a tanta grandezza; le nazioni dovrebbero fare la fila, per chiedergli l'onore della partecipazione alle Olimpiadi, perché Pistorius è un simbolo, è le Olimpiadi (se le Olimpiadi sono ancora ciò che dovrebbero: lo spirito sano del mondo, la spina dorsale della gioventù pulita e dei valori incorrotti che reggono ancora la traballante umanità). La fiaccola significa molte cose, ma mi chiedo cosa voglia dire per coloro che hanno escluso un grande atleta come Pistorius dalle Olimpiadi. Mi piacerebbe che, per mezz'ora almeno, si trovassero senza entrambe le gambe e che provassero il "privilegio" di quelle due protesi. Mi piacrebbe vederli cadere ripetutamente e strisciare, annaspando, in cerca di equilibrio, per vederli rialzare, con un barlume di intuizione finalmente. Capirebbero, allora, sicuramente, quale caparbia forza di volontà, quali e quante estenuanti esercitazioni e quale grandezza d'animo si celi dietro i risultati di quel grande atleta. Non si è mai sentito che perdere le gambe sia un "vantaggio" (né che le protesi facciano di un uomo senza gambe un atleta)! La grandezza è tale, quando viene dallo spirito indomito di chi è nato grande (tanto più grande quanto sfavorito dalla sorte, che ha deciso per lui e contro di lui una vita da mezzo uomo- che lui rigetta e capovolge a tal punto da risultare una minaccia per coloro che dalla sorte hanno avuto tutto). Avere per gambe due monconi, da avvolgere in fasce e trasformare in appoggi perfetti, ignorando i bruciori, i pruriti, i fastidi e il dolore è eroismo (non "vantaggio")! Riuscire a correre come se sulle protesi ci fossero due piedi sani, forti e normali (quando invece ci sono due monconi di carne morbida che fanno male) è un miracolo che solo un grande può compiere! E la gente cosa fa? Lo paragona ai saltimbanchi scimmiottatori che corrono, appoggiando le scarpe sulle finte protesi: è davvero troppo!!! Il mondo è pieno di gente che ha due gambe, due piedi, salute, avvenenza e ogni agio e si riduce in larva umana, preda delle depressioni e/o di ogni genere di abitudini riprovevoli e debosciate. Le creature come Pistorius sono cime cui l'umanità deve la sua sopravvivenza, fenomeni magnifici che andrebbero coltivati come talee dal valore inenarrabile, bandiere viventi da esporre il più in alto possibile (perché tutti i giovani del pianeta lo prendano ad esempio). Le Olimpiadi dovrebbero essere onorate di includerlo tra gli atleti! Non ha le gambe e vuole competere con coloro che di gambe ne hanno due (complete di piedi)? Sia benvenuto! E, se è così grande da trasformare la sua mutilazione in vantaggio, ben venga! E che vinca pure le Olimpiadi, se sopporterà il dolore dei suoi monconi e non perderà l'equilibrio lungo tutto il tragitto, perché nessuno ne è più degno di lui! Svegliati, mondo, e smetti di abbattere valori, come un bracconiere demente e autolesivo...

B. S.

- Pistorius ha vinto la sua battaglia. La sua vittoria è di tutti o almeno di tutti coloro che credevano e credono in lui e che credono nel bene. Questa sua vittoria gli appartiene come uno stemma luminoso: quello della fede nelle missioni difficili, anche quando e se esse appaiono impossibili. Non so a chi la dedichi lui. Io la dedico a coloro che credono nelle 'cause perse' e che per esse si adoperano con il cuore, con la mente e con lo spirito.

Auguro a Pistorius di ottenere i risultati che sogna (quelli per cui si batte con cuore di leone e con incrollabile determinazione); al resto dell'umanità auguro di imitare Pistorius, di seminare e coltivare sogni, di investire in essi sforzi fisici e spirituali preponderanti, di assumersene la paternità e di difenderli a qualunque costo (come le sole stanze possibili della dimora dei cardini della vita).

Aprile 2008 / Auguri agl’Italiani e…

Le elezioni incombono. Il count down galoppa. Gli elettori sono confusi. Le ‘tribune’ varie li vessano, anziché illuminarli. La casa delle Libertà, a parte alcune discrepanze, promette cose che sembrano ok, ma… è in favore del nucleare. Il PD, a parte sedurre –con il divorzio dalle mafie- e spacciare per ‘nuovi’ quelli che ancora stanno governando, pare dire le stesse cose. La Sinistra Arcobaleno è dilaniata dal dissidio tra l’aspirazione al potere e l’amata vecchia falce e martello. Casini, con il suo credo rivolto agl’Italiani, pare l’alternativa alle varie destre, ma…, ahimé, propende per il nucleare (tanto-tanto-tanto: fino a una centrale per regione…). La Sinistra Critica squarcia il buio e dice tutto ciò che il cittadino vuole sentirsi dire a proposito di ambiente e di principi basilari, ma… inciampa in una pastoia pesante come le colonne di Ercole (‘l’anticapitalismo’ esasperato/l’abolizione della proprietà privata). Di Pietro appare come annosa quercia sicura a coloro che hanno ‘sostanza’ e, perché no, anche capitali, ma… come scinderlo dal PD?

I Politici dovrebbero avere a cuore la salute dei cittadini (e la propria) più di tutto (anche più delle liste elettorali e dell’esito delle elezioni). Gli elettori dovrebbero essere messi in condizione di scegliere tra molti partiti e molti ‘premier’ sinceramente impegnati nella direzione trasparente della tutela della vita (innanzitutto e al di sopra di tutto). Le differenze tra di loro dovrebbero essere minime, nella corsa verso il Bene. Accade, invece, che le differenze siano minime, ma nella corsa verso il male. Come votare, allora? Come scegliere, se, invece di salvaguardare la vita, i vari politici sono tutti indirizzati verso scelte contrarie ad essa? Con tutta la prosopopea delle scoperte del terzo millennio -ormai completamente telematico-, la politica (dei partiti ‘grandi’ e con un certo ‘seguito’) vuole rimanere ancorata al nucleare e a tutte le sue opzioni di morte -quando avrebbe tanto da fare, per schiudere le strade dell’energia rinnovabile- perché? Il ritornello trito e ritrito delle entrali nucleari ‘degli altri’ dai quali ‘noi compriamo’ l’energia è acqua passata; l’Italia se la deve lasciare alle spalle. L’energia ‘serve’, questo è chiaro, ma non è chiaro affatto perché dovremmo costruire altre centrali nucleari (quelle che anni fa abbiamo deciso di non fare o di smantellare). Le alternative esistono, non sono un’utopia; con la propulsione a idrogeno, le cellule fotovoltaiche (applicabili all’energia solare), i gas ricavati da fonti bio (come il mais e persino le urine degli animali da allevamento) e infinite altre possibilità divenute ormai realtà, perché dovremmo incrementare le centrali della morte (il cui numero è ancora contenuto, grazie a Dio, sulla faccia della terra)? Le scorie radioattive derivanti dalla fissione nucleare sono una realtà amara che sopravvive alle centrali e a coloro che le costruiscono (perché durano per secoli): come può l’essere umano ricorrere ad esse con tanta superficiale dabbenaggine autolesiva? ‘La tecnologia è migliorata/le centrali oggi sono più sicure’ è un altro ritornello trito che è ora di stroncare: le fonti di morte sono ‘sicure’ fino a quando non s’innesca ‘quella’ variante ‘imprevista’ che rende possibile l’impossibile. Gl’incidenti nucleari sono tutt’altro che impossibili, purtroppo, ma, se anche lo fossero, le centrali di quel tipo disseminano morte comunque e sempre (con le scorie inevitabili e letali). Dette scorie, a lungo andare, ricoprirebbero il pianeta, perché da qualche parte andrebbero per forza collocate. I politici che vogliono andare in quella direzione sono tutti disonesti o ciechi e sordi a questa verità sconvolgente. Non c’è molto da scegliere: i casi possono soltanto essere quei due, infatti, e, se così è, i politici in questione vogliono continuare a perpetrare i delitti più nefandi e inaccettabili del genere umano: quelli che si commettono alle spalle dei propri simili, strisciando nell’ombra, come serpenti infidi, e minando la loro esistenza, la loro salute e la loro stessa vita (continuando il tragico gioco criminale dello scaricabarile-scorie a destra e a manca, nelle viscere della terra ignara, tra popolazioni altrettanto ignare). ‘L’Italia non è la sola nazione che farebbe questa scelta’ è un ulteriore ritornello ricorrente. È vero, com’è vero che nel mondo si commettono delitti, eccidi e stragi di massa e che si prendono indirizzi che mettono a rischio la vita del pianeta stesso; allora? Siamo, per caso, obbligati a seguire le stupide pecore non vedenti e non udenti nel burrone più fitto e profondo mai esistito? Qualcuno deve cominciare a dare il segnale, qualcuno deve cominciare a far sentire la voce della ragione, qualcuno deve rinsavire… e, se quel qualcuno è una nazione, le chance di farsi seguire sulla via della ricostruzione non sono da gettare via… Si tratta di decidere se si vuole perire, dando al pianeta e alla vita su di esso annidata il colpo di grazia, o se si vuole tentare di usare il dono della vista oltre-bulbo oculare e fare ciò che si deve fare. Scegliere la seconda opzione sarebbe meglio, direi, o no? Almeno, se proprio si dovesse perire, non dovremmo avere più rimorsi del consentito. Ai politici che sostengono il nucleare chiedo di riflettere e di riflettere bene su ciò che vogliono fare: forse, non è ancora troppo tardi, per invertire il senso di marcia…  Chiedo loro di ricordarsi che nella ‘stessa barca’ dei cittadini ‘piccoli’  navigano anche loro (con tutti i figli, i figli dei figli e i figli dei figli dei figli). 

Coloro che credono nel futuro e nel rispetto per la vita, invece, dovrebbero smetterla di voler abolire la proprietà privata (e di ritenere ‘capitalista’ qualunque formichina umana che, con grandi sacrifici e anche ‘tirando la cinghia’, si costruisce una casa o qualcosa di suo). Dovrebbero imparare che eliminare la proprietà privata in una nazione è come togliere l’aria ai polmoni degli esseri umani. Ho visitato nazioni piagate da tale provvedimento e posso testimoniare che gli esiti sono davvero deprimenti. L’inventiva e la voglia di fare sono vitali e indispensabili, per la crescita uamna, sociale ed economica dei luoghi; là dove vengono a mancare regna l’abulia e allignano l’indifferenza e il menefreghismo (nonché la sciatta inefficienza). I piccoli partiti non hanno possibilità di governare e non potranno mettere in pratica i loro programmi, ma è un peccato che alcuni di essi, insieme a ideali ammirevoli, debbano coltivare programmi disfattisti e negativi. Vorrei che i sostenitori dell’abolizione della proprietà privata vivessero, per qualche tempo, nei luoghi in cui tale provvedimento è realtà e viene vissuto dalla gente. Si renderebbero conto, allora, finalmente, che l’ideologia di riferimento ha incontrato una disfatta completa e rovinosa nel mondo e che fare i conti con il vaglio della storia vuol dire non intestardirsi a rincorrere deliri irreali e dannosi. Sarebbe high time che si svegliassero. Inseguire le bandiere è bello (come inseguire i sogni- a patto che i sogni non siano nightmares). Il tempo delle stupidaggini è finito: va bene ammirare il volto di Che Guevara che sventola nel vento (bello come un attore e sempre ventenne), ma, forse, sarebbe ora di capire che i vent’anni del ‘Che’ sono ormai incartapecoriti (e di imparare che ammirare un idolo per le cose buone che ha fatto non vuol dire tapparsi completamente gli occhi e ostinarsi a ignorare le verità storiche: il Che, infatti, santo e perfetto non era di sicuro, dal momento che è stato capace di perforare con una pallottola la testa di un soldato che non lo aveva ancora salutato e di ‘farlo secco’ senza batter ciglio, prima che il malcapitato se ne rendesse conto). Le ideologie sono indispensabili quanto le leggi pratiche, purché non diventino farneticamenti che ignorano, alla fin fine, la vita reale di coloro a cui si riferiscono. Chi vorrebbe abolire la proprietà privata dovrebbe andarsene a vivere in Libia. È facile parlare di cose irreali e rivestirle di poesia, ma la realtà è ben altra cosa. Nel luogo in cui le parole sono vita vissuta, la mancanza di proprietà privata si traduce in supermercati con scaffalature vuote, barbieri abulici e pigri che non servono i clienti, li mandano via e se ne stanno ad ascoltare le mosche che passano, gente che si accalca attorno all’unico camion carico di passaggio e che compra materassi di cui non ha bisogno (perché non sa quando e dove poterseli procurare, quando e se dovesse averne bisogno). Chi ha avuto la ventura di vivere per qualche tempo dove la proprietà privata non è consentita ha visto gente arrampicarsi l’una sulle spalle dell’altra, per raggiungere finestrini attraverso i quali i materassi venivano schiacciati e passati alle mani avide e ansiose dei molti acquirenti; ha visto gente fare la stessa cosa, per farsi passare dal sottotetto scarpe di qualsiasi numero (perché tanto non solo mancava la possibilità di scegliere, ma anche quella di comprare scarpe di qualsiasi tipo/e perché qualcuno cui far indossare qualunque numero, in famiglia, si sarebbe trovato). L’Italia di tutto avrebbe bisogno tranne di piombare in una simile abiezione (e neppure tutto il resto del mondo-mi permetto di dire-).

L’Italia (e, alla lontana, il mondo) avrebbe bisogno di un miracolo o dell’avverarsi di un sogno: se i centri, le destre e le sinistre varie (di qualunque angolazione) mettessero insieme il rispetto per la gente, per l’ambiente, per la nazione e… per la vita (in primis), dimenticando i contrasti, gl’interessi di parte, le ‘poltrone’, le stanze dei bottoni, il tornaconto e i compromessi infiniti (visibili e invisibili) tale sogno potrebbe avverarsi, ma… temo, purtroppo, che così non sarà mai…

Agl’Italiani faccio gli auguri (anche se non so bene per cosa): sento il bisogno di far loro gli auguri, perché un’ora grave si profila all’orizzonte, un’ora che richiederà ancora e ancora sacrifici e determinazione. Qualunque risultato emergerà dalle elezioni, la parola d’ordine per il singolo sarà ancora e sempre ‘sacrificio’, perché nessun politico potrà esibire le bacchette magiche promesse in campagna elettorale. ‘Remate e vivete’ è il solo motto che mi viene in mente per gl’Italiani: come gli schiavi erano incatenati ai remi sulle galee romane (nel film ‘Ben Hur’), noi Italiani saremo incatenati ai sacrifici sempre nuovi che ci verranno chiesti. ‘Remate e vivete/vivete e remate’, ci verrà detto (con provvedimenti/emendamenti/leggi), mentre, con sorrisi e parole si cercherà di farci percepire una realtà illusoria. Auguriamoci soltanto che, tra gli ‘eletti’, qualcuno assomigli al generale romano che fece liberare Ben Hur prima che la galea venisse affondata (e che, come Ben Hur, possiamo essere messi in condizione di compiere nobili gesti utili).

