BRUNA SPAGNUOLO E NASSIRIYA

©by Bruna Spagnuolo

NASSIRIYA

(una località geografica, prima sconosciuta agl'Italiani, è diventata, nell'inconscio collettivo, una dimensione associata al dolore, non solo per le tragedie del popolo iracheno...)

 

Fortunate saranno le generazioni dei popoli che non avranno

bisogno di eroi, perché esse vivranno ere in cui il progresso

e la civiltà coincideranno... Nella nostra era ( lontana da tale traguardo),

i valorosi vanno incontro al pericolo (e come scudo hanno solo il petto...).

Il loro sangue ci appartiene. Onorarlo è un dovere.

foto da "Il Giorno" del 13.11.2003. Scritta centrale da "Intesrpazi" di Bruna Spagnuolo

 

La strage dei nostri militari ha colpito i parenti delle vittime in modo tanto tragico, terribile, inaspettato e inclemente quanto inenarrabile e insopportabile. Ha colpito, però, a tradimento, anche la comunità in senso lato. Io ero impegnata alla revisione di una mia opera letteraria ponderosa, quando fui investita (letteralmente) da quella tragedia. La notizia mi schiacciò con una valenza ciclopica. Era un evento così assurdo e violento che mi lasciò come stordita. L'opera cui stavo lavorando (ambientata nella saggezza antica della civiltà contadina ad economia familiare) divenne, di colpo, incomprensibile ed estranea. Mi sentivo come se fossi stata investita da un ciclone. L'11 settembre americano mi aveva lasciato la strisciante sensazione che il mondo conosciuto fosse inesorabilmente tramontato dietro una realtà ambigua e minacciosa (sconosciuta). Il 12 novembre italiano mi travolse con la consapevolezza che il malessere chiamato terrorismo aveva raggiunto ormai le nostre case. Immemore di tutto, fuorché del dolore legato alla tragedia e ai suoi molti tentacoli, lasciai da parte qualsiasi lavoro e cominciai a scrivere, di getto,"Come la tillandsia gli eroi...". Vi racchiusi il fremito disorientato e dolorante della folla senza volto e il dolore escoriante dei familiari delle vittime, pur senza mai parlare dei fatti di cronaca descritti dai Media. Il dolore si tuffava nel cuore di una vecchia nonna e si stemperava nella sua saggezza, disseppellendo altro dolore in agguato dietro le pieghe dell'anima, che invano aveva assunto aspetto di quercia annosa sotto lo scalpello del tempo...

Come "quella" nonna, tutti i familiari dei caduti si sentivano schiantati dall'accaduto... e, come lei, forse, cercavano, nei ricordi, le mappe remote di quel presente da eroi dei loro cari...

Da La nonna di Nassiriya (Come la tillandsia gli eroi):

Non sapeva quanto tempo fosse passato da quando aveva continuato a sforzarsi di superare la sonnolenza dovuta alle medicine. Un brusio sommesso, simile al fruscio del bosco nei giorni ventosi, le giunse da fuori. Ma c’erano altri rumori, simili a scricchiolii strascicati, in quel brusio,che assomigliava al suono delle onde di un mare in tempesta e al crepitio di un incendio poderoso.

L’infermiera lesse la domanda nei suoi occhi e disse: "... è la gente, nonna Ina, tanta gente. Continua ad arrivare da tutto il paese e dai paesi vicini, per portarti il suo amore, per dare a te tutto l’onore che tuo nipote merita e tutto l’amore che portano a lui e alla sua divisa. Oggi è il giorno dei funerali. Tutti coloro che avrebbero voluto andare a Roma e che non hanno potuto, sono venuti qua. La strada, l’orto, la collina sono pieni di gente che piange, deposita fiori e prega. Gli alberi sono pieni di bandiere. Sul muro della tua casa c’è un cartellone con la scritta: “L’Italia piange i suoi figli e noi con lei e ci stringiamo attorno a nonna Ina, la nonna d’Italia”. Non si è mai vista una cosa come questa, nonna Ina…", poi l’infermiera cominciò a piangere sommessamente. La vecchia le fece una carezza e, con uno sguardo indecifrabile disse: "Avrei dovuto capire che tutto questo doveva accadere…"

Quel nipote era stato diverso sempre; l’aveva onorata con pensieri che lei faceva fatica a contenere. In quel momento, capì perché si era sempre sentita un po’ inadeguata alla compagnia di quel nipote: egli apparteneva a tutti e non soltanto a lei. La parentela universale, che aveva abitato il cuore di quel ragazzo speciale, aveva oltrepassato il suo corpo e la sua mente, infine, e si era fatta vento di pace oltre i confini delle case, delle città e degli stati.

 

Ogni nazione innalza monumenti ai caduti, perché il tempo non ne cancelli il ricordo.

La ferita di quel ricordo terribile, a Nassiriya, troverà balsami-monumento nella costruzione

da Il Giorno-13.11.2003

di un parco..., un luogo della memoria, in cui le piante verdi e i giochi dei bambini sconfiggeranno la morte... (se i burattinai del terrorismo permetteranno alla vita di reiterare le fioriture germoglianti della speranza...).