Data la citazione, non posso fare a meno di ricordare il grande Charlton Eston appena scomparso e di rivolgergli un pensiero di addio (l’addio a un mito…).  Egli vivrà nell’nconscio collettivo. Il ricordo del suo sguardo indomito (nella parte del principe Ben Hur incatenato ai remi) e di ogni gesto di quel personaggio epico e ciclopico (reso immortale dalla sua interpretazione) è un lascito dal valore incalcolabile per le generazioni di tutte le ere (e lo è infinitamente di più per questa nostra era e per questo particolare suo tempo). La storia del principe Hur finisce bene; vorrei potermi augurare lo stesso per la storia di queste elezioni e, soprattutto, per il futuro dell’Italia e per la sopravvivenza del pianeta.  Il finale del film ‘Ben Hur’ può essere così così sintetizzato: “Il principe Hur trovò la serenità, la pace dello spirito e, finalmente, la fede… Tutto ciò che gli era stato tolto gli fu restituito (reso più grandioso e completo dall’amore)…”

Il finale del ‘film’ della nostra vita mi piacerebbe sintetizzarlo come segue:  

“L’Italia fu miracolata con il dono di un governo perfetto, composto da persone coerenti, oneste, incorruttibili e sagge oltremisura, che decisero di fare scelte sempre favorevoli alla vita; il mondo decise di andare in quella stessa direzione, smantellò gradualmente il carrozzone anti-vita attestato attorno alla fissione nucleare, decise di sfruttare le varie energie pulite senza mai smettere di sostenere le ricerche per la realizzazione della fusione nucleare…; i genocidi cessarono e la terra divenne un luogo benedetto abitato da esseri che seppero far coincidere il progresso con la civiltà…” 

Finali così si leggono soltanto nelle fiabe, eppure… se l’uomo ‘fatto non fu per viver come bruto, ma per seguir virtute e conoscenza’, perché non potrebbe rinsavire ‘impazzendo di saggezza’ finalmente?

Bruna Spagnuolo

 

 

TRUCIDATORI DI INNOCENZA

Bambini violati

Ho guardato "Tempi Moderni", un po' di tempo fa (la puntata condotta dalla signora Irene Pivetti). Le cose che ho appreso sull’asilo di Rignano Flaminio e sulle vicende analoghe di Brescia mi hanno affettato l’anima. Quella notte non ho chiuso occhio. Mi sentivo come se una colonna di carri armati fosse passata, senza troppi riguardi, sull’umanità che è alla base della mia voglia di vivere. Tutto ciò che ho visto è davvero un peso troppo insopportabile, un peso destabilizzante per la fiducia negli esseri umani miei simili. Il mio animo rifiuta di assuefarsi all’orrore crescente. Prima e al di là di definire i fatti di cui si parla “presunti” o accertati, sento l’umanità che c’è in me ferita e oltraggiata oltre ogni sopportazione. Ho visto scene di esibizionismo e di celebrazione, là dove non c’era altro da celebrare che la morte della sapienza e della vita dello spirito. Ho visto scene di sfrontatezza, là dove il mondo avrebbe dovuto vedere le teste chine sotto il peso immane della meditazione e della vergogna e ciò ha giustiziato la parte della mia anima che da sempre e per sempre è tesa verso il rispetto per l’infanzia in generale e per ogni bambino in particolare. Non c’era e non c’è nulla da celebrare, se non la morte triste e dolorosa dell’innocenza. Non c’era e non c’è nulla da celebrare e la scena cui avremmo dovuto assistere sarebbe stata di dolorosa-mesta-mite e contrita meditazione, poiché, persino nel caso in cui i bambini non avessero subito violenza e avessero “fantasticato” su di essa, gli adulti di riferimento avrebbero dovuto essere a lutto, per la morte dell’innocenza, e interrogarsi sulle loro responsabilità in tale enorme e imperdonabile delitto. I genitori di quei bambini forse si sentono come chi sia stato eviscerato da vivo, perché sono stati toccati nelle loro viscere profonde.

Ciò che ho visto parla di adulti immemori della sacralità dei bambini e nemici dell’innocenza ferita che chiede aiuto-attenzione-balsami riparatori per le ustioni dell’anima prima che per le violenze fisiche. Ciò che ho visto e sentito ha fatto a pezzi la poesia dell’infanzia; ha ucciso il mondo delle favole; ha imbrattato di oscenità la dolcezza pulita e scarosanta cui ogni bambino ha diritto; ha violentato la bambina che ero e l’essenza stessa della purezza.

Questo mondo sta rischiando davvero l’estinzione e non tanto per i genocidi e i per vari pericoli legati alle infinite sfaccettature dei macroproblemi quanto per ciò che sta facendo all’innocenza. Per quanto paradossale possa sembrare, non sono le stragi, le guerre e i genocidi a mettere a repentaglio la sopravvivenza dell’umanità. Il rispetto per la vità è un pilastro sine qua non nel mondo, ovviamente, ma, per assurdo, si può affermare che la morte di migliaia e anche di milioni di persone non estingue il mondo. Non così si può dire della morte dell’innocenza. Essa è il cuore del mondo: se l’uomo ucciderà l’innocenza, il mondo morirà.

Per l’innocenza violata, ferita, seviziata e uccisa di ognuno dei bambini di Rignano e di Brescia, il mondo (anche quello lontano e ignaro) è a lutto, perché l’umanità è un grande corpo vivo nel quale il male e il bene sono la circolazione sanguigna (che può essere vivificante o letale). Il mio cuore celebra il funerale di tutte le buone intenzioni mancate, di tutti gli abusi fatti fisicamente ai bambini del mondo e al loro diritto sacrosanto al rispetto più giusto e più severo; celebra il funerale dei valori inviolabili, a causa di coloro che, in nome della professione e dei vari mandati ricevuti, hanno calpestato e calpestano l’innocenza, hanno sepolto e seppelliscono il rimorso delle loro coscienze, hanno infierito e infieriscono su chi non ha chance autonome di difesa.

Ci sono “lampade” che non si possono spegnere impunemente e che vanno lasciate sul moggio, perché l’umanità non deragli una volta di troppo e per sempre: la difesa dell’innocenza è la prima di queste lampade. Questo voglio dire ai “legali” vari e ai vari “esperti” che osano profanare il vocabolario con sofismi terribili e dissacranti, disquisendo sul “livello” dei “segni” di violenza la cui sola ipotizzazione dovrebbe farli inorridire. Il mondo ha perso il senso dell’orientamento e sta gettando le sole bussole salvifiche che dovrebbe custodire come ultimo appiglio. Est modus in rebus, dicevano gli Antichi : c’è un limite a tutto e il limite oltre il quale l’uomo non dovrebbe andare mai è oltrepassare la linea di demarcazione che fa da sbarramento difensivo all’innocenza. Anche gli avvocati (difensori o accusatori che siano) dovrebbero fermarsi di fronte a quella linea e mai osare oltrepassarla. Questo è ciò che legali e ed esperti invece hanno fatto e fanno, “scegliendo” la loro inqualificabile strada tortuosa tra le violazioni dell’innocenza da mettere in luce e quelle da oscurare, tra i “segni di violenza” da ritenere “nella norma” e quelli da definire “illegali”, fino al punto di “trascurare” una bambina “deflorata” come un’inezia da lasciare da parte per “la buona riuscita” della loro azione legale. Tutto ciò è un delitto contro l’innocenza e, di conseguenza, contro l’umanità, di cui l’innocenza è il cuore. Se l’uomo non riuscirà a capire questo, squallido e poco longevo sarà il futuro cui potrà aspirare.

Una tra le infinite dimensioni del creato

Mini-Prologo

Abuja è una grande metropoli africana che di africano ha soltanto la cultura racchiusa dietro le palpebre pensanti dei Nigeriani che la abitano (insieme alle infinite etnie-altre quivi disseminate). Palazzi enormi e costruzioni varie comprendono uffici, supermercati e attività commerciali.  Ampie aree verdi fungono da parchi e danno un ampio respiro alle strade che serpeggiano tra gli edifici dall’apparenza avveniristica. Le moschee elevano al cielo i minareti con discrezione; una grande moschea dorata, a prima vista appare come un tocco esotico welcoming, poi resta nella mente come un’immagine che, pur sforzandosi di essere discreta, esplode in tutto il suo imponente splendore. Alcune chiese offrono spettacoli di bellezza e di grazia. La chiesa internazionale, nata come tempio inter-religioso pronto ad accogliere fedeli di ogni credo, ha guglie cristiane che richiamano i minareti mussulmani e vetrate splendide sposate al caldo colore del rame; è una visione che non può passare inosservata. La città non ha un centro, ma ha varie prospettive: quella delle belle ville dall’architettura più o meno inernazionale/coloniale/svizzera; quella degli edifici in muratura colorata di rosa, di marrone o di bianco; quella dei centri commerciali arabeggianti; quella degli edifici dalle facciate a vetri che riflettono il cielo; quella degli hotel mastodontici e classici o più piccoli e dalle forme quasi spaziali, con colonne e luminarie tecnologiche. La mancanza di un centro cittadino, per chi giunge in questa città dall’occidente, all’inizio è quasi una sofferenza, perché la mente cerca una piazza, un ritrovo importante, attestato attorno a un cuore pulsante (teatro di cerimonie e di direttive di vita); poi ogni mente si adegua agli ampi spazi dispersivi e vive la città come una parentesi-bivacco propedeutica al viaggio verso la vera Nigeria-Africa.

I “mercati generali” sono formicai in cui è difficile muoversi tra le mercanzie infinite e la densità umana così fitta che, se potesse, diverrebbe ‘stratificata’ in senso verticale; hanno file di negozietti-bugigattoli rigurgitanti ogni genere di mercanzia e una zona coperta ove verdure e frutta sono esposte e custodite dai loro venditori ingegnosi, che le annaffiano con bottiglie provvidenziali dai tappi forati. Quei mercati sono l’anima vera, l’unica, che resta a questa città africana che, per assomigliare a Washington e/o a Los Angeles, ha sradicato, rimosso, ammonticchiato e sospinto fuori città i poveri e, con loro, tutta l’identità millenaria.

Viaggio da Abuja a Kaduna e viceversa

La strada aggira l’agglomerato cittadino e, senza accorgersene, si ritrova a snodarsi tra le colline che sembrano guardarsi attorno come pecorelle spaesate che si siano risvegliate in una dislocazione  sconosciuta. La vegetazione familiare non tarda a sfilare. I primi ad apparire sono gli ithace kalwa (in lingua hausa), ovvero i kalwa tree (in lingua inglese), gli alberi del kalwa (una bacca contenente molti semi). Questi alberi hanno tronco bianco, simile a quello della betulla, rami consistenti (rivolti verso l’alto e potati a poca distanza dal tronco centrale) privi di ramificazioni sottili e adorni di foglie verde chiaro affollate soltanto attorno alla cima. Le bacche sono scure e pendono da rami-filamento che sembrano estranei ai rami; la gente le raccoglie, le lava, le pela e ne fa bollire i semi per almeno un’ora. L’impasto granuloso, lasciato a fermentare, asciugato al sole, appallottolato e conservato, viene usato come insaporitore per i cibi. I Nigeriani lo chiamano local maggi cubs (dado Maggi locale).

Veri e propri alveari di vita si affollano lungo la strada. Vegetazione e roccia lavica si alternano su ambo i lati. La natura non disegna frontiere tra lo Stato della Capitale e quello del Niger che s’incunea tra esso e il Kaduna State, come un dito di verde terra adorna delle incredibili rocce simili a panettoni ‘sgocciolati’ di bitume o spruzzati di opaca glassa alla liquirizia.

Sorelle sono le dimensioni umane, anche dove diversi sono gli Stati. Appaiono e ritornano i cumuli di legna-corteccia da ardere, i capanni sorretti da contorti rami secchi, le mercanzie misteriose appese agli alberelli scheletriti, i recessi di terra rossa calpestata bordati di erba impavida su retorvie pattugliate da tuguri pacifici in ascolto perenne.

I formicai di andirivieni umani hanno incomprensibili vie-pendii-rientri-sporgenze-semine delle spore variegate di miseria sparsa sotto forma di rimasugli-detriti sulla terra battuta, di cimiteri di macchine resuscitati, di recipienti accatastati-scrostati sotto l’unico contenitore pieno di preziosa farina o di altro tesoro. Presenze artigiane ancorate al passato onorano capanni  senza pareti, nel bel mezzo del nulla. I bordi delle strade si animano, come gallerie di immagini da conservare, adornandosi di venditrici fiduciose, che espongono su costoni assolati mercanzie campestri contentute in sacchi-ceste e… in fiduciosa innocenza bambina.

La vegetazione fitta e coraggiosa, lontana dai ricordi-giungla è affollata di sottobosco orfano di foreste e cortigiano di boschi sparsi-pregiati-affratellati.

I gruppi-scultura di macigni preistorici imponenti creano schiarite di pace tra cui le rare pasture s’installano come inquilini irreali. Le piramidi di pomodori su bancarelle di rami sono come rubini. Il bosco di manghi si annida nel folto selvaggio, tradendo l’abitato insospettato. I flamboyant infiammati di grappoli-fiori rosso fuoco appaiono e scompaiono come una città dei sogni e della bellezza. La convivenza tra tetti di paglia e di zinco emette dissonanze e stridori. Le fascine allineate evocano l’immagine delle schiene prone contro il cielo stagliate. La legna ammonticchiata ha sfumature-calore. La terra si fa mattone-casa-tratturo-abbraccio-Africa a misura di orizzonte.

Tra poche capanne, due mini-campanili perfetti sorgono direttamente dal terreno e stanno sull’attenti, ad altezza d’uomo: sono le sentinelle della fede di due diverse chiese che, da un invisibile abitato, si annunciano ai passanti e ai viaggiatori. 

Il suolo arso si allunga tra le foglie secche della bassa vegetazione e vibra dell’aspettativa delle erbe avvizzite; il suo richiamo senza voce si addensa e schiera nel cileo le strategie belliche degli eserciti-nubi destinati alle battaglie epiche delle annuali rain season africane. I cespugli arrossati piangono le foglie divenute polvere di linfa e s’ingegnano per moltiplicare la speranza  stivata nelle radici delle nuove stagioni, che oseranno ancora e ancora l’elettrizzante sfida della conquista dell’aria e del sole e, a cicli, esaleranno il respiro nel prezzo-germe che la morte è obbligata a pagare alla vita da sempre e per sempre. Il sonno delle mutazioni senza frontiere canta canzoni potenti come ultrasuoni.

Grande e verde è il Kaduna State. La città di Kaduna si avvicina. I siti stanziali-ghetto hanno tetti-lamiera feriti da raggi-specchio stranieri tra i tetti di paglia dei tuguri. Una distesa di terra rimossa è rossa come carne viva e divorzia dalla riserva di autobotti che la offende.

L’abitato vende, ai lati della strada, porte in legno e in ferro, mobili, divani, letti nella polvere e tende appese alle recinzioni. Il traffico è un’avventura. Motorini e macchine gareggiano in gimcane-carambole nei vicoli fiancheggiati da cortili-squallore-abbandono e da magnifiche chiome fiorite; si sfidano attorno ai round about assediati ed espugnati a turno dalle guerre per la precedenza dei motori a vari stadi del nuovo e della decomposizione. La gente siede sui camion come a casa, in tenuta lavorativa o da viaggio, e si affaccenda, agli angoli delle vie e lungo le carreggiate, in mille andirivieni.

Le accoglienze imbandite scendono nel cuore come balsamo, al convento delle Oblate di Nazareth, tra i rossi fiori delle fiamme della foresta allineati in ikebane-leggiadrie da ammirare e da leggere.

L’ora degli addii lascia alle spalle saluti sussurratti e sventolati e ridisegna il viaggio a ritroso. Polvere e detriti flagellano la nostra uscita da Kaduna. Il cielo è un conflitto di titani. L’uragano ci segue o ci precede? Il vento è come carta vetrata. Un motociclista è un Don Chiscotte africano, la sua moto un ronzinante del duemila. Il fischio violento del vento ci arrotola attorno abbracci che fuggono verso il crogiuolo del cielo del tramonto, percorso dal solo fremito di intensa luce sotto la nera cappa immensa e severa. La massa profonda di basse nubi minacciose ci batte con inclementi frecce di acqua pesante e determinata. Il tragitto a ritroso ci viene incontro con alberi che chinano le chiome come sudditi ossequiosi. Tre donne corrono con ceste vuote, fasciate dai lunghi abiti bagnati; i loro piedi nudi ricamano danze spaurite sull’asfalto alieno. I fili d’acqua si aprono come fiori appesi a riverberi-sorrisi dispettosi. Piove proprio cats and dogs, come dicono gl’Inglesi. La strada è quasi un fiume, eppure il sole finge di voler rispuntare. L’aria condizionata sembra il respiro fresco della pioggia possente di questa nuova stagione delle piogge. Le capanne sembrano gallinelle appollaiate sul grembo-terra che le ha partorite.

Un alone di solennità impalpabile celebra nozze di veli tra l’etere e il mistero. Avvolta in parecchie yarde di colorotissimo cotone, una donna trasporta un peso in testa e un bimbo tra le braccia. Due uomini la scortano, ma nessuno l’aiuta. L’argilla rossa beve e non estingue la sete. I postumi degl’incendi non si lavano, ma tramano primavere; le rinascite invisibili fremono tra anfratti e rovi; le argille austere, vestite di ocra e di marrone, si lasciano corteggiare dal verde dalla piumosità graduata. Il riverbero cresce all’occaso e veste di crepuscolo l’altra metà del cielo, in questo angolo d’Africa in cui liquide nostalgie cadono come musiche sui secchi rami scuri.

Un fulmine in diretta si disegna accanto al mio viso, bello e terrificante, come cucitura cocente di luminosità sospese tra dimensioni  proibite.

La collina vulcanica è lucida come dorso di balena e ha sorelle rivestite di sassi-pecorelle simili a marzapane. Il lampo scolpisce un albero morto come cavalluccio marino e lo staglia sul plumbeo cielo. La barriera della pioggia era reale e, di colpo, ci ha lasciato (non ho visto dove). Disattesa, è sparita (a chi chiederò le mappe dei suoi talismani?). Le cataratte del suo arcano africano sono ovunque e in ogni luogo e giocano con noi a nascondino. Riecco il velo dalle trasparenze note; è pioggia di nuovo, dopo il ritrovato sereno. Il vento gioca a bocce, tirando addosso all’aria liquidi diamanti altalenanti.

Progettiamo di fermarci sul costone a picco che incombe sul villaggio munifico di grandi ceste piene di verdure appena colte e di polli (che abbiamo difinito ‘olimpici’, per quanto corrono e quanto sono duri). Il cielo si arrabbia e c’investe con il diluvio di un muro impenetrabile come diga sfondata; ci segue e c’insegue con gocce pesanti come secchi rovesciati. Procediamo con grande rischio e fatica, poi, d’improvviso, la luce torna e della pioggia nulla sa, ma l’acqua ricompare a sorpresa e di nuovo ci tende l’agguato e, infine, quasi pensiamo di averla immaginata. Non c’è pioggia nelle vicinanze di Abuja. Gli agglomerati disordinati non hanno visto acqua da parecchio qui. Compriamo manghi, caschi giganteschi di banane e grandi tuberi di gnam sul bordo della strada, poi ci accodiamo a un furgone che ha porte aperte debordanti di sacchi, valigie, mobili sospesi all’esterno, come uova di rana alla madre appese.

Una collina lavica ha forma di volto umano e porta il dolce nome del miele. La carcassa di un’auto spicca come soprammobile su un trono nella vita che le brulica attorno. Un armento torna dalla pastura e rallenta il passo, per ritardare l’ora del recinto e del digiuno. Un altro furgone viaggia a porte aperte, esponendo il suo carico come budella incontenibili e cascanti. C’è una città fantasma di case-capanne tutte uguali, tra le colline-avanscoperta della capitale. Era destinata ai poveri cacciati (come vergogne indesiderate) dalla città occidentalizzata. Gli ultimi della terra non hanno collocazione nell’ambizioso sviluppo industriale della città che vuole apparire come tutte le metropoli d’oltreoceano (abitate dalle ‘risorse-nomi’ in borsa quotate), ma sono proprio loro il popolo sul quale ”i politici si arrampicano con scarponi chiodati” (come ha scritto una stundetessa nigeriana nella sua tesi di laurea). Pensare di ‘ripulire’ la città dai ‘detriti’ umani, raggruppandoli e ‘inscatolandoli’ in un ghetto spersonalizzante e senza futuro si è rivelata un’utopia errata e cieca: come api pervase dalla frenesia primaverile tesa verso la crescita dell’alveare, i poveri hanno disertato il ghetto imprigionante e sono fuggiti nel bush, dove sono liberi di non vivere a pochi metri l’uno dall’altro e dove possono continuare a tessere le identità-culture fatte di coltivazione della terra e di storia atavica da tramandare. Alla città ritornano come spiriti liberi di cercarvi lavoro e/o di accattonarvi senza farsi troppo notare. Se mi è permesso sperare, è proprio in questa categoria di Africani che riconosco lo zoccolo duro delle speranze indomite di questa nazione  e dell’intero continente africano.

La notte che si addensa e m’impedisce di scrivere non è più effetto della pioggia o dello storm inclemente. Adesso è notte davvero e quest’Africa-patria di colline si ammanta di atmosfere irreali, che sanno d’altri lidi esotici e hanno un’anima che solo qui serpeggia tra le case che annunciano la capitale e gli strati geologici di un’arglla unica al mondo. In questo luogo complesso, la vita ha volti e maschere e le colline formano anfiteatri di vincitori e vinti di ogni giorno di lotta quotidiana. La recita per la sopravvivenza, qui, non prevede il ricco, il borghese e il popolano. Il copione della vita non si snoda tra il ceto alto, il ceto medio e il ceto basso. Ricco, qui, è chi può vivere; povero è chi muore (per mancanza di medicine, di casa, di diritti e di cibo). Varie sono le stratificazioni dei livelli di ricchezza, ma due soltanto sono le categorie. Il povero può soltanto avere periodi di vita meno dura, in cui riesce a sopravvivere e a mangiare, ma la caduta a picco è inevitabile, perché ogni malattia gli divorerà qualsiasi risparmio-guadagno-speranza nel futuro, prima di ucciderlo definitivamente e senza appello (poiché niente denaro = niente ricovero, niente medico e/o medicine). 

La cultura della povertà è anche la cultura del presente (nell’oblio del futuro), a scapito della strategia spicciola dei sacrifici in favore del domani. Il poco di cui godere nel presente non viene accantonato per la sopravvivenza del domani, perciò la povertà è e resta endemica e senza  spiragli a lungo termine. La filosofia di vita che il povero respira pare essere la seguente: goditi l’oggi e non pensare al domani, tanto il poco che potresti accantonare non farebbe molta differenza; se puoi vestirti bene e fare invidia ai più, fallo e, se puoi vantarti, vantati; godi di tutto ciò di cui puoi godere e specialmente dell’ammirazione altrui; oggi sei vivo, domani non si sa……………………………………………………………………………………………………….  

Abuja, comunque, più che una città è una dimensione (che racchiude tutti i paradossi della società nigeriana).

 L’anamnesi di questa realtà variegata risiede, forse, nella culla del parlamento, un modernissimo edificio a forma di barca, che sembra attendere venti propizi per prendere il mare… Quali e quanti sogni africani racchiude questa simbolica nave/ quali e quanti viaggi ambiti verso il futuro… /… quali e quante vittime sacrificali…?

  Moonisa

Domenica 04 Maggio 2008: Santa Messa in Nunziatura.

Mi alzo alle sette. Considerando che ieri sera ho fatto molto tardi, questa è una levataccia (nel bel mezzo di un ponte festivo rilevante). Avrei potuto dormire, mi dico, con il senno di poi e, invece, faccio un po’ di ginnastica, la doccia, lo shampo ed esco, per andare a Messa. Andare a Messa, per i Cattolici, è ritrovarsi, almeno nelle feste comandate, con tutto il ‘corpo mistico’. Andarci qui, in terra d’Africa, ha delle accezioni in più, specialmente se l’esule può andare a Messa in nunziatura, meta di altri connazionali e ritrovo ambito perché richiamo-associazione di idee (nunziatura-papa-Vaticano-Italia-patria lontana-tradizioni secolari-antenati-casa).

Maitama, la zona delle ambasciate e della nunziatura, ha comode strade, che girano attorno a grandi isolati pieni di giardini ‘diplomatici’. Questa zona è diversa dalle altre, che hanno vie-avenue gigantesche e senza risparmio di spazi, come le aree che le circondano e che sono angoli-Africa incolti o parchi   per la gente. Questa città, che, per molti versi, non ha nulla da invidiare a molte città occidentali; ha tutto tranne un’anima e dà a chiunque abbia denaro da spendervi il diritto di costruire e/o di ‘inventare l’acqua calda’, se gli va. Accanto alle varie moderne costruzioni, compaiono, ovunque, vere e proprie foreste di tralicci-antenne di varie dimensioni-tipologie. Chiunque voglia e possa ne innalza almeno due o tre, dando un notevole apporto alla colonizzazione degli spazi africani da parte dell’elettrosmog (che qui dovrebbe essere alieno).

Esco alle nove meno venti; nonostante la levataccia, sono quasi in ritardo, perché anche asciugarsi i capelli può essere un problema, quando la corrente va e viene. La NEPA (l’enel locale) c’è a fasi alterne e, a volte, sparisce per lungo tempo. I fortunati hanno i generatori e sopperiscono ai ‘vuoti’ della nepa  di tasca propria. I momenti del ‘change over’, comunque, creano ‘vuoti’ che, quasi sempre, riescono ad essere inopportuni al massimo.  Aprire la’mia porta’ significa aprire una cancellata interna con lucchetto, prima di aprire la porta vera e propria. Aprire e richiudere, prima di uscire, perciò, mi toglie altro tempo. Calpesto quasi un varano variopinto, davanti alla soglia di casa, nella fretta, e spavento la sua compagna che, immobile, come un bassorilievo su una delle colonne che reggono la tettoia, e intenta a corteggiare i raggi ancora gentili del sole, cade e mi manca di poco. Il profumo del frangipane, avvolgendomi, rende promettente la mattina. Il guardiano originario del Niger si affretta ad aprirmi il pesante cancello metallico marrone; guardandolo avvicinarsi, alto come una montagna nella sua palandrana, mi sento nana. Non c’è ancora nessuno seduto sulla panchetta di legno, davanti al cancello, dove, di solito, qualche steward e qualche autista fanno capannello con i guardiani. Non c’è, anzi, neppure la panchetta, che di giorno serve da sedile e di notte da letto.

La via che divide il nostro compound, le varie ambasciate laterali e quelle di fronte, è larga e comoda. Ha marciapiedi asfaltati separati dalla carreggiata per mezzo di una siepe. Dicono che questa zona sia sicura e io così mi sento, mentre mi avvio lungo il marciapiede destro, passo davanti ai boys’ quarters e al generatore acceso, che romba, come sempre, in modo assordante. Ogni abitazione che si rispetti, qui, è dotata di tali ‘quarters’, ovvero di varie stanze, con servizi in comune: gli alloggi degli autisti e degli steward. I Nigeriani che lavorano per chi offre tale accomodation sono fortunati, perché coloro che non hanno alloggio, dalle 18.000 naira (180 mila delle vecchie lire italiane) che guadagnano, devono toglierne 10.000 di affitto, per locali senza luce e senza acqua, per raggiungere i quali devono impiegare quattro ore e dai quali devono partire alle quattro del mattino per trovarsi in tempo al lavoro. Lo steward che lavora nella mia casa è fra quelli fortunati. Ha alloggio (con corrente elettrica e servizi con acqua- anche calda) e tutta l’assistenza, guadagna tra le 22.000 e le 30.000 naira e riceve cibo e aiuto di ogni tipo.

Incontro due giovani Nigeriani all’altezza dell’ambasciata giapponese e mi godo la strada libera per un breve tratto. C’è il grande rustico di una casa in costruzione mai finita, subito dopo. Lì davanti, il marciapiede, la siepe  e ogni segno di manutenzione scompaiono. Gli ultimi bidoni della raccolta dei rifiuti sembrano sentinelle verdi, a guardia della fine del marciapiede e della siepe; un tubo sporge dal terreno ghiaioso e fangoso. Un uomo sulla trentina attinge acqua. Ha l’aria di chi stia sbrigando le faccende domestiche. Lo scheletro desolato, che non ha pavimento né tetto e guarda la strada con aperture buie di cemento annerito dalle piogge di molte stagioni, sarà casa per i reietti fino a quando qualcuno non deciderà di finire i lavori o di abbattere il tutto, per far posto ad altro, ma in Africa il tempo passa lentamente e chi trova un rifugio oggi non si preoccupa di domani.    

Passo sull’altro marciapiede. Due macchine fanno in tempo a suonare ripetutamente, mentre attraverso. Istintivamente mi secco, poi mi ricordo: sono ‘taxi’ non autorizzati; girano in Abuja, al posto delle motorette-taxi che il governo ha vietato di recente, sacrificandole all’aria internazionale che ha in mente per la capitale di questa nazione. Il risultato della perdita di identità non è mai buono; il risultato dell’abolizione dei taxi su due ruote è che qualche danaroso Nigeriano acquista auto appena vestite di decenza, le affida a chi non ha altre alternative di lavoro  e le mette in circolazione. Non essendo autorizzate come taxi, esse non possono sostare, perciò girano e girano e suonano, in attesa che qualche passante le fermi con un gesto e si faccia trasportare. La cosa non va a genio agli abitanti di Maitama, che prima godevano di maggior silenzio e di aria migliore. Ci sono vari baldacchini/mini capanna di tenda verde e marrone fissate ai muri di recinzione, lungo le vie; portano la scritta “police” e servono a riparare i poliziotti dalla pioggia e dal sole, credo, ma le ho viste sempre vuote, a dire il vero. Sulla destra c’è una villa-magione bellissima. Il giardino è così grande che la fa apparire piccola. L’esterno della recinzione è circondata di piante spinose dai fiori sempiterni e da un marciapiede affiancato da paletti con la scritta “no parking”. È sicuramente la dimora privata di qualche ambasciatore. Una casa scheletro mai finita le si affianca, circondandosi di un muro di cemento dall’esterno annerito dai fuochi-bivacchi dei poveri, che, non hanno trovato posto all’interno e che usano blocchetti di cemento come treppiedi per le loro lattine-stoviglie. I derelitti più fortunati, che sono arrivati primi, hanno inchiodato tavole all’apertura nel muro e acquisito il ‘diritto’ di andare, venire e vivere tra quelle rovine. Una macchina sosta nel bel mezzo del marciapiede e mi occlude la strada. Ha il parabrezza rivestito di giornali inzuppati di pioggia e fumanti nel sole; i suoi proprietari chiacchierano, seduti su un tronco tra cumuli di terra, davanti al rustico in cemento che si erge a sinistra, fronteggiando l’altra dimora dei poveri e ospitando la sua porzione di umanità dimenticata. Mi sono sempre sentita inutile, non potendo dire a tutta questa gente: venite con me, c’è un posto a tavola per voi nella mia casa e un letto per dormire.