Questa pagina

nasce come un piccolo fiore (di "quel parco" della memoria); è per chi vuole ricordare, per ben orientare le mappe del futuro. I caduti hanno seguito sogni di pace (fatti bandiera) e hanno trovato la morte (in un destino da eroi al quale non avevano aspirato), ma i veri eroi sono proprio coloro che tali non sanno di essere e che, indipendentemente da come moriranno, nell'oblio si donano ogni giorno.

Da La nonna di Nassiriya : " Vedi, nonna, il segreto della grandezza dell’Arma è proprio nella faticosa coerenza umile e misconosciuta di ogni singola divisa portata senza encomi e senza elogi, attraverso i piccoli eroismi quotidiani fatti di sacrifici, di riposo saltato, di rischi corsi all’insaputa di tutti di giorno e di notte, di delusioni e, spesso, anche di ingiustizie più o meno volontarie o involontarie, proprio là dove dovrebbero stare di casa gl’ideali. Per diventare eroi nazionali, amati e noti, basta l’attimo, in cui doni la vita senza avere il tempo di rammaricartene. Ma il vero eroismo è quello ignoto al mondo, quello della quotidianità in cui rinnovi sistematicamente la tua accettazione del contratto con la morte in ripetuti inni alla vita, senza aver bisogno del grazie di nessuno e scegliendo di non indossare la tua divisa inconsapevolmente, ma come un simbolo che si fa pelle su di te. Ho scelto di diventare soldato di pace e di partire con quelli che la pensano come me, perché, quando li guardo, negli aeroporti e nelle altre nazioni, li vedo come tante bandiere italiane in cammino nel mondo. Con loro, mi sento soldato di una patria allargata al mondo, pur restando un soldato italiano dal più profondo angolo del mio animo al più insignificante centimetro di pelle del mio corpo".

Coloro che qui sotto sono elencati sono eroi per gl'ideali di cui sono stati casa prima ancora di andare incontro alla loro morte inattesa; sono eroi, perché, prima di morire, hanno vissuto per qualcosa che trascendeva la loro stessa vita; sono eroi, perché nel rischio di vivere hanno incluso (da vivi) quello di morire; sono eroi, perché hanno speso la loro vita per qualcosa di buono e per il Bene e perché lasciano eredità che non temono ossidazioni...

Il Giorno- 13 novembre 2003

A questo elenco devo aggiungere altri nomi: il maresciallo dei carabinieri Carlo De Trizio- 37 anni- di Bisceglie, il maresciallo dei carabinieri Franco Lattanzio- 38 anni- di Pacentro, il capitano dell'esercito Nicola Ciardelli- di Livorno // il tenente colonnello Giuseppe Lima- 39 anni- di Roma, il capitano Marco Briganti- 33 anni- di Forlì, il maresciallo Massimiliano Biondini- 33 anni- di Bagnoregio, il maresciallo Marco Cirillo- 29 anni- di Viterbo, il soldato Davide Casagrande- 28 anni- di Belluno, il caporalmaggiore Massimo Vitali- 26 anni- di Galatole, il caporalmaggiore Alessandro Pibiri- 25 anni- di Cagliari, il maresciallo Simone Cola- 32 anni- di Tivoli.

Anche se questa pagina è dedicata a Nassiriya, non posso non elencare coloro che, per gli stessi ideali, hanno perso la vita in Afghanistan:

Il maresciallo Daniele Paladini (il cui eroico cuore ha battuto per l'ultima volta- in sintonia con l'etimologia del suo nome- per altruismo e sentimenti protettivi nei confronti della scolaresca afgana falcidiata insieme a lui dalla dissacrante esplosione di un kamikaze); il maresciallo Giovanni Pezzulo (il cui eroismo meraviglioso era concentrato verso gli Afgani che erano in attesa degli aiuti preziosi che egli si accingeva a distribuire); il caporalmaggiore Giorgio Langella e il caporalmaggiore Vincenzo Cardella/ il tenente Manuel Fiorito e il maresciallo Luca Polsinelli (falcidiati vilmente da ordigni nascosti sul tragitto del coraggioso svolgimento del loro dovere); il sottufficiale del Sismi Lorenzo D'Auria (che ha affrontato con coraggio l'epopea di un rapimento e che è stato privato della vita durante la liberazione); il capitano Bruno Vianini (crudelmente strappato alla vita nello svolgimento del suo dovere, dall'aereo precipitato a 60 km da Kabul); il caporalmaggiore Giuseppe Orlando (perito in un incidente al Puma su cui viaggiava la sua pattuglia); il caporalmaggiore Giovanni Bruno (morto per uno sbandamento del mezzo militare); il caporalmaggiore Michele Sanfilippo (messo sulla traiettoria di un proiettile esploso per errore dalla sua coraggiosa scelta di soldato di pace); il tenente colonnello Carlo Liguori (il cui eroico cuore ha cessato di battere per e nella sua ultima missione di pace).

- A tutti coloro i cui nomi qui non compaiono dedico un grande posto nel mio cuore (se non ho aggiornato l'elenco-se non posso elencare tutte le missioni-se ho fatto qualche omissione, chiedo perdono).

Da La nonna di Nassiriya (Come la tillandsia gli eroi):

Il respiro che le restava era per suo nipote, il guerriero della pace, l’anima generosa, sempre in volo verso l’orizzonte, che era, infine, entrata nell’orizzonte. Quel pensiero isolò nonna Ina dai muri della sua casa e dalla televisione e la riportò ai dialoghi con suo nipote…

"A te posso dirlo, nonna: io non mi sono arruolato perché amo la guerra, ma sono pronto a fare la guerra per difendere la vita dei miei cari e della gente. Mi fanno ridere quelli che parlano di pace e non muoverebbero un dito per difendere la pace di cui parlano. Sarebbe bello vivere nell’armonia perfetta della fratellanza, ma il mondo è pieno di singoli e di moltitudini che prevaricano e che commettono crimini indicibili. Grazie a loro, la libertà e la pace vanno difese anche con la forza. Se si parla di pace e si lascia che i sanguinari sgozzino chi vogliono, come si può dormire tranquilli? A questo mondo, ci sono tre tipologie di individui: quelli che parlano e che stanno a guardare, quelli che prevaricano e che commettono ogni genere di crimine e quelli che ricacciano indietro la paura e gli opportunismi e vanno in prima linea a difendere gli oppressi e i valori e, spesso, a morire. Si tratta soltanto di decidere da che parte stare. È lo stesso per i miei colleghi, credo. Il vero carabiniere, come il vero soldato, il buon poliziotto, il buon prete, il buon cittadino, è in prima linea sempre e dovunque, ma, soprattutto, è in prima linea quando c’è da ricostruire. È facile fare la guerra, gettare bombe e distruggere. La guerra finisce e i sopravvissuti si trovano con migliaia di croci, nei cimiteri e nel cuore, e una marea di rovine fumanti e polverose sotto i piedi. Il carabiniere è colui che avendo, magari, appena smesso di combattere e indossando ancora la divisa della guerra a brandelli, si mette a capo dei superstiti e organizza la ricostruzione. Il carabiniere è colui che si rimette in ordine, indossa la divisa della pace e si prodiga tra la gente, per placare gli animi, per creare il filo della solidarietà e per far rinascere la vita dalle rovine. Io ho nel cuore tutti coloro che rischiano la vita in difesa della bandiera, della libertà e di quanto c’è di più sacro al mondo. Mi riconosco negl’ideali dei carabinieri, sono diventato uno di loro e tale mi sento in tutte le mie cellule, perché tra loro trovo la parte migliore degl’ideali militari e la parte più nobile degl’ideali civili e sociali. Sai, nonna, quando ho deciso che sarei diventato un carabiniere? Quando frequentavo la quinta elementare. Sfogliando i libri, per fare le ricerche di storia, mi resi conto che i carabinieri erano dappertutto, persino tra i caduti delle Fosse Ardeatine. M’incuriosii e andai in biblioteca, in cerca di notizie e di vecchi giornali. Allora mi resi conto che, nel dopoguerra, i carabinieri avevano fatto cose grandiose. Avevano ricostruito da soli le caserme distrutte e devastate dal nazifascismo, improvvisandosi muratori, carpentieri e fabbri; avevano tenuto la loro immagine sempre decorosa e impeccabile, per ridare fiducia alla gente; avevano accolto fin nei paesini più sperduti i 950.000 prigionieri di guerra che tornavano stremati e bisognosi di accoglienza e di assistenza di ogni tipo e avevano avviato ricerche sugli altri 500.000 che, privi di mezzi, scalzi e affamati, cercavano di raggiungere la patria persino a piedi; si erano sparpagliati in giro per l’Italia, portando le medicine fin negli angoli più disagiati e remoti; si erano fatti amare dalla gente. Io m’innamorai dell’idea di essere tra loro e di correre ovunque in aiuto della gente. La primissima curiosità era nata in me proprio qui, a Messacantata, quando mi ero trovato conglobato tra la gente che applaudiva il tricolore all’inaugurazione della nuova caserma dei carabinieri. Vedi, nonnina mia, io non mi sono preoccupato di cercarmi un lavoro che mi desse la possibilità di diventare un eroe e di essere famoso, ma di far parte di qualcosa di bello per cui valga la pena di vivere e, se occorre, di morire. Di eroi e di uomini grandi l’Italia è ricca. Noi Italiani abbiamo eroi quasi in ogni ramo della società e li portiamo nel cuore, anche quando non ne parliamo. I più recenti sono cuciti nella mia mente con pensieri indelebili. Non c’è giorno in cui io non li ricordi. Dalla Chiesa, Falcone, Borsellino e don Puglisi sono quelli che porto nel cuore, perché sono stati eroi prima di morire, quando hanno scelto di proseguire, senza guardarsi indietro, sapendo che la morte era in agguato alle loro spalle. Non c’è eroismo più grande, nonna."