Aggiro la macchina. Sul marciapiede, due donne, trebbiano il mais, come se fossero sull’aia del loro villaggio; non trovando angoli puliti e pianeggianti nel cantiere-rudere che hanno occupato, hanno portato un po’ di benvenuto folclore e di odore pulito sull’asfalto cotto dalla calura africana. È una scena inusuale e rara, perché, in Abuja, la vita dei poveri si svolge in sordina e senza possibilità di affiancare alle recinzioni delle case vere i bugigattoli di latta (stanziali e commerciali) o i ricoveri di stracci e cartone (caratteristici e tipici nelle città nigeriane come, per esempio, in Kaduna).

Da lì in poi, cammino al centro della strada, all’esterno della siepe, poiché il marciapiede è interrotto da un cumulo di terra ammonticchiata, spiacevole da calpestare. La via della nunziatura è già affollata di auto lussuose ovunque parcheggiate. Il marciapiede è solo sul lato sinistro della strada; gira attorno a ville coloniali imponenti e sfocia all’ingresso dell’ambasciata vaticana. Mancano dieci minuti alla messa; strano: i cancelli sono già chiusi. Mi fermo e attendo che uno dei guardiani apra: dalla guardiola, con finestra dai  vetri scuri appoggiata su un davanzale di marmo, possono vedere, non visti, i visitatori fermi davanti al piccolo cancello pedonale e imprigionati tra la guardiola e il muro,. Nulla accade. Un Nigeriano, con casacca e pantalone di fresco di lana grigio-azzurro e con il messale in mano, arrivato dopo di me, si guarda attorno, interdetto, e bussa ripetutamente al cancello pedonale, che è di metallo robusto come quello carraio. Una ragazza, bella e scura come la copertina del suo libro di preghiere, sopraggiunge e ci guarda, confusa. Altre due Nigeriane, bene in carne e accuratamente avvolte nel cotone stampato coloratissimo, tipico degli abiti locali che girano attorno alla vita e si accordano con il corpetto scollato dalle maniche bombate,  si aggiungono al gruppetto e chiedono il perché del cancello chiuso. Una delle due manifesta il suo disagio aggiustandosi ripetutamente il grande fiocco della stoffa inamidata (Ughené mi pare che si chiami), dai ricami in oro, avvolta attorno al capo. L’altra si guarda i grossi anelli che porta su almeno quattro dita. Entrambe hanno l’aria sbalordita e sembrano pensare: “Non posso credere che mi si lasci fuori come un’accattona”. Non so chi siano, ma non mi stupirei se provenissero da qualche ambasciata. Uno dei guardiani apre un infisso di ferro insospettato, sul muro, dalla parte opposta alla guardiola: si dispiace, ma ha avuto ordine di chiudere prima, perché la chiesa è già piena e non c’è più posto a sedere. Non avevo pensato di parlare, ma tutti tacciono e la mia voce si leva, mio malgrado: “Non eri tenuto ad aprire e a riferirci quanto ti è stato ordinato. Grazie per averlo fatto. Vorrei, però, che dicessi al nunzio, direttamente, se ti è permesso incontrarlo, che non mi sembra affatto cristiano chiudere la porta ai fedeli. Dicono che sia peccato perdere la messa e mancare di ‘santificare la festa’. La nunziatura di Abuja ha facoltà di cambiare le cose, a quanto vedo: chiudendoci fuori ci toglie anche l’obbligo di andare a Messa la domenica. Prioritario, a quanto pare, è lo spazio della sua chiesa (rapportato al numero delle persone che possono comodomante starvi sedute- nonché refrigerate con i condizionatori). I casi sono due: o non andare a Messa non è più peccato, o ‘qualcuno’ ha il potere di decidere a chi affibbiare ‘questo’ peccato, di volta in volta. Il primo caso costituirebbe, per la chiesa di Roma, una sorta di disfatta, perché, allora, la gente vedrebbe la necessità di lasciare qualunque impegno per accorrere al suono della campana e diserterebbe le chiese. Il secondo caso è inaccettabile da parte di chi, essendo ‘accorso al suono della campana’ ed essendo stato scacciato dalla ‘mensa imbandita’, non ritiene di aver commesso ‘il peccato’. Il peccato, dunque, ricadrà sul ‘qualcuno’ che ha deciso di chiudere fuori i fedeli e la cosa accadrà regolarmente tutte le domeniche… Il numero delle domeniche moltiplicato per il numero dei ‘rigettati’ produrrà un numero impressionante di ‘peccati’ (che si accumuleranno sull’anima di quel ‘qualcuno’ e che lo accompagneranno in ogni Messa… - mentre dovrà ‘celebrare’ il sacrificio ripetuto di Cristo che si offre come Agnello sacrificale- consacrare il pane e il vino, perché diventino il corpo e il sangue di Cristo- distribuirli ai ‘fedeli’ convenuti alla celebrazione…). Tutto ciò, se non è strano, è quanto mai singolare, no? Mi domando se il papa ne sia a conoscenza.  La chiesa, che io sappia, è la casa di Dio e non chiude le porte a nessuno dei fedeli, anzi le spalanca più che può e s’ingegna perché il numero di essi si faccia fiume e poi mare, possibilmente. Non si è mai visto che le chiese contino i fedeli e mettano i guardiani alle porte, come le discoteche. Le chiese, se i fedeli sono tanti, spalancano le porte e non rimandano nessuno a casa ‘rifutato e scacciato’. Questa è una cosa grave, dillo al nunzio da parte mia. Le porte delle chiese si lasciano aperte. Chi non trova posto dentro segue la Messa da fuori. Nessuna chiesa ‘scaccia’ i suoi fedeli. La chiesa che lo fa non è la casa di Dio. I ‘discepoli’ hanno ricevuto lo Spirito Santo, perché fossero in grado di essere ‘mandati’ ad evangelizzare il mondo intero (non un’elite di pochi). Le ambasciate vaticane sono ‘gli avamposti’ a cui ‘i discepoli’ sparsi nelle varie nazioni devono poter guardare. Sono l’esempio cui essi devono potersi ispirare (o, almeno, questo è ciò che io credevo dovessero essere…); se fossero soltanto ‘ambasciate’, ove la Messa si dovrebbe celebrare come un ‘optional’ destinato a pochi ‘privilegiati’, allora… tutta la visione del cattolicesimo cambierebbe. Credevo che le nunziature fossero ‘la lampada sul moggio’ del Vangelo nel mondo; se così fosse, dovrebbero ‘chiamare’ più gente possibile e ‘fare festa’ vedendola arrivare e non trincerarsi dietro le porte chiuse. Lo spazio non dovrebbe essere un problema; in Africa lo spazio è la sola cosa che non manca. La nunziatura ‘deve’ avere dei requisiti che diano apporto anche alla grandezza del ‘tempio’ dedicato a Dio? D’accordo, ma che lo spazio non diventi una scusa per discriminare i fedeli: si celebri la Santa Messa in cortile, piuttosto che scacciare i fedeli! Il vecchio e malandato papa Giovanni Paolo Secondo ha potuto trovare la forza di reggere la croce della via crucis anche in agonia, i sacerdoti della nunziatura non possono sopravvivere al caldo africano per la durata di una Messa? Molta gente polacca, italiana e di varie nazionalità si è sentita esclusa e ghettizzata dalla nunziatura, per accedere alla quale occorre un pass (che si concede a pochi). Ho cercato di rabbonire gli scontenti, in passato, ma mi rendo conto che qualcosa non va da qualche parte. Capisco che, in tempo di terrorismo, si sia portati ad agire con cautela, ma mi rendo conto anche che il Vangelo ha mandato i discepoli ‘come agnelli in mezzo ai lupi’. I missionari rischiano la vita ogni giorno, molti di loro vengono uccisi barbaramente ed altri partono per le stesse destinazioni e non si fermano davanti al rischio e si schierano al fianco del povero, del derelitto e dell’oppresso, a costo della vita. Sono loro ‘la chiesa’. Pensavo di poter dire che essi prendono la loro luce-esempio dai ‘punti-luce’ ufficiali delle varie latitudini; oggi, qui, mi rendo conto che così non è… e che è il resto della chiesa che dovrebbe prendere esempio da loro… I tempi presenti sono imprevedibili e, tra le varie insidie, nascondono anche l’intolleranza religiosa: se noi Cristiani vogliamo sopravvivere e guadagnarci il sacro diritto alla libertà di culto, dobbiamo vestirci di una coerenza estrema (che mal si sposa con privilegi- lassismo-comodità e ingiustizie piccole e grandi). Chi può ‘si cinga i fianchi’, come dice il Vangelo, e ‘porti la croce’ che gli compete (quella dell’aderenza senza deragliamenti all’ineliminabile ruolo individuale); la porti apertamente, con passo sicuro e senza sotterfugi; solo così il Cristiano può trasformare gl’inevitabili molti nemici, se non in fratelli, in amici, o almeno in buoni vicini. Tempi ancora più duri si profilano e non è arrogandoci il diritto di ‘scegliere’ chi ospitare in chiesa e chi no che potremo essere pronti a superarli, ma soltanto preparando provviste sconfinate di magazzini senza fondo di pazienza, accoglienza, disponibilità e amore sincero. Il genere umano (e la chiesa innanzitutto) ha bisogno dell’esempio del poverello di Assisi. Mai come oggi abbiamo avuto bisogno di quella figura in saio (decisa a sconfiggere l’artiglio dell’avidità, della presupponenza, dell’avarizia, dell’egocentrismo e della presunzione), perché viviamo in un’era dalle frontiere mobili e dalle migrazioni molteplici, in cui poveri e ricchi (di colori-razze-culture-religioni diverse) vengono a contatto, si mescolano, si sovrappongono e decidono quale destino dare al pianeta (che non è casa degli uni o degli altri, ma dei figli e dei posteri delle razze modiali).  

Le nunziature sono piccoli esempi della pluralità umana globale e hanno il dovere di adeguarsi ai tempi (e di fare da ‘traccianti’ per il resto dei luoghi). Ogni nunziatura (e questa non meno delle altre) raccoglie attorno a sé varie nazionalità e può lanciare lontano il seme dei messaggi di cui l’umanità ha bisogno. Gli ambasciatori cristiani di tutto il mondo vanno nelle nunziature e in esse cercano qualcosa di più (del ‘privilegio’ di essere accolti alla faccia di chi resta fuori) da portare alle loro nazioni. Ogni nunziatura dovrebbe creare quel qualcosa di più e ognuno di noi dovrebbe potervi contribuire …”.

   

Gli Africani che si sono raccolti attorno a me ascoltano, con aria sorpresa. Non capisco se sia per le cose che dico o perché sembri loro strano che una ‘bianca’ sia stata lasciata fuori come loro. Ci penso per un attimo. Almeno il fatto che io sia qui fuori, tra i Nigeriani, non è di sghimbescio: per l’ambasciata vaticana, il colore della pelle non fa differenza (viva la vita!) e che ciò non accada, tra gli Africani, in Africa (dove ‘il bianco’, con il suo denaro, ha sempre corsie preferenziali) è  bello, ve lo garantisco. Di colpo, mi sento più calma. “Non ce l’ho con te”, dico al guardiano, “ma sei il solo che ci dia ‘udienza’, al momento. Il ragazzo sorride e i suoi denti risaltano come perle, nel bel viso lucido come bronzo, mentre dice: “You’re right, madam. The things you said are wise”. Aggiungo: “ Non pensare che io ce l’abbia con questo nunzio in particolare; è una brava persona. Mi torna in mente che, appena poche sere fa, a un ricevimento ufficiale, mi diceva: ‘Costruiscono a rotta di collo in questa città… Le ditte sono tante e tutte straniere… I soldi spesi per questi palazzi imponenti e… vuoti dovrebbero servire a loro (si riferiva ai poveri che non hanno neppure da mangiare)’. “   

 Mi volto e… mi rendo conto che ho parlato a molta gente, raccoltasi dietro l’angolo, dove non ho spinto lo sguardo. Trovandomi di fronte una sorta di pubblico, mi sento avviluppare dalla timidezza consueta e non dico altro. I presenti applaudono. L’uomo con il messale dice: “Ci avranno pure lasciato fuori e privato della Messa, ma abbiamo avuto la nostra omelia… Avremo qualcosa su cui meditare durante la settimana”. In coro mi dicono: “Thank you!” Arrossisco, saluto e vado via, sentendomi goffa. Camminando, rigiro nella mente le parole che ho detto e mi sento a disagio. Ci sono già tanti cori gratuiti contro le religioni e, in Italia, ce ne sono in sovrabbondanza sulla nostra religione e, soprattutto, sulla chiesa cattolica. Non era mia intenzione dare forza a quei cori, specialmente quando derivano, prevalentemente, da un qualunquismo distruttivo e pernicioso. Io credo che tutte le religioni meritino rispetto e deferenza, perché ognuna di esse racchiude tesori di saggezza pacifica e di verità ascetiche; anche l’islamismo, piagato dall’estremismo lacerante, contiene ricchezze non indifferenti ed è nobilitato da asceti che conoscono le vie della meditazione, della solitudine, della preghiera e delle catarsi senza pesi-intolleranze-miserie terrene. La nostra religione risuona delle impronte che i calzari di Cristo (figura storica che ancora data i nostri calendari) vi hanno inciso e annoda scale unificanti tra i popoli, perché non in una sola sillaba fa intuire contegno-antipatia o disprezzo nei confronti di una sola creatura. È una religione che comanda l’amore e il perdono (anche nei confronti del nemico più efferato). La rispondenza tra uomini e Vangelo / tra essi e i tempi storici è altra cosa… (e tutti sanno che la chiesa ha attraversato tempi bui e che ha persino subito e imposto al mondo l’affronto di papi-non sacerdoti- v. i Borgia- tessitori di abissi ingiustificabili- per salvarsi dai quali i fraticelli umili e incorrotti hanno cercato l’esilio e il nascondimento- v. gli amanuensi trascrittori di tesori che avremmo perso per sempre).