Il titolo del libro( Come la tillandsia gli eroi), soltanto in fase di pubblicazione è divenuto La nonna di Nassiriya, in omaggio alla vecchia protagonista e alla località tragicamente nota. Ho lasciato all'editore ogni cura editoriale. Io mi sono soltanto accertata che una copia del libro giungesse a coloro che ne erano i destinatari principali: le persone più vicine ai caduti.

Le lettere, che ho ricevuto dai familiari dei caduti, mi sono giunte come un'eredità preziosa (che non andrà perduta).

Desidero far giungere la mia vicinanza spirituale alla signora Tiziana Ragazzi, vedova dell'eroe Alfio ragazzi, ai suoi figli Salvatore (che all'epoca della tragedia aveva 13 anni) ed Enrico (che all'epoca della tragedia aveva 7 anni), alla signora Anna Trincone, vedova dell'eroe Alfonso Trincone, ai suoi figli Vincenza (che all'epoca della tragedia aveva 17 anni), Martina (che all'epoca della tragedia aveva 13 anni), Lorenzo (che all'epoca della tragedia aveva 6 anni), alla signora Paola Fregosi, vedova dell'eroe Enzo Fregosi, ai suoi figli Maria Allegra (all'epoca universitaria) e Pietro (che indossa la stessa divisa del suo eroico padre e che si fa casa per gli stessi ideali), a tutte le mogli e a tutti i congiunti dei caduti, a tutti coloro che hanno eretto loro i monumenti più duraturi e più belli nel loro cuore .

Credo che nessuno abbia dimenticato, in Italia. Io non ho dimenticato. Sono stata e sono mentalmente vicina alle famiglie che soffrono. Molte giovani mogli avevano davanti ancora una vita piena di sogni, quando il loro orizzonte familiare si è frantumato. Tutte le mogli divenute vedove anzitempo hanno vestito i loro cuori della divisa dei loro sposi scomparsi e del loro stesso valore, facendo della loro casa un nido di elezione dello stoicismo quotidiano tenace e silenzioso (vestito di sorrisi dolorosi). Alcuni dei loro figli sono diventati uomini senza la figura paterna accanto, altri lottano con il vuoto della grande assenza mentre si affacciano all'adolescenza. I figli che erano già adulti hanno perso per sempre la figura di riferimento senza eguali sulla terra. Tutte le mamme che hanno perso i loro figli si aggirano ancora incredule nei loro giorni mortali,domandandosi perché tutto sia rimasto invariato mentre la giovane vita dei loro amati figli non è più, perché il sole splenda e non si oscuri e le stagioni si snodino come se nulla fosse accaduto...

Tutti i congiunti dei caduti

hanno dovuto imparare a fare a meno della presenza fisica dei loro cari, a far tesoro della loro presenza invisibile carismatica e grande, a custodire i ricordi belli della vita (piena come grappolo maturo) che li includeva e a condividere con gl'Italiani la loro morte avvolta nel tricolore...

Le famiglie dei militari e, in particolar modo, le famiglie dei carabinieri sposano la divisa dei loro cari e tutto ciò che ne consegue (e ne portano il peso con dignità, quando il dolore colpisce a tradimento).

Da La nonna di Nassiriya:

Mai avrebbe potuto immaginare di dover piangere altri caduti di guerra nel suo tempo mortale e mai avrebbe voluto vivere fino al giorno infausto in cui piangere tra essi il figlio di sua figlia, la perla tra i suoi amori viventi. Sua figlia… Dov’era in quel momento e come riusciva a puntellarsi contro quell’uragano maligno che la stava investendo senza pietà…? E le sue amate nipoti, ancora giovani e impreparate al dolore, come potevano reggere un fardello così impari e così escoriante…?

Nonna Ina chiuse gli occhi e concentrò dietro le palpebre tutta la forza mentale e affettiva di cui era ancora capace:

Appena ebbe formulato quell’ultimo pensiero, si ricordò di aver già detto quella frase. La voce di suo nipote tornò dal passato e l’avvolse, come un soffio di primavera:

Gli auguri che ho ricevuto, in occasione delle festività, dalle famiglie degli eroi che qui ricordo, sono per me un dono molto grande e impagabile.

Gli auguri del maresciallo Marilena Iacobini hanno il sapore del miracolo e mi fanno venir voglia di innalzare inni di lode, perché questo è uno dei nomi che avrebbero potuto essere nell'elenco dei caduti (il maresciallo Milena Iacobini fu ferita a Nassiriya) e (mille milioni di volte grazie a Dio) è ancora nell'elenco di coloro che hanno tutta la vita da vivere e molto da dare a coloro dei quali intersecheranno la sfera vitale...

Gli auguri del generale Leso (all'epoca della tragedia, comandante della 2^ Brigata Mobile Carabinieri di Livorno) mi onorano grandemente: come uno dei "familiari" delle vittime, come un padre, egli è stato schiacciato dal dolore di quel ritorno di tante giovani vite nelle bare... Auguro al generale Ghiselli, che è ora al comando della 2^ Brigata Mobile Carabinieri di Livorno, di non vivere mai un simile ritorno dei suoi ragazzi e al generale Leso (ora al Comando Divisione Unità Mobile Carabinieri di Treviso) di non ripetere mai più nella sua vita una simile esperienza devastante.

Il presidente Ciampi, con le sue mani tese appoggiate alle bare e il volto contratto e addolorato, è entrato nel mio cuore (come in quello di tutti gl'Italiani), perché ha saputo piangere quei figli caduti divenendo tutt'uno con le famiglie colpite e con le masse senza volto. Della lettera che mi ha fatto spedire per il mio libro gli sono infinitamente grata.

Il libro COME LA TILLANDSIA GLI EROI (lA NONNA DI NASSIRIYA):

POSTA

LETT PRES CIAMPI

LETT GEN LESO

Il generale Leso (che è il "padre" delle unità mobili dei carabinieri) è assurto, per me, a padre simbolico di ognuno dei caduti di Nassiriya. Le sue parole, perciò, mi onorano immensamente.

LETTERA X LIBRO NASSIRIYA

Sopra: questi auguri sono stati tra i più belli e importanti che io abbia ricevuto (perché provengono dalla lady maresciallo dei carabinieri che, ferita a Nassiriya, ha fatto ritorno a casa...)/ avrei tanto voluto ricevere biglietti augurali da coloro che invece risultano tra i caduti...

Sopra: Le lettere delle mogli dei caduti sono come un monumento al ricordo imperituro e all'amore.

LA GUERRA PUò ESSERE OVUNQUE:

Ogni giorno, la gente in divisa rischia la vita sulle strade.

I carabinieri muoiono anche quando non vanno nelle zone a rischio...

Da La nonna di Nassiriy (Come la tillandsia gli eroi) di Bruna Spagnuolo- commerciale@ediq.eu-ermesdistribuzioni@libero.it-alfredo@delporto.it- toeura@tin.it) :

"Nonna, con questa divisa addosso, la guerra la posso trovare a ogni angolo, anche dietro casa. Persino quando non sono in servizio, se esco e vedo una rapina in atto, non mi volto dall’altra parte, intervengo; ed ecco fatto: la sparatoria è pronta per me. Come vedi, la guerra può essere ovunque; quando uno va al suo appuntamento con la morte, può trovare il suo Iraq anche dietro la porta di casa. Ma io non ho paura. Sarà quello che Dio vorrà. Devo vivere e devo farlo sentendo di essere utile e di valere qualcosa, altrimenti che vivo a fare? Sarebbe triste vivere sapendo di non muovere neppure la polvere che calpesto con i piedi. Con ciò non voglio dire di valere chissà che cosa, ma soltanto che non potrei vivere stando a guardare. Ho bisogno di sapere che, nel mio piccolo, aiuto Dio a scolpire la vita che ha in mente per me. Io immagino gli esseri umani come marmo e Dio come scultore: scelgo di essere, se posso, un marmo duttile e collaborante, piuttosto che un materiale amorfo e informe."

In queste parole si configura la morte di molti carabinieri. Non potendoli commemorare tutti, in loro memoria inserisco qui colui che, per antonomasia, è un eroe morto sulla strada nell'adempimento del suo dovere: il giovane Donato Fezzuoglio.

Egli è rimasto ucciso il 30 Gennaio 2006, in Umbertide, in una sparatoria con banditi che avevano assaltato un'agenzia del Monte Dei Paschi di Siena. La sua giovane vita è stata spezzata in modo vile ed efferato, con un gesto tanto più esecrando e condannabile quanto perpetrato vigliaccamente, alle spalle, dal 'palo' appostato all'esterno della banca. La morte di un giovane uomo di legge è (per le Istituzioni) la perdita incommensurabile di un elemento addestrato, preparato, speciale (un capitale-investimento insostituibile) ed è (per la Nazione) la perdita di un figlio prediletto. La morte di un giovane marito è (per una giovane moglie) la perdita dello sposo, del compagno, dell'amore e del senso della vita. La morte di un giovane padre è (per un bambino) la perdita immensa della figura paterna (sostegno-guida-protezione-sicurezza-scudo contro le intemperie della vita). La morte di un figlio è (per i genitori) la perdita della parte più viva e più sensibile del proprio cuore e del proprio corpo, l'evento contronatura da cui una madre e un padre non dovrebbero mai essere trafitti. La morte di Donato è il simbolo di tutto questo e si pone a condanna senza appello di tutti i criminali incalliti capaci di stroncare la vita e, in particolare, di quei criminali specifici (reiterazione dolorosa del Giuda di tutti i tempi) che, portandosi via 40.000 euro (gli eterni trenta denari del tradimento dei valori e della vita), sono svaniti nel nulla, in quel 30 Gennaio. Ovunque siano, mi piacerebbe che il buon Dio li marchiasse in modo visibile e che il loro delitto non restasse soltanto sepolto nelle loro coscienze (se esistono). La cosa più inaccettabile è il pensiero che essi possano nascondere la loro anima nera (e terrificante come sepolcro pieno di vermi) dietro esistenze apparentemente normali e che possano, a loro volta, essere padri-sposi-figli-fratelli di gente normale, che, magari, non immagina il loro delitto e i loro crimini. Di una cosa sono sicura: non c'è gente più meritevole di pena sulla faccia della terra di quella imparentata con le anime marce che contaminano il mondo! Il dolore di chi perde la vicinanza di un congiunto che muore da eroe è confortato dall'onore e dall'esempio luminoso ereditato. Il dolore di chi è destinato a scoprire che un proprio consanguineo è un traditore di quanto c'è di più sacro( e della progenie umana) è la cosa più orribile che si possa augurare ad essere umano. Il dolore della giovane sposa di Donato, di suo fratello e dei suoi genitori trova balsami dolci e onorevoli nella scia di eroismo che egli ha lasciato sulla terra.