L’importante è non cadere nelle spire del relativismo ‘non qualificato e inqualificabile’ (S. Montanelli mi presti ancora una volta, dall’al di là, le parole da lui usate, un tempo, con riferimenti ben diversi) e di un ateismo inconsapevole che sia  più ignoranza che cinismo.    

I calderoni popolari in cui cadono ‘cenere e panni lordi’, come si dice nel Sud dell’Italia, cioè una mistura di argomenti che vanno dalle critiche alle singole religioni e agli uomini che le amministrano, ai dubbi sull’esitenza di Dio e alle varie forme di razzismo strisciante sono di bassa lega e sono banditi dalle mie intenzioni. Le parole che ho pronunciato nel mio piccolo ‘speech’ davanti alla nunziatura non desiderano imparentarsi con essi, né entrare nel novero di chi crede in cosa-come-dove-perché.

Mi sento più ottimista, dopo queste riflessioni. Le case-non case dai poveri affollate mi sembrano quasi ridenti. La ragazza che si affaccia nella finestra assente ha viso sereno e tempo in abbondanza per pensare, chiacchierare e oziare. Non sembra stare poi tanto male. Gli uomini sul tronco ridono e parlano e non sembrano avere pensieri-preoccupazioni. Il giovane uomo che prima attingeva l’acqua ora sta spolverando un tappeto: non ha dormito sulla nuda terra … La giovane donna  che incontro è alta, magra e slanciata come un dipinto; è china sulla sua bambina e le aggiusta la maglietta nei pantaloni. Il bambino che porta legato sulla schiena ha faccino appagato e occhi curiosi. La madre si raddrizza, gli accarezza il sederino, prende per mano la bambina e se ne va, disseminando sorrisi. Eccomi servita con la morale che mi spettava: i molti problemi grandi e piccoli non devono impedirci di essere ottimisti; c’è tanta bellezza in questo mondo e, dove c’è bellezza c’è salvezza…

Moonisa   

 

-Come l’Africa guarda al terzo millennio-

-Come l’Africa guarda al terzo millennio-

Ho appreso (dal passaparola e dalla stampa locale) molte notizie importanti. Tre, in particolare, hanno attratto la mia attenzione: 1) centinaia di studenti hanno rischiato di morire, nel Gombe, per aver mangiato fagioli nella mensa scolastica/ hanno accusato dolori addominali terribili, schiuma alla bocca e vomito/ sono stati salvati in extremis; 2) la sicurezza nazionale è a rischio, per la crisi alimentare che ha già colpito i paesi sottosviluppati e che si potrebbe estendere alla Nigeria entro l’estate; 3) soltanto il 40% dei Nigeriani ha accesso all’elettricità.

Il punto uno trova spiegazione nel common knowledge che i negozianti immagazzinino i legumi con polveri pesticide e insetticide.Il punto due è stato discusso da The Abuja Discussion Forum, che suggerisce all’assemblea nazionale misure a lungo termine, l’aggiunta di nuovi articoli alla lista delle importazioni alimentarie l’importazione di grano e mais, in modo da dar tempo alle coltivazioni locali di maturare e di venir fuori dai ‘boschi’; consiglia ai Nigeriani di darsi da fare, di coltivare e produrre; chiede al popolo in senso lato di impegnarsi in attività più produttive del ‘sognare ad occhi aperti’ e dello scorrazzare in lungo e in largo facendo la politica che serve soltanto ad affossarsi a vicenda.

Il punto tre trova collocazione (e non soluzione) nella First Annual Conference of the National Association of Energy, alla quale è stato invitato il prof. Felix Dayo, della facultà di ingegneria dell’Università Carnagie Mellon (USA). Facendo delle stime sul settore elettrico e sulle sue problematiche, il Prof. Dayo ha affermato che soltanto il 40% della popolazione ha accesso alla corrente elettrica, in Nigeria, e che il governo può intaccare il problema soltanto facendo ricorso a nuove fonti di energia. Due sono i periodi del suo discorso che reggono la centralità semantica del tutto e che mi colpiscono come una notizia poco rassicurante e molto preoccupante: “If vision 2020 is to be achieved, the energy requirement should not come from gas alone. It must be complemented by nuclear”. ‘La visione’ 2020 della realtà africana del Prof Dayo non vuole e non può escludere il nucleare, come se esso fosse una ‘medicina’ e non un terribile pericolo mortale. L’eminente professore, forse, farebbe meglio a starsene nel suo paese e a non andare nei paesi sottosviluppati a dire cose che più che essere cavolate sono bombe a orologeria. È vero che la grande Africa è terra di conquista ancora e sempre e che apre ‘mercati’ senza confini all’imprenditoria intraprendente delle potenze ben equipaggiate, ma è vero altresì che il nucleare fa concessioni alla vita sul filo del rasoio e che il filo del rasoio si basa su precisione, attenzione, preparazione, professionalità, condizioni ambientali e sociali che non ammettono se e ma. Mi domando come certa gente possa parlare a cuor leggero, sapendo che certe dimensioni hanno condizioni tutte arrangiate-approssimate-così così-sempre un po’ di sghimbescio e che non potrebbero garantire la sicurezza di strutture ad alto rischio (di catastrofi non dirette soltanto all’Africa). Il professor Dayo venga a vivere in Africa a lungo, prima di dire sciocchezze. La gente, qui, è capace di scavare dei tunnel sotto i generatori di stato, di trivellarne i serbatoi e di rubarne la benzina, lasciando al buio l’intero stato, come è capace di andare a bucare gli oleodotti nazionali e di causare la morte di molta gente, senza pensarci e senza realizzare che cosa stia facendo. Qualcuno si è introdotto nelle polveriere nazionali, ha svitato una bomba, per estrarne il rame, e ha innescato esplosioni a catena, che, per giorni e giorni, hanno straziato vite umane. È possible che le centrali nucleari non contengano nulla che possa attrarre la curiosità e/o la ‘voracità’ popolare, ma è impossibile affermare che il luogo possa ispirare ‘sicurezza’. È successo quel che è successo, in Russia, e tutti conoscono la storia notevole del popolo russo e la sua mania di precisione-puntualità-coraggio-testardaggine-intraprendenza…, che cosa potrebbe (o meglio non potrebbbe) mai succedere nella rilassata-rilassante-fatalistica (più lassista che no) dimensione africana?

Il mondo deve aprire gli occhi e distogliersi dalla direzione nucleare (che è portatrice di morte certa a breve termine con le scorie e a lungo termine con l’imprevedibile sempre in agguato). Gli sciacalli delle sventura devono smetterla di volerne esportare il potenziale terrificante e distruttivo (e devono smetterla,soprattutto, di volerlo inserire anche nelle realtà più ingenue e meno adatte del creato).

Moonisa

Amabili / ‘amanti’/volenti/nolenti,
le dimensioni del creato sono
tutte entità vive/respiranti.
Osservano, valutano, pesano, misurano, si lasciano attraversare.
La misura della loro volontà di conglobamento ha arcobaleni-compasso
proporzionati alla compenetrazione-lettura istintiva
del raggio-universo dei microcosmi infiniti incistati
in ogni centimetro quadrato di vita.

Le dimensioni accettanti spalancano aurore, meriggi, tramonti
di paesaggi-divenire-vagiti-crescite-rantoli e
sfoggiano stupori candidi di ascolto, quando se ne trova la chiave;
le si può raggiungere, entrarvi e con esse respirare-arrancare-volare-vivere e morire.
Le dimensioni indifferenti sonnecchiano al sole pallido o infuocato,
nella pioggia di luna o nella coperta del buio di velluto, e lasciano liberi di essere
ma, se le s’invoca e le si accarezza, si svegliano, ascoltano, spiano e,
a volte, invitano ai loro banchetti di sovrabbondante meditazione riverberante e ‘mesmerizzante’.

Le dimensioni nolenti scongiurano echi-passi concitati
con il fremito della terra
(che piange ferite calpestate e sogna d’essere con riverenza sfiorata).
Le voci delle multi-meraviglie minute,
nei mille milioni di alveari-formicai-tane-sottoboschi-tortuosità-grovigli-sinuosità-zolle-cieli annidate
diranno quando-quanto potersi avvicinare dove
(e in compagnia di quali fruscii-musiche placanti).

Vestiti, allora, di albe boreali, i ‘Givers’ del creato
saranno un popolo e troveranno le porte (tutte) delle dimensioni-emisferi universali.
I ‘takers’ si rannicchieranno in gruppi sparuti ai confini insondabili del pensiero.

 

’Semi’ indesiderati

Le fiamme della foresta, nel mio giardino nigeriano, hanno ombrelle fiorite come macchie accecanti e regalano gocce di fuoco al prato sottostante. La begonia perenne, divenuta albero, mi è stata regalata dal clima che non conosce rigori. Le orchidee della mia veranda non smettono di fiorire, l’orecchio di elefante ha foglie impressioniste di un verde brillante screziato di rosso e di bianco. Chiuse nei miei armadietti puliti e disinfettati, in cucina, le pentole, con tanto di coperchio, possono contenere scarafaggi (non si sa come/perché/per quali vie) e causare continuo lavoro-disinfezione-fobia. Un piccolo geco abita la tromba delle scale, altri s’intrufolano ovunque, disegnandosi come sculture vive al centro delle porte bianche.

La fine di un dinner party mi ha donato, ieri sera, ore piccole. Tutto era già stato rassettato, sistemato e pulito dallo steward. Dovevo soltanto mettere in frigo i dolci ancora sparsi per la casa e dare al ragazzo le cibarie da portare via, per se stesso e per il suo bambino. Ho preso un contenitore di plastica. Era pulito e custodito, tra vassoi e ciotole, in un pensile chiuso da porte a molla e con calamita. Sul coperchio c’era una sorta di seme di anguria; a un esame ravvicinato appariva lucido e marrone, come buccia di castagna novella. Aveva una forma strana; se fosse stato ingigantito, sarebbe stato una di quelle borsette-borsellino senza manico che le donne usano su abiti da cerimonia. Era bombato e arrotondato e finiva a feritoia tipo zip da un lato. Da quella ‘chiusura’ seghettata era attaccato alla superficie plastificata trasparente. L’ho fatto cadere e l’ho osservato meglio: doveva trattarsi , pensavo , di qualche seme appartenente a un vegetale che ancora non conoscevo. Ho chiesto allo steward che seme fosse. Egli non lo ha toccato e ha detto: “This is no seed”. “E che cos’è, allora?!?”, l’ho incalzato. Ha risposto che non lo sapeva. “Devi saperlo! Tu vivi qui e devi averlo visto altre volte. Voglio sapere che cos’è!”, ho insistito. “I must investigate”, ha detto. Io ho preso ‘il seme’ tra indice e pollice e ne ho tastato la consistenza. Non era duro. Un liquido biancastro si è affacciato alla ‘cerniera zippata’. Ho urlato e l’ho lasciato cadere. Non era un seme! Decisamente era qualcos’altro. Lo steward ha preso paletta e scopa e lo ha portato via, poi ha salutato e se n’è andato. Ho capito che lui sapeva e che non mi voleva dire che cosa fosse. Ho espresso il mio sconcerto a mio marito. Egli ha riso e ha detto: “Sono insetti, quasi certamente. Ma come faccio a sapere da dove vengono? Entreranno dalla finestra. Non ti devi preoccupare”. “E siamo in Africa… Non lo dovrei dimenticare, anche se il giardino e lo spazio attorno fanno parte di una vera metropoli”, ho pensato, a completamento del suo pensiero; poi ho pensato a Josephine, la ragazza nigeriana, andata via da poco, insieme agli altri ospiti. Il suo volto ridente, ravvivato dal fiocco rosso che portava dietro la nuca, mi ha rassicurato. “Lei è così carina; vive qui con tanta disinvoltura e senza farsi problemi, imparerò da lei…” , ho pensato, mentre lavavo e disinfettavo le mie mani ‘a cento e a venti’ (come si dice nel Sud dell’Italia).

Questa mattina ho, di nuovo, assillato lo steward. Ha ceduto, infine, e mi ha detto: “Those ‘seeds’ actually are eggs, cockroach’s eggs”. Non sono ‘semi’ ma uova di scarafaggio…, che schifo! Tutte le fessure dei vari pozzetti esterni e delle biologiche sono state sigillate con silicone. Ho predisposto una disinfezione generale interna a base di candeggina pura, ma la cosa non mi ha risparmiato un senso di nausea involontaria.

Commetto sempre l’errore di rilassarmi, ogni volta che risolvo un problema, e di pensare che non ci sia più nulla ch’io non sappia di questo luogo. Pensavo di aver risolto il problema della puzza e degli scarafaggi qualche settimana fa… In uno dei bagni della zona notte, al secondo piano, c’era sempre un insopportabile odore di fogna e non riuscivo a comprendere perché. Guardando, osservando, chiedendo, ho scoperto che, in Africa, i costruttori sono obbligati a lasciare ‘uno sfogo’ alle biologiche, ovvero alle fognature, e che tale ‘sfogo’ era un buco nel muro proprio all’altezza della finestra del bagno. Ho visto uscire da tale buco gli scarafaggi che, entrando dalla finestra, tranquillamente si aggiravano per casa. Erano ‘creature’ marroni gigantesche, lucide e coriacee, dotate di grandi ali foderate e di capacità di volare. Ho smesso di aprire la finestra e ho chiesto alla ditta di riferimento di correre ai ripari. Nulla è accaduto. Nessuno sapeva come ovviare all’inconveniente e ci ho pensato da sola. Ho fatto applicare un tubo al foro, portare lo sfiato lontano dalla finestra e schermare l’estremità con apposito coperchio forato; non pensavo che il disagio si sarebbe ripresentato sotto forma di ‘semi-uova’ strani.

Mi sento ‘a disagio per il disagio’ che provo vivendo in una delle belle case della capitale (di una terra in cui non ci sono limiti alle vie del ‘disagio’-miseria diffuso e in cui chi ‘può’ ha case con condizionatori in ogni stanza e chi ‘non può’ ha come stanza la strada e come tetto il cielo). Il brusio dei condizionatori accesi, per chi ha ‘orecchie’ oltre-egoismo, può divenire un rimprovero. Vorrei tenerli spenti perché mi sento in colpa anche per il risparmio energetico e per l’uso dei gas refrigeranti coinvolti. Li tengo spenti il più a lungo possibile e, quando il caldo è eccessivo, mi faccio la doccia a ripetizione; quando non resisto, ne accendo uno e lascio aperte le porte, per rinfrescare più stanze.

Avere uno steward è un regalo della vita. Godere di ‘servigi’ che non ci si può permettere in Europa è un privilegio che non mi calza come tale e che incrementa ‘la casa dei disagi’. Invidio le persone ‘happy go like’ sorridenti e serene, che di steward-autisti-giardinieri-guardiani non sanno altro che il nome.

 

Paesi-usanze e disincanto

Il mio steward aveva vent’anni quando si è sposato (con una ragazza del villaggio che ne aveva sedici). La loro prima bambina è morta di pochi mesi. Sunday mi ha detto che ‘è stata uccisa da un juju fatto da parenti invidiosi, quando lui l’ha portata al Sud, per presentarla al villaggio’. L’occulto qui è la spina dorsale invisibile di tutto quanto ci sia di visibile. Il loro secondo bambino ha avuto spesso la malaria e varie febbri e diarree. Mio marito e io abbiamo sempre fornito aiuto (per medici e medicine). L’assistenza medica, in questa nazione, è un miraggio lontano e i malcapitati che si ammalano, se non hanno soldi, semplicemente muoiono.   