Tra tutte le scritte (che la gente espose sugli striscioni o depose sul luogo della sparatoria, in Umbertide, e che la mamma di Donato riporta nella settantina di pagine di commemorazione del figlio), scelgo quella che dice: "DONATO SEI UN EROE".

Alla giovane e bella moglie di Donato, Emanuela, non restano altro che i ricordi da conservare e l'orgoglio di aver fatto parte della vita di un eroe. Al suo bambino, il piccolo Michele, rimane un futuro senza il suo papà. Da adulto, si troverà a gestire il grande patrimonio del valore innegabile di suo padre che, nella sua breve vita aveva già meritato un encomio semplice, un elogio ed un encomio solenne (che buona parte dei suoi colleghi sognano invano da sempre). Sono estramemente contenta di sapere che l'Istituto Nitti di Potenza gli ha dedicato un'aula, il Comune di Umbertide gli ha intitolato una via e ha posto una pietra-monumento nel luogo della sua morte, l'Arma gli ha intitolato la caserma di Umbertide. Mi conforta il pensiero che molte generazioni avranno modo di accedere all'insegnamento contenuto nel nome di Donato Fezzuoglio: "La vita bisogna spenderla per qualcosa di più duraturo della vita stessa"(come scrisse il santo Padre Vismara di Agrate Brianza- dalla Birmania, ove ha speso la sua lunga vita salvando bambini destinati alla morte). In una lettera a suo padre, Donato Fezzuoglio scrisse: "La mia più grande soddisfazione un giorno sarà di riuscire a dare a mio figlio almeno la metà di quanto tu hai dato a me". Queste parole stringono il cuore, perché egli non potrà dare al piccolo Michele la presenza fisica paterna, ma sappiamo che gli darà, comunque, molto di più della metà del molto ricevuto da suo padre. Infinito è, infatti, il lascito di valori e di un insegnamento che non teme il tempo...

Le lettere che ho ricevuto dalla sua giovane moglie, Emanuela Becchetti Fezzuoglio, sono per me motivo di onore e di grande affetto, ma sono anche la testimonianza di una giovane vedova coraggiosa che, con fede incrollabile nei valori irrinunciabili, è pronta a disegnare un futuro per il suo bambino (all'ombra dell'eredità preziosa che Donato ha lasciato ad entrambi...). La strada, però, è lunga ed erta. Emanuela deve combattere con il dolore, con il malessere profondo duro da arginare e con l'inaccettabile ombra degli assassini di Donato senza un volto e... ancora liberi (e magari padri e mariti felici...). Il piccolo Michi ha due anni; è dolce, sereno e sempre allegro, ma... domanda perché i papà vadano a prendere i bambini al nido e il suo papà non vada mai; è pieno di attenzioni per la mamma e prima di andare a dormire controlla che la porta di casa sia ben chiusa a chiave...

Se dovessi trasformare l’epilogo della vita di Donato Fezzuoglio in un racconto, lo scriverei così:

Lasciando la sua casa, quel giorno, e chiudendosi la porta alle spalle, Donato ebbe la sensazione di aver chiuso uno scrigno. Trattenne per un attimo quell’idea negli occhi, insieme a un sorriso, poi scrollò la testa e pensò: “È bizzarro che io non abbia avuto questa percezione altre volte. Come ho fatto a non pensarlo prima: come chiamare diversamente un oggetto che racchiude tesori? Non ci sono tesori più desiderabili di quelli racchiusi da questa mia casa…”. Il volto della sua amata Emanuela, il faccino tenero del suo piccolo Michi, dallo sguardo trasperente come il mare, parvero riempire l’aria che lo circondava, inondandolo di una vera e propria marea d’amore. “Sì, è davvero uno scrigno la mia casa. Non c’è nulla di più prezioso, in questo mondo, di ciò che essa contiene. Nessun tesoro sepolto, archeologico o diamantifero che sia, potrebbe reggerne il confronto. Non ci sono ricchezze o lusinghe che potrebbero tentarmi su questa terra. Dio è stato buono con me. Mi ha dato più di quanto io potessi desiderare o meritare, prima, con i miei affetti familiari, ora, con il mio piccolo nucleo primario insostituibile… Dovrò ricordarmi sempre di innalzare lodi. Vorrei che la mia vita assomigliasse a un inno gregoriano… Il giorno in cui si percepiscono cose come queste è… un giorno importante. Oggi è un giorno importante…”.

Uscì saltellando e si rese conto che, nella sua mente, stava cantando. La sua bocca sorrise al collega e disse le parole consuete di ogni giorno, ma la sua mente cantava a squarciagola. Gli piaceva il suo lavoro. Si sentì grato a Dio anche di quello, in quel trenta Gennaio 2006. Assaporò l’aria fredda con l’olfatto e con il tatto ed ebbe l’impressione che, in quel particolare pomeriggio, avesse un odore caratteristico, un odore che era come un motivo e come una voce, quella dei boschi e delle ‘Dolomiti’ lucane (‘circondate di bellezze di cime e di creste quasi irreali, che gareggiavano con le Pale di S. Martino’…). Amava Città di Castello, in cui lavorava, e Umbertide, in cui abitava, amava l’Umbria; era la sua terra ritrovata, la terra che gli aveva dato l’amore, la terra del futuro. “Chissà perché”, pensò, “oggi, l’Umbria mi sta facendo dono di sentori che sanno di Basento e che portano dentro ‘i paesi sui cocuzzoli addormentati’, ‘come aquile austere’ simili ai ‘monasteri degli eremiti greci e sentinelle vigili’…”.

La chiamata giunse: c’era una rapina in corso al Monte Dei Paschi di Siena. Donato ebbe l’impressione che tagliasse come un bisturi, separando la razionalità scattante dalla sensibilità carezzevole e dolce del suo spirito amabile/amante aperto al bello e all’amore racchiuso nei micro e nei macro-cosmi. Efficiente e audace, come sempre, rivolse al suo collega, insieme alle parole di ‘rito’, uno sguardo d’intesa e, voltandosi a guardare la strada sfrecciare, pensò che gli voleva bene e che averlo accanto lo faceva sentire sicuro. La targa di una via s’impigliò nel suo sguardo, strada facendo, e un pensiero si formò nella mente di Donato: “Chissà come si sentono coloro che danno il nome alle vie… Come mi sentirei se decidessero di dare il mio nome a una via…? Che pensiero sciocco: non ne saprei nulla, perché… queste cose accadono a chi non è più in vita. Accadono anche a chi è famoso e importante; non è il mio caso e … meno male. Ma che strane accezioni ha la mente: il mio cervello è teso, lucido e concentrato su ciò che sto per fare, eppure non ignora del tutto le ‘periferie’ attente a particolari imprevedibili”.

Il fuoristrada dei rapinatori era ancora infilato nella vetrata della banca. I rapinatori erano ancora dentro. Donato e il collega parcheggiarono sul marciapiede; dietro lo sportello aperto, con la pistola in pugno, Donato provò un impeto d’affetto verso il collega, sentendo che sparava all’unisono con lui, riconfermandosi come ‘amico per la pelle’ più che mai, quando una raffica di kalashnikov annunciò la presenza all’esterno del ‘palo’ dei criminali. I sei colpi della sua pistola d’ordinanza crepitarono nelle orecchie di Donato, insieme al sibilo irreale dei colpi che parevano reclamare la sua vita e quella del suo collega. Una specie di refolo di vento battè sulla spalla di Donato e gli diede una spinta, come un dito gigantesco e possente. Una sorta di calore perforante si propagò dalla spalla al petto e al cuore e salì verso la gola. Gli occhi di Donato si appannarono, nello stesso istante in cui percepirono quell’urto e, proprio in quell’istante, che parve durare una vita, gli riproposero le immagini dolci dei suoi amori. Le labbra di Donato si schiusero, in un soffio, al tocco d’ala di farfalla del bacio della sua sposa e delle manine del suo bambino. I momenti felici della sua vita lo circondarono e lo avvolsero…

Sentendosi forte, protetto e invincibile, Donato scoprì di non avere limiti. Si levò in volo. Mise in fuga il 'palo', stanò i criminali e li inseguì fuori dalla banca, urlando: “Non sparate tra la gente, folli! Non sparate! Fermatevi! Arrendetevi! Ricordatevi che siete esseri umani! Pentitevi e costituitevi!”