Ero in Italia, quando ho saputo della morte della moglie di Sunday: si è ferita con una lamiera arrugginita del pulman con il quale si recava al villaggio e ha fatto una morte terribile, tra gli spasimi del tetano. Nulla hanno potuto gli aiuti giunti tropo tardi (e, probabilmente, amministrati male). Sono passati più di quattro anni da allora. Il bambino (Geremiah) ha otto anni, ora. Abbiamo vegliato su di lui indirettamente, facendo da angeli custodi a suo padre. Sunday ha l’età dei miei figli e, spesso, mi chiede consiglio. Tenendo conto della sua cultura, cerco di dargli risposte adeguate. Lui viene al lavoro la mattina, si assenta per portare il figlio a scuola, torna e resta fino alle tredici, poi va a riprendere il bambino a scuola e resta con lui fino alle diciotto. Torna per preparare la cena (sa cucinare ormai all’italiana); quando bussa al mio ufficio e chiede di parlarmi, capisco che qualche problema lo angustia. Aveva chiesto di parlarmi, tempo fa, e mi aveva detto che aveva pensato di risposarsi. Non mi ero stupita. Sapevo che, da un po’, al villaggio sua madre ‘teneva d’occhio’ una ragazza per lui e che gli ‘faceva regolare rapporto’ sul comportamento della prescelta. Lui mi aveva detto che non si trattava di quella ragazza, ma di un’altra, anche lei delle sue parti e anche lei in città. L’aveva frequentata, poi aveva cambiato idea, perché lei non mostrava simpatia per Geremiah. Non capivo dove fosse il problema; a capo chino, Sunday non trovava parole. Era riuscito, infine, a dirmi che la ragazza si era proclamata incinta e che lui non voleva sposarla. Gli avevo detto che avrebbe potuto prendersi cura del nascituro senza necessariamente sposarne la madre e lui si era rasserenato. La cosa, alla nascita della bambina, era divenuta oggetto di deliberazione per i maggiorenti del villaggio e Sunday aveva dovuto farsi i duemila km di strada e recarsi là. Si era assunta la paternità della bambina e aveva chiesto che gli venisse affidata, ma era stata lasciata alla madre naturale, perché la allattasse. Lui avrebbe preferito affidarla alla nonna paterna, ma aveva accettato la decisione impostagli e aveva cominciato a passare alla ragazza madre quanto stabilito dalla legge tribale. Mentre ero in Italia, per le festività natalizie, Sunday mi comunicò, per telefono, che  la sua baby-girl era morta; quell’incosciente di giovane madre non ne aveva avuto cura abbastanza.

Prima di partire, lo avevo mandato a Kaduna, a riprendersi il filgio Geremiah, che aveva lasciato da una zia. Mi diceva sempre che il bambino era ammalato, che la zia si spendeva i soldi destinati alle medicine e al cibo e che non lo curava. Avevo tenmuto che il bambino morisse e avevo convinto suo padre a portarlo in Abuja con sé. Il bambino era guarito e, con il nostro aiuto, era stato inserito in una scuola del posto. Tornando dall’Italia, ho trovato un Geremiah-sorpresa. È venuto, con aria gioiosa, a salutarmi, e io sono rimasta impalata e senza parole: ha un pancione biafrano e arti così minuscoli da fare impressione. L’ho salutato, quando sono riuscita a ritrovare la parola, e gli ho servito il cibo che gli piace, ma quella notte ho dormito poco e male. La pancia gonfia da tipica alimentazione di soli carboidrati è il sintomo che precede il gonfiore esteso agli arti, le piaghe, il ritardo mentale e la morte. Ho scritto una mail a un bravo medico e gli ho chiesto consiglio adeguato. Il giorno dopo, ho fatto sedere Sunday e gli ho fatto un interrogatorio a tappeto; sorrideva e insisteva, all’inizio: “Il bambino sta bene. Mangia tanto, altro che se mangia!”. Gli ho tolto il sorriso dalla faccia, facendo l’elenco dei giorni della settimana, chiedendogli la dieta di tutti i pasti del bambino, scrivendola e mostrandogliela. Il bambino aveva mangiato, durante tutti i mesi della mia assenza, gnam a colazione-pranzo-cena tutti i giorni, con l’integrazione settimanale di un pasto di fagioli e uno di riso; si era portato lo gnam anche come spuntino a scuola… Avrei urlato e lo avrei picchiato, se avessi potuto. Sapevo che mio marito aveva continuato la tradizione da me stabilita di dargli ogni giorno pasti uguali ai nostri: che fine avevano fatto? Se li era mangiati tutti lui e al bambino non aveva portato nulla?

Gli ho spiegato che cosa rischia suo figlio e gli ho preparato un menu altamente proteico, poi gli ho detto che deve cambiare mentalità e priorità, anche se ciò collide con la sua sua cultura atavica.

I pochi soldi che prende sono ritenuti tanti da chi è rimasto al villaggio. Tutta la famiglia gli sta addosso e gli chiede-chiede-chiede. Lui ha doveri verso tutti, tranne verso il suo bambino. Spende per i suoi genitori e per i suoi fratelli (che deve mantenere agli studi) ciò che ha e ciò che non ha. Continua a chiedere loan (anticipi sullo stipendio) che vanno ad accorciare il suo già piccolo income e vive perché noi lo manteniamo e gli facciamo doni. Vedere come ha ridotto suo figlio mi ha fatto provare rancore contro di lui e contro la sua cultura. Gli ho chiesto se al villaggio, da piccolo, aveva visto bambini con la pancia gonfia. Mi ha detto che il fratello più piccolo aveva avuto quel problema per breve tempo e poi si era ripreso. Gli ho spiegato che al villaggio i bambini scorrazzano in libertà, si arrampicano, cercano nidi, pescano pesci, rubano uova, mangiano anacardi e frutta verde e secca di ogni tipo, oltre allo gnam preparato dalle madri, ma che, in città, possono contare soltanto sul cibo servito in casa dai genitori e che dar loro solo gnam significa condannarli a morte. Gli ho fatto promettere che avrebbe speso il suo salario per suo figlio, prima che per chiunque altro, e che, a inizio mese, avrebbe comprato carne, pesce, formaggio e uova e avrebbe conservato nel nostro freezer le porzioni giornaliere del bambino. Non ho ancora visto nulla di tutto ciò. Ho comprato le vitamine del gruppo B e gli ho detto di darle al bambino. A ogni pasto ho fatto sempre la porzione per il piccolo e gliel’ho mandata, ma, dopo settimane, non ho visto miglioramenti. Sunday ha detto varie volte di aver già preparato pesce o carne per il bambino e di non aver bisogno di prepararglielo in casa mia. Gli ho chiesto, in quei giorni, aposteriori, cosa il bambino avesse mangiato e, spesso, mi ha dato tre risposte diverse per lo stesso pasto e ho capito che la sua natura africana non si lascia ‘influenzare’ facilmente. Dialoghi come il seguente sono stati illuminanti: “Hai detto che a pranzo, oggi, al tuo bambino avresti dato il pesce che avevi già pronto a casa tua. Che cosa gli hai dato per merenda?” / “Fagioli”/ “Che merenda è?!? E a che ora gliel’hai data?” / “Alle tre” / “E a che ora gli avevi dato il pranzo?” “Alle due”. / “E tu, se avessi davvero pranzato alle due, alle tre faresti merenda con fagioli?!? Vuol dire che alle tre gli hai dato il solo pasto della giornata, che non gli avevi preparato il pesce, come avevi giurato, che tu hai mangiato proteine qui con noi e che a tuo figlio non hai voluto somministrarne. Hai capito qualcosa del discorso che ti ho fatto e del rischio che corre tuo figlio?!? Te ne importa almeno un po’?” / “Gli ho dato il pane per merenda. No, gli ho dato i biscotti”.

L’ho chiamato al computer e gli ho fatto vedere il messaggio del medico. Mi è sembrato impressionato, ma chi può dire cosa gli passi davvero per la mente… Il bambino rischia la vita e, per salvarlo, occorre fare in modo che egli assuma almeno un pasto proteico in tutta la giornata; per assicurarmene,  ogni sera (e nei giorni di festa anche a mezzogiorno) lo faccio venire da me e gli faccio mangiare almeno una bistecchina di carne o di pesce. Gli metto davanti tre alternative gustose e gli do una cronologia obbligata: deve mangiare prima la carne o il pesce, poi il formaggio e tutto il resto dopo. In genere riesce a mala pena a mangiare la prima portata e a bere il latte in polvere bello denso che aggiungo per precauzione. S’ingozzerebbe, se potesse, di sole patate fritte (di cui il suo corpicino rachitico non ha affatto bisogno). Non ama il formaggio, che non fa parte della sua cultura e che non conosce; glielo metto nelle frittate e faccio in modo che lo mangi a sua insaputa. Fa i capricci, a volte; si mostra assonnato, silenzioso e svogliato e, per farlo mangiare, mi occorrono parole giuste e pazienza; altre volte arriva saltellando e mi saluta a ripetizione, con la gioia negli occhi. Suo padre è sempre presente, osserva e impara (almeno spero).

I pasti che non gli posso somministrare di persona glieli mando da Sunday, suo padre, e continuo a sperare... Ho misurato la circonferenza della pancia e ogni settimana cala di un centimetro. La prima ‘misurazione’ ha fatto ridere Sunday e infuriare me. “Ah!Ah!Ah! solo un centimetro!”, ha riso come un matto e io gli ho detto che era un incosciente e che avrebbe dovuto piangere invece.  Spero tanto che Sunday impari ‘l’abitudine’ a saper nutrire suo figlio. Mi dice, ultimamente, che prepara carne e pesce ogni giorno per il bambino, ma so che il solo pesce vero che entra in casa sua è quello che preleva ‘allungando’ al massimo la testa che taglia ai pesci che compriamo noi. 

Tra due giorni Sunday andrà al villaggio, a sposarsi, poi tornerà con la nuova moglie. Io farò il suo lavoro, durante la sua assenza, e lui verrà pagato lo stesso; come regalo, gli compreremo tutte le stoviglie che gli serviranno (e lui è felice come un bambino). Il destino del piccolo Jeremiah va incontro a un nuovo giro di vite importante. Let’s wish him well…!!!

Moonisa    

    46 RAMBO NIGERIANI ARSI VIVI. FATALITÀ O INTRIGO?

The Sunday Newspaper del primo giungo 2008 riporta la notizia di uno ‘strano’ incidente, in cui hanno perso la vita ben 46 soldati nigeriani di ritorno dal Dafur (Sudan). Il giornale commenta, con tono sbalordito, l’ironia terribile della fine di quei giovani baldi che, dopo aver scampato la morte sfuggendo ai proiettili e alle varie ambasce di un territorio di guerra ricco di pericoli mortali, sono stati trucidati nel più infame e assurdo dei modi a pochi passi dalle loro case e dalle loro famiglie. Il giornalista aggiunge che le autorità militari e il senato promettono di ‘acclarare’ le circostanze dell’immane tragedia e che ciò la dice lunga su quanto si vorrebbe far passare per incidente stradale. Pare che i soldati viaggiassero, in piena notte, in un furgone militare che sarebbe andato a schiantarsi contro un’autobotte piena di benzina, a causa del ‘fumo denso’ di altri mezzi e della ‘mancanza di visibilità’ sulla superstrada.

I mezzi che emettono ‘fumo denso’ sono reali e inquinano terribilmente. Le strade definite ‘superstrade’ non sono molto larghe, sono ‘afflitte’ da assenza di manutenzione e sono, perciò, piene di buche. Posso ratificare tutto questo, per esperienza personale, ma la cosa puzza di intrigo da qui all’eternità all the same, per varie e infinite ragioni. Le strade, di notte, non sono affatto affollate e, anzi, sono deserte. Non è vero, in alcun modo, che potessero esservi così tanti mezzi inquinanti da creare una coltre di ‘nebbia’, tanto per cominciare, ma, se anche così fosse stato, come dice il giornalista nigeriano, perché quei quasi cinquanta eroi nazionali viaggiavano via terra, quando l’aereo che li aveva condotti in patria avrebbe potuto e dovuto condurli fino a Maiduguri? Perché, oltretutto, viaggiavano nascosti nel buio della notte? Perché non avevano potuto viaggiare nel sole e alla vista di tutti? L’impatto con l’autobotte, seppure ‘frontale’ poteva uccidere all’istante quasi cinquanta persone contemporaneamente? Possibile che nessuno di quei giovani rimanesse vivo e uscisse dal mezzo?  L’impatto, poi, avrebbe fatto esplodere il furgone militare come una bomba… ma, allora, di che furgone si trattava? Un ‘normale’ mezzo, con un ‘normale’ serbatoio esplode in tal guisa solo nei film americani; nella realtà può esplodere così solo se è stato preventivamente e appositamente imbottito di tritolo. L’autobotte poteva esplodere, certo. L’articolo del giornale nigeriano non lo dice. Dice soltanto che il mezzo su cui viaggiavano i militari è esploso “consuming” tutte le persone a bordo. Una cinquantina o poco meno di giovani rambo dalla pelle scura, stivati in un mezzo militare, reduci dall’inferno e stanchi per un lungo viaggio, che vengono arsi vivi in un rogo immane, sono un’immagine che nessuna mente può contenere senza un brivido di indimenticabile orrore. 

Con quale criterio era stato fatto l’elenco dei soldati nigeriani da rimandare a casa, come, perché e da chi? ‘Chi’ erano i 46 giovani e che cosa avevano fatto e visto in Dafur? Quale mistero si nasconde dietro l’urlo inaccettabile delle fiamme crepitanti che hanno divorato i loro corpi prestanti? Quali intrighi inter-nazionali…?

Il giornalista nigeriano rimprovera al governo la mancata manutenzione delle strade e, di conseguenza, la mancata protezione della vita umana e conclude auspicando che il governo non dimentichi le famiglie delle vittime e che le ricompensi senza lungaggini e senza burocrazia.

Ciò che vorrei io riguarda sì le famiglie dei 46 giovani eroi nigeriani, ma le riguarda in quanto parte di una nazione inserita in una realtà mondiale e in quanto individui respiranti e pensanti come ogni altro fratello dei quattro punti cardinali del globo terrestre. Io vorrei che la verità venisse fuori; che cose così terribili non passassero come ‘normali’ in questo mondo odierno che ha perso il senso delle proporzioni e che si è assuefatto agli orrori di qualsiasi fatta e di qualsiasi misura; che i singoli, le collettività e i vari governi fossero avulsi da piedi-mani-occhi-bocche-menti diaboliche e che la lealtà disinteressata fosse abitatrice regolare di case- comuni-regioni-stati-nazioni.

Vorrei che il genere umano potesse piangere le sue tragedie senza doversi affettare l’anima con le lame pluriaffilate della sfiducia e del sospetto e che non dovesse soccombere, schiacciato da intere montagne di impotenza overpowering.   

Moonisa

  -Morte di un innocente-

Chi legge questo articolo, dovrebbe aver letto anche quello precedente, per capirne bene il contenuto.

Avevo concluso il paragrafo “paesi-usanze e disincanto” con: “Il destino del piccolo Jeremiah va incontro a un nuovo giro di vite importante. Let’s wish him well!!!” Tale chiusura appare, ora, alla luce degli eventi nuovi, come una premonizione d’epilogo e mi s’incista nel cuore, a guisa di spina.  

     Sunday, durante la sua assenza dovuta alle nozze, lasciò il bambino a casa di suo fratello. Misurando la circonferenza della sua pancia gonfia, al suo ritorno, verificai che, durante quella settimana, non era scesa del regolare centimetro settimanale, ma non me ne stupii, perché sapevo che, insieme ai suoi cuginetti, aveva sicuramente usufruito della tremenda dieta usuale, a base di gnam. Ricominciai a somministrargli una dieta iperproteica serale e continuai a fare pressioni sul padre perché si rendesse conto della gravità del problema e facesse altrettanto con gli altri pasti della giornata. L’uomo si profondeva in ringraziamenti e promesse, ma aveva negli occhi l’espressione distratta e quasi divertita dell’attenzione doverosa e condiscendente.

   Il matrimonio di suo padre fu per il bambino motivo di orgoglio e di gioia, perché, finalmente, gli diede modo di poter esibire una mamma all’uscita da scuola. Ebbi modo di scoprire varie volte che il bambino aveva mangiato cibi diversi da quelli che io gli avevo mandato e di tornare a scontrarmi con il muro dell’ignoranza testarda di Sunday.

   Giunse il momento della mia partenza. Lasciai in freezer piccole porzioni di carne proporzionate al bambino e raccomandai a Sunday di non fargli mancare le proteine. Egli mi ringraziò ripetutamente e fece promesse che non riuscirono a scaldarmi il cuore. Feci promettere a mio marito che avrebbe continuato a provvedere ai pasti di Jeremiah, sapendo che, oberato di lavoro com’era, mio marito avrebbe sì fornito il cibo a Sunday, ma che non avrebbe avuto tempo e modo per controllarne di persona la destinazione. Il destino del bambino era nelle mani di suo padre, di colui che lo aveva ridotto in quelle condizioni. Sperai con tutto il cuore di aver scalfito le errate convinzioni di quell’uomo e partii, sentendomi pervasa da un senso di impotenza e d’inutilità. Feci, in seguito, richiesta, via e-mail e via telefono, delle misure settimanali del bambino, ma non ottenni che bofonchiamenti frettolosi; a distanza di un mese, mio marito mi telefonò piangendo: “Il piccolo Jeremiah è morto”. Non ci potevo credere e, soprattutto, non potevo accettare che, in questo nostro terzo millennio pieno di nazioni potenti, di tecnologia, di consumismo e di obesi (per ‘abbuffate’ continue), i bambini debbano ancora morire di denutrizione. Povero Jeremiah. Povero uccellino implume caduto dal nido. Povero fiore reciso prima di incontrare la primavera. Povero piccolo uomo avvizzito e morto prima di poter crescere-vivere-invecchiare… Piansi. Mio figlio mi disse: “Non devi sentirti in colpa, non li puoi salvare tutti”. Aveva ragione, ma io ne volevo salvare almeno uno: volevo salvare quel particolare bambino.

   Provai rabbia e rancore contro Sunday e contro la sua testarda ignoranza. Urlai contro mio marito, che non mi aveva detto del precipitare della situazione, “per non farmi preoccupare” e che mi aveva impedito così di fare un qualche tentativo estremo di evitare al bambino ‘le cure’ dannose e incompetenti dell’ospedale che si era inventate malattie assurde e aveva dato il colpo di grazia, con vari veleni-antibiotici, al piccolo fegato già martoriato. Uno pensa che ‘in quei posti’ debba esserci una certa conoscenza delle patologie endemiche e ricorrenti. Non è così (fatta eccezione per la malaria). Coloro che si piccano di essere medici e paramedici, in quelli che passano per ospedali e/o ‘cliniche’, nulla ne sanno e scambiano tranquillamente le macchie-piaghe (che seguono al gonfiore della denutrizione/e dell’alimantazione con soli carboidrati) per malattie esantematiche. Credo, in ogni caso, che soltanto i carboidrati delle solanacee causino una simile conseguenza perniciosa. Dubito che il pane e la pasta farebbero altrettanto.

   Non volevo sentire Sunday, non volevo parlargli, per non sbattergli in faccia le sue responsabilità, e non telefonai. Lo fece lui. Mi chiamò sul cellulare, subito dopo aver sepolto il bambino. Piangeva, farneticava: “I miss my child! I want my child! I thought I’d make a family, but now I’m confused. I lost my first girl, I lost my wife, I lost the second little girl and now Jeremiah… I think I’m unlucky. There’s something very wrong with me. I miss my child, I want my child!”

   Tutta la mia rabbia cedette il posto a una pena che sciolse il nodo-rancore che induriva il mio cuore. Dissi qualche frase di circostanza. Sunday si lasciò andare alla rituale ‘commemorazione’ degli ultimi momenti di vita del bambino. Disse che l’accaduto non era colpa di nessuno, perché il bambino aveva “d’improvviso” manifestato una sorta di “strano morbillo”. Tentai di ricordargli che gli avevo già spiegato ripetutamente che l’esantema sarebbe stato il passo successivo al gonfiore e che avrebbe preceduto la morte, ma poi mi arresi… Mi tornò in mente S. Agostino: come travasare il mare in una buca…? Provai pena per Sunday. Era devastato dal dolore; mi stava chiedendo conforto. Non dovevo infierire. Gli dissi ciò che il fatalismo della cultura africana può accettare, mi ripromisi di fargli rimborsare da mio marito la ricarica che aveva consumato chiamandomi e chiusi nel cuore il ricordo di quell’ennesimo bambino sfortunato. Un rimorso tagliente prese forma e si annidò nella mia mente: avrei dovuto fare di più; avrei dovuto smuovere mari e monti e magari portare il bambino all’estero, per salvargli la vita. Io, allora, però, non sapevo affatto che il bambino sarebbe morto. Pensavo che, come il fratello di Sunday, si sarebbe ripreso e sarebbe tranquillamente cresciuto…

   Feci delle ricerche e scoprii che quella patologia si chiama ascite, che la pancia si gonfia quando il fegato, stremato dall’eccessiva quantità di glicogeno, comincia a creare e a immagazzinare liquido nel peritoneo e che l’esantema compare quando il fegato giunge al capolinea. Ne rimasi sconvolta.

   Ancora non so se il piccolo Jeremiah avesse delle reali chance di sopravvivenza, ma so che il senso di colpa resterà con me, comunque, e che non mi darà tregua (anche se, razionalmente, sono consapevole delle difficoltà insormontabili che mi avrebbero impedito di portar via il bambino dall’Africa, se ci avessi provato- Tanto più che io non sono fortunata come la cantante Madonna, che ha potuto portare via dall'Africa celermente i bambini che ha adottato). Tornerò in Africa e, anche se sarà un’impresa disperata, tenterò di spiegare a più persone possibili che lo gnam contiene molto glicogeno e che non può e non deve essere la sola base dell’alimentazione… Lo dirò a madre Semira1, la suora oblata di Nazareth che ha creato in Nigeria una scuola, nella quale ospita più di ottocento bambini (dal nido alla scuola media), di varie etnie-religioni-culture. Lei nutre bene e veste i suoi bambini; dà loro istruzione dignitosa e ambienti adeguati, perché diventino adulti capaci di costruirsi un futuro (e possibilmente di darne uno anche alla loro nazione). Jeremiah è morto perché suo padre lo ha portato ad Abuja; se fosse rimasto nella scuola di madre Semira (ove era stato accolto) sarebbe vissuto. Madre Semira è il volto della speranza e la risposta all’Africa che è stanca di elemosine e di pietà e che ha bisogno di parità. C’è un P.T.A., nella scuola di madre Semira, che, come tutti i Consigli d’Istituto, si riunisce e discute sui problemi. Potrei, forse (in nome della speranza, che non deve mai morire) cominciare a divulgare il problema dell’ascite da lì…    

Moonisa

Queste culle (in acciaio, perché il legno si deformerebbe e verrebbe attaccato dalle termiti) hanno vari donatori. Due di esse sono un dono di don Mauro, parroco di Agrate Brianza. 

 

Il cibo per tutti i bambini viene preparato da suor Concepita in giardino, in un gran pentolone sul fuoco, sotto un capanno aperto ai quattro venti, ma rispetta un menu preciso e completo dei vari alimenti e delle ricette locali. I bambini aspettano con ansia e in religioso silenzio le loro porzioni. Amano la merenda e sono ghiotti soprattutto di quella del mercoledì (zobo e dough nut/ carcadé e bombolone). In questa foto, in fondo a sinistra, è visibile madre Semira.

Divisi per fasce d’età, i bambini occupano, a turno, il refettorio. Le attività didattiche le svolgono con insegnanti nigeriani, che conoscono bene tutte le loro etnie. Tutti i bambini sono bravissimi nelle varie drammatizzazioni, nelle danze e nel canto. Da due anni sono stati scelti e premiati come gli allievi più bravi dello Stato.

Questi bimbi sono del secondo anno della materna.

Non mancano le ore di ricreazione e di gioco ai bambini di madre Semira, che, come l’onda del mare, è ovunque e dappertutto, per procurare loro tutto ciò che serve (presso le flour mills per la farina/presso gli Hausa, per la mucca da macellare/nei mercati più sperduti, per i vari tuberi, cereali e ortaggi/ecc., ecc., ecc.).

1 Madre Semira torna spesso alla sua casa madre, in Alberobello, per attingere al conto corrente postale gli aiuti-pane inviati dai volenterosi. Il c.c. 19332709 è intestato a Istituto Religioso Oblate di Nazareth- Alberobello, ma è specificamente di madre Semira. Ho regalato a madre Semira un cellulare. Il suo numero è: 002348035902432 (chiamare costa solo qualche euro, se non si fanno lunghi discorsi).

DIVAGAZIONI LETTERARIE

Oggigiorno, il mondo del libro è divenuto un universo più confuso che variegato. Comprende oggetti-libro di varia natura, che non sempre hanno a che fare con la letteratura. 'Tutto', oggi, può essere impacchettato, infiocchettato e racchiuso tra le copertine di un 'libro' (con i vari ausili/ complicità /interessi dell'industria editoriale e mediatica), in linea con l'assenza di etica e di valori (che sacrifica tutto/ chiunque e comunque sull'altare della visibilità e del Dio denaro).

Difficile è, perciò, per i lettori, orientarsi tra gli input pubblicitari e le ondate sopraffacenti delle montagne infinite di carta stampata che piovono, come valanghe inarrestabili, in tutti i grandi magazzini (già di per sé disorientanti e spersonalizzanti).

Difficile è, altresì, stabilire un discrimine tra chi 'scrive' e chi 'si fa scrivere'/ tra chi è 'scrittore' e chi è personaggio di altro genere/ tra ciò che è letteratura e ciò che è cronaca o... altro ancora.

Io scelgo di credere nell'oggetto-libro di coloro che erano-sono-saranno 'scrittori'

(nella mente-nel cuore e nei vari meandri-fucine-provviste idiomatiche della 'penna' doviziosa di semine-parole eterne come le stagioni).

La narrativa vera racchiude il fascino delle primavere più belle e l'incanto di tutte le musiche del creato. I romanzi scritti con lingua corretta-elegante-ricca-snella e lirica (antica o moderna che sia) sono una benedizione  (in formato-dizionario o tascabile). Ne è la prova "The far pavilions" di M. M. kaye, uno dei libri più belli che io abbia mai letto (per la tessitura della storia che narra e per la purezza colta e raffinata della lingua). Ha dimensioni che eguagliano il suo valore letterario.

Lo stesso dicasi del libro "Duncton Stone" (volume three of The book of silence) di William Horwood: trovandomi davanti le sue 872 pagine e vedendo che parlava di talpe, ho pensato che non lo avrei mai letto fino in fondo. L'ho letto e lo rileggo, di tanto in tanto/ ringrazio Horwood di averlo scritto e la Harper Collins Publishers di Londra di averlo pubblicato.

I libri di Wilbur Smith  esplosero, anni fa, come un fenomeno industriale e pensai che, dopo "Stirpe di uomini" e i "I fuochi dell'ira" la qualità del suo scrivere si fosse piegata ai giochi del mercato e fosse scaduta. Confrontando la qualità letteraria di tutto ciò che ha scritto con alcune opere "moderne", mi rendo conto che persino nei libri dal taglio più commerciale W.S. ha mantenuto un livello linguistico sempre accettabile ed elegante (a parte gli strafalcioni-assenti in lingua originale- inseriti nelle traduzioni da alcuni traduttori incompetenti). Le sue descrizioni accorate e plurisfaccettate di luoghi e atmosfere (della 'sua' Africa) sono canti d'amore pieni di un lirismo commovente e senza frontiere (superato soltanto da M. M. Kaye in "The far pavilions", da Ruark nel suo "Something of value" e da James Clavel nel suo Taipan).

 
Non amo il linguaggio scadente degli scrittori e, soprattutto, non giustifico la vivisezione della bellezza linguistica. La scusa dell'abiezione come ambientazione non funziona. Ci sono stati, ci sono e ci saranno cantori eccelsi che hanno cantato/cantano/canteranno le luci crude, l'abbrutimento e l'abiezione con la lingua più pura e più bella che si possa immaginare (da Verga a Tennessee Williams). Amo molto leggere le pagine di chi scrive in modo elegante, scorrevole e -direi- elastico, trasformando la lingua in un'alchimia poetica che nobilita chi scrive e chi legge (arricchendoli). Cerco la lingua duttile e bella negli scrittori del passato e del presente di ogni nazionalità.
Non mi è dispiaciuto affatto leggere "L'Impero dei draghi" di Valerio Massimo Manfredi. Peccato che vi abbia riscontrato qualche imperfezione e due o tre di quegli errori (non di stampa, di distrazione e/o di formattazione) che bastano a cambiare il livello letterario di un libro (vedi "Ci aveva pensato più volte di intraprendere un viaggio del genere..." (un disastro grammaticale)//"Perché i ragazzi crescono in fretta e i giocattoli possono non piacergli più"(una vera e propria delusione "letteraria")


Ho letto il libro di Ammaniti

("Come Dio comanda")

 Ha, indubbiamente, parecchi pregi ed è pervaso di tensione portante dall'inizio alla fine. Leggere e vedere come va a finire diventa prioritario rispetto alla tessitura sintattica del tutto. Nella piena emotiva del lettore, tutto passa in secondo piano, a parte la curiosità e la voglia di andare avanti. Tutto ciò che fa la fortuna del libro resta e non intendo scalfirlo, ma mi sento di dire quanto segue: la lingua (che riporta un uso discutibile del punto e un uso careless dei funzionali/ interscambia-confonde la funzione reggente e secondaria delle proposizioni/ affianca le buone pagine a pagine contenenti proposizioni senza periodo reggente) non è sempre all'altezza della struttura (ben architettata) del libro Come Dio comanda (vincitore del premio Strega). Chiedo venia, se mi soffermo su alcune "deroghe" al rispetto dei cardini sacri della lingua.

Lascio perdere le imperfezioni insignificanti e considero parte della libertà creativa le "bufale" bonarie (scondo cui il bambino di tredici anni carica, scarica, trasporta un omaccione alto e robusto, come suo padre, a corpo morto, e trafuga il cadavere di una coetanea -su cui fa operazioni da medico legale incallito). Mi limito a elencare alcune delle frasi poco ortodosse che hanno disturbato la mia lettura del libro e che mi sono rimaste in mente.

"Entrò nel soggiorno.", per esempio, è una frase completa, con soggetto sottinteso, predicato verbale e complemento indiretto. Si può permettere il punto finale. Ha un solo difetto: la frase che viene dopo il punto, che, invece, non si può permettere di cominciare come comincia, dopo il punto: "Una stanza di una ventina di metri tutta ricoperta di montagne di carta pesta colorata."Separato da quello reggente, questo periodo rimane sospeso e senza predicato. I due punti, o la virgola, al posto del punto, dopo "soggiorno", sarebbero bastati a creare una proposizione ben bilanciata e corretta.

La frase "E sopra c'erano soldatini...", per esempio, sarebbe al posto giusto, se non avesse il punto davanti alla sua congiunzione iniziale, che lega il tutto alla frase reggente. "Il suo presepe.", così com'è, tra due punti, che periodo è e dove ha il suo predicato? "Era da anni che ci lavorava" contravviene a molte regole contemporaneamente. "Era" è, in questa frase, un predicato (singolare) senza soggetto-oggetto ed è collegato a un complemento -per di più- dalla valenza plurale. "Era da... che" non è sintatticamente corretto e, usato come frase, oblia l'eleganza e l'estetica linguistica. "Lavorava lì da anni ", molto semplicemente, avrebbe rispettato l'estetica e la semantica (nonché la sintassi), ma lo scrittore avrebbe potuto servirsi di molte varianti 'colorite', pur nel rispetto della lingua. "Migliaia di pupazzetti raccolti nei cassonetti." da solo, chiuso tra due punti, è un altro periodo senza sintagma reggente.

La punteggiatura è molto importante e la differenza tra il punto e la virgola è uno spartiacque sine qua non. "Gli sembrava di aver appena chiuso gli occhi. Ma la cosa più terribile era...", occorre la virgola prima del "ma", al posto del punto. I problemi di quella proposizione, però, non finiscono lì ("A lui sembrava di aver appena chiuso gli occhi". Ma la cosa ecc.": si tratta di due periodi legati tra loro, dal 'ma', anche se separati da un punto fuori luogo, solo che il primo non è retto da un soggetto, ma da un complemento di termine. Sarebbe bastato rendere i due periodi "unibili", dotandoli di soggetti compatibili: "Aveva l'impressione- 'lui' sottinteso- di aver appena chiuso gli occhi, ecc."). Buona norma è non perdere mai il 'filo' delle parentele (dirette o indirette) tra i periodi reggenti e secondari.

La forma linguistica rispondente al 'corredo' espressivo dei personaggi è motivazione ok (tanto più che è ottima abitudine letteraria quella di documentare le opere con 'inserti' contestualizzanti e storicizzanti e, ove possibile, anche 'contaminarle' con citazioni vernacolari) provided che il discorso indiretto, riservato al 'cronista' brilli come 'stage' sul quale si gioca la 'performance' dello scrittore e non contenga cose poco eleganti e sgrammmaticate come: "..."/"Un furgone con sopra scritto..."/"Quando lo vedeva aprire la finestra /.../ sapeva che si era organizzato da..." /"Il giorno che Danilo aveva letto"/"A una nullità non valeva la pena di menarlo"/"...cose belle. Che passavi la settimana aspettandole". 

"..."; " Un furgone con sopra scritto", invece di 'con la scritta'; "si era organizzato da", invece di 'in modo da', pur essendo piaghe, sono mali minori. "Il giorno che", invece di 'il giorno in cui', è il sintomo visibile di carenze invisibili molto gravi (che impediscono di discernere tra i complementi diretti e quelli indiretti legati all'uso corretto dei verbi). "A una nullità non valeva la pena di menarlo", offende la transitività del verbo ('menare', nel senso di picchiare, è transitivo, regge il complemento oggetto non quello di termine; è corretto scrivere e dire: picchiare una nullità/ NON è corretto ed è obbrobrioso scrivere e dire: picchiare A una nullità. "... cose belle. Che..." è già una tragedia, per quel punto usato a sproposito. "Cose belle. Che passavi la settimana aspettandole" è un vero disastro. Analizziamo tale 'frase' (per così dire): Cose belle (con il punto, così com'è, è un periodo sospeso e incompleto, senza predicato-della serie: dove/ come/ perché/ che cosa fanno/ecc.- chi lo sa). Che/ Le quali è un pron. relat. staccato dal soggetto d'origine da un punto, ovvero da un muro- funge da soggetto ed è in attesa di predicato verbale reggente, ma, ahimè, resta senza, perché il predicato che arriva subito dopo è passavi (che, 'incasina' la frase ancora di più, facendo riferimento, ex abrupto, ad altro soggetto: tu). Il resto della frase è, se è possibile, ancora peggiore: la settimana aspettando"le" (quelle- cioè le cose belle). Il risultato letterale dà alle frasi ben costruite un senso logico; quello di questa frase è: 'Cose belle. Le quali passavi tu la settimana aspettando quelle'. La buona lingua è un puzzle dagli incastri perfetti (quando se ne rispettano le parentele-appartenenze sintattiche).Gl'incastri bitorzoluti, strani, incompatibili, distorti e/o distorcenti, che non funzionano, sono da addebitare ad altre cause-altre fonti (non linguistiche).
Il fatto che i personaggi siano persone emarginate e non acculturate non dice che non si possa descrivere il loro sentire, usando verbi dalla giusta paternità soggettuale. La frase in questione avrebbe potuto essere espressa con vari livelli (sempre nella fedeltà al soggetto che regge il periodo e in presenza del predicato relativo) di correttezza-eleganza (per es.: Ci sono cose belle che pervadono di attesa l'intera settimana), ma, volendo attenersi al suo modello originario, avrebbe potuto essere almeno corretta: "cose belle (soggetto non imprigionato dal punto) che ti- meglio sarebbe stato 'gli'- facevano passare la settimana nell'attesa (di riviverle)". Scrivere, con lingua leggera, corretta ed elegante, che anche gli emarginati hanno "cose belle" da aspettare con ansia non toglie nulla alla condizione di indigenza o di abbrutimento dei personaggi di riferimento.

  "La villa cadeva a pezzi e ci pioveva dentro" sembra una frase come un'altra e, invece è una sorta di pasticcio sintattico: "La villa (soggetto) cadeva a pezzi// La villa (soggetto) ci pioveva dentro". La proposizione è una, ha un solo soggetto e due predicati (peccato, però che soltanto il primo vada d'accordo con il soggetto "La villa"). Il complemento indiretto è oltraggiosamente fuori luogo 'appeso' a una particella pronominale (che non ha patria, là dove si trova). Il soggetto, in ogni frase, lancia dei precisi S.O.S. Sarebbe bastato, anche in questo caso specifico, seguirli, per non usare, a casaccio, verbi estranei alla struttura del periodo: 'La villa (soggetto) cadeva a pezzi e (sempre la villa: il soggetto non è cambiato) imbarcava acqua dal tetto'.

"Su una parete era appesa una bacheca, in un angolo due poltrone, di fronte una scrivania": ecco un'altra frase-disastro. "... era appesa" è l'unico predicato verbale, che sovrintende ai tre complementi di luogo della proposizione e si riferisce sia a "bacheca" che a "poltrone" e a "scrivania". Il risultato è: "Su una parete era appesa una bacheca, in un angolo era appesa due poltrone, di fronte era appesa una scrivania". Tutto ciò è ben lontano dalla lingua corretta, eppure sarebbe stato semplice capire che occorrevano due o tre verbi (e che la frase avrebbe dovuto assomigliare a qualcosa del tipo: "Su una parete era appesa una bacheca, in un angolo 'giacevano' due poltrone, di fronte 'troneggiava' una scrivania"), o che sarebbe bastato 'appendere' la reiterazione descrittiva a un unico predicato (che la potesse reggere: "Vide (oppure "c'erano" o ancora "la stanza conteneva") una bacheca appesa alla parete, due poltrone in un angolo e una scrivania, ecc.").

L'uso improprio e strano di alcuni termini come"raffazzonato" (per arraffazzonato) , "l'ansimo" (per ansimare o ansito) e "fraseggio raffinato" (usato come descrizione di un dipinto) potrebbe andare bene nel discorso diretto, ma si trova, invece, in quello indiretto.
"Se n'era innamorato al primo sguardo di quella creatura": è un errore grossolano, che si è costretti a sopportare nel linguaggio quotidiano e mediatico, ma che non è concepibile in un'opera letteraria. Sentire alcuni reporter e vari personaggi famosi dire: "Che ne pensi di questo?" e "Di questo ne parliamo dopo" ferisce l'orecchio di chi ama e rispetta la lingua italiana, ma non offende la letteratura. Trovare il "ne" (che vuol dire 'di quella') e poi di nuovo "di quella creatura" in un libro di narrativa è, a dir poco, scoraggiante.
"Non ci capiva niente di arte": è lo stesso errore/ come sopra/ e aggrava la situazione con l'uso del "ci": "Non 'ne' capiva niente di arte" è sbagliato, per le ragioni che ho spiegato prima. Sarebbe bastato scrivere: "Non capiva niente di arte. "Non ci capiva niente di arte" è sbagliato due volte ed è anche un nonsense, perché il "ci" (quando è appropriato) va d'accordo con la preposizione 'in' e non con la preposizione 'di' (in una frase come: "Ho letto le istruzioni; non ci capisco niente", 'ci' vuol dire 'in esse' -nella frase in questione 'ci' e 'di' abbinati formano un insieme molto lupus e poco lapsus).

"Gli abitanti del comprensorio non erano molto amati dalla gente che gli abitava accanto" (la versione corretta è: gli abitanti del... ecc. non erano molto amati dalla gente che abitava loro accanto): in un'opera letteraria ci si aspetta ancora di vedere 'gli' usato nel suo corretto significato di 'a lui','le' nel suo significato di 'a lei' e 'loro' nei riferimenti plurali.

Errore gravissimo è l'uso transitivo di un verbo intransitivo in "Si litigavano i posti" (si litiga per qualcosa e non "qualcosa"- ci si disputa i posti- litgare non è transitivo).

L'uso di "sua mamma" e "suo papà", che (ormai massificato anche nelle zone cui era estraneo) è già un pugno allo stomaco, per le strade; in un romanzo (nelle parti descrittive, non nei dialoghi) è insopportabile: gli 'scrittori' (ovvero gli addetti ai lavori della lingua) devono conoscere il giusto uso di "suo padre e sua madre" /"la sua mamma e il suo papà".

ll discorso indiretto scivola spesso dalla terza alla seconda persona del verbo, perdendo di vista il soggetto di riferimento cui il cronista sta dedicando la descrizione (vedi il punto in cui lo scrittore descrive il ragazzo che camminava sotto la pioggia e che non si rendeva conto di essa: "Le gocce erano così piccole che quasi non 'ti' rendevi conto che pioveva" (il ti avrebbe dovuto essere si, per via della terza persona, ma la frase suddetta, però, per rispondenza al soggetto reggente, dovrebbe essere: 'Le gocce erano tanto sottili che quasi 'gli' facevano dimenticare ecc.'). Un altro periodo con gli stessi "problemi" è: "Avevano un modo di fare che ti sentivi un verme". Questa frase, come l'altra, contiene più piani di errore: la perdita di vista del soggetto (cuil verbo deve rifeirirsi), l'inserimento di un soggetto dissonante (tu) e la trasposizione del pronome dalla terza alla seconda persona. Leggasi: "Avevano (loro) un modo di fare che 'tu' ti sentivi un verme". Il risultato è che la relazione tra il protagonista e coloro che 'avevano un certo modo fi fare' viene di colpo surclassata da un 'tu' estraneo alla vicenda narrata e relazionato alla voce narrante. Sarebbe bastato riferire il verbo al soggetto giusto (il pronome relativo che/ il quale) legato a "modo di fare": "Avevano un modo di fare che lo faceva sentire un verme".

L'uso di alcuni verbi, nel libro in questione (vedi la frase: "Il fiammifero rimase indeciso, poi scaturì una fiammella blu"), fa pensare ad alcuni dialetti (che rendono possibile la transitività dei verbi anche dov'è assolutamente proibitiva): vedi il vernacolo pugliese che tranquillamente forma frasi come "esci la macchina/ scendi la bambina". Il verbo scaturire non è transitivo: non si può dire 'il fiammifero scaturì la fiammella'. La forma corretta è: 'Il fiammifero rimase indeciso, poi produsse una fiammella blu' o, nella migliore delle ipotesi: '... e il miracolo della luce accadde: dal fiammifero scaturì una fiammella blu'.

 Conclusione: Non c'è pubblicazione senza refusi e senza errori. Gli 'errori' possono, infatti, capitare (anche ai migliori conoscitori della lingua), perché non c'è scrittore che, rileggendosi, non rimanga strabiliato di fronte alle imperfezioni che non fanno parte del suo bagaglio e che, pure, per qualche imprevedibile ironia, finiscono nelle sue pagine. Si fa di tutto, per estirpare detta malerba da ogni opera, prima della pubblicazione, e, a volte, non vi si riesce. Alcuni criteri di ripetitività, generalmente, sono 'campanelli di allarme' che non dovrebbero, invece, 'capitare'. Mi auguro che gli errori sopra elencati rientrino tra i 'dispetti' degli spiritelli -zizzania letteraria. Può accadere anche che gli scrittori di grido producano opere frettolose, attese dagli editori, e che non si preoccupino molto del 'passaporto' linguistico 'canonico', poiché alla narrativa destinata al mercato urbi et orbi possono bastare le sole caratteristiche propeduetiche ad 'andare bene': quelle compatibili con i canali industriali. La massa legge sotto l'ombrellone, facendo caso soltanto all'immediatezza comunicativa e non alla dignità letteraria di ciò che legge (e neppure alla grammatica). Non si accorge dei sintagmi reggenti assenti/ delle parole-frase orfane di appartenenza verbale/ dei punti usati a mo' di virgola, tra periodi senza predicato/ della punteggiatura minima/ del lessico carente/ dei funzionali a inizio periodo/ della consecutio temporum errata/ dell'intransitività-transitività dei verbi massacrata/ della logica non sempre pertinente/ della confusione di soggetti nell'uso impersonale dei verbi/ dell'uso parentetico del punto. Un'opera non ha bisogno del battesimo della letteratura, oggi, ma soltanto di quello delle vendite, per entrare nel mondo letterario dalla porta principale (se viene trasformato in versione cinematografica -dulcis in fundo, vi entra attraverso veri e propri portoni e decolla verso le traduzioni in altre lingue e la commercializzazione globalizzata). Auguriamoci che gli scrittori siano un po' meno industriali e più ("tanto") letterari.
 


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