I criminali non guardarono nella sua direzione e non gli spararono. “Che strano!”, pensò Donato, “che siano rinsaviti? Dio voglia che sia così”. I criminali uscirono dal centro abitato, s’infilarono tra i campi, raggiunsero una cascina, seppellirono le armi e il sacco del denaro in un fienile, indossarono abiti da contadini, bruciarono gli abiti che indossavano prima e si misero a lavorare nei campi, estirpando rovi, potando siepi e alberi, rimettendo a posto muretti a secco, fissando la rete delle recinzioni, ripulendo e delimitando i ‘letti’ delle future semine degli ortaggi. I loro volti, sotto i vecchi e consunti cappelli di lana, apparivano sereni e umili, come se appartenessero a gente che non avesse conosciuto altro che l’austera civiltà contadina. Donato guardò quegli uomini e quasi non li riconobbe. Era sbalordito. Non poteva credere a ciò che vedeva. Le persone che gli stavano davanti tutto sembravano fuorché criminali: avevano l’aspetto dimesso e mite della gente avvezza al lavoro della terra. Soltanto il guizzo inimbrigliabile degli occhi di uno di loro tradiva la belva fetida e bavosa che si annidava nei loro cuori. Le loro movenze compassate e calme e il loro aspetto "normale" avrebbero tratto in inganno Donato stesso, se non avesse visto e seguito di persona tutta la scena della rapina. Donato si rese conto che l’imponente caccia all’uomo che le forze dell’ordine stavano allargando persino a tutta la Toscana, alle Marche e all’Emilia non sarebbe valsa a nulla. I duecento posti di blocco sarebbero stati vani. Si mosse con la velocità del vento, per portare aiuto e guida ai suoi colleghi, per dire loro ciò che sapeva, per guidarli dai criminali… Passò dall’uno all’altro dei colleghi e dei superiori, ma nessuno lo vide, nessuno lo sentì, nessuno gli diede retta. Raggiunse i suoi cari e li trovò in preda alla disperazione… Chiamò la sua giovane moglie per nome, le girò e rigirò attorno, mormorandole tutto il suo amore, ma lei continuò a singhiozzare in modo accorato. Provò a parlare a sua madre, a suo padre, a suo fratello, ma non diedero segno alcuno di sentirlo e di vederlo. Accarezzò e baciò il suo bambino e il piccolo gli sorrise e gli tese le braccia; tentò di prenderlo in braccio e le sue mani passarono come aria attorno al corpicino. Donato comprese, allora, di non avere più la sua consistenza materiale. Tornò davanti alla banca e vide il suo corpo senza vita. Non provò alcun dolore. Si sentiva bene nel suo nuovo io leggero che vedeva tutto, era dappertutto e leggeva i pensieri della gente. I pensieri dei suoi cari gli entrarono in cuore come richiami dolenti e gli trasmisero tanta tristezza… Avrebbe voluto dire loro che stava bene, che era lì con loro, che li amava come e più di prima e tante altre cose, ma loro non sapevano comunicare con i pensieri… Si esercitò a soffiare nei loro cuori conforto e speranza; con il tempo, di tanto in tanto, ci riuscì. Era soltanto un pensiero più in là dei suoi cari, ma loro non lo sapevano e soffrivano in modo inarginabile per la lontananza da lui … Decise che sarebbe rimasto con i suoi amori, fino a quando le loro ferite non avessero cominciato a rimarginarsi...

*Divieto di sciacallaggio*

Le speculazioni politiche e/o di parte non interessano in questa sede. Fare disquisizioni/argomentazioni di qualsivolgia natura non è lo scopo di questa pagina.

In questo 'luogo' della memoria, c'è posto soltanto per l'amore e per la commemorazione e vi si fa divieto assoluto d'ingresso ai bracconieri di valori, a coloro che parlano per dissacrare e per rimpicciolire quanto di bello e di buono resta in questo nostro mondo già fin troppo sbilenco e pieno di incertezze. Qualcuno, da qualche parte, definisce 'Italietta' quella che parla di valori e di eroi. Vorrei chiedergli di riconsiderare le sue parole, poiché quella (che si commuove, partecipa ai drammi e alle gioie, ha il cuore grande e buono, è pronta a rimboccarsi le maniche e a risalire la china...) è la sola Italia possibile. Non c'è nazione (in Italia quanto altrove) nella disgregazione e nella lacerazione a tutti i costi e, soprattutto, non c'è nazione (né futuro di sorta) nei nonsense ottenebrati e unilaterali. Non ha senso confondere la gente con minestroni di ideologie-pretesti disfattisti; non c'è armonia nella volontà delle polemiche sterili e fratricide. Non c'è saggezza nell'ostinarsi su posizioni-trincee. I nostri soldati sono andati in Iraq, come in altre missioni di pace. Le divise che si alternavano (come le identità che contenevano) passavano da una missione all'altra (come accade ancora oggi con le missioni attive): se erano foriere di pace in altre disolcazioni, lo erano anche in Iraq e viceversa. Coloro che avessero "denti avvelenati" (per qualsiasi ragione), per favore, non li affondino nelle divise e nelle carni dei nostri soldati (che sono i nostri figli-i nostri vivai italiani di sangue giovane): vilipendiare la linfa viva delle arterie sociali italiane non ci fa né onore né bene. Le molte filosofie/ideologie e le diatribe sulla 'questione irakena' (gestita nelle sale dei bottoni) non devono tangere i nostri ragazzi. Andarono in Iraq, a guerra che credevano finita, con una grande volontà di aiutare la popolazione in difficoltà. Il terrorismo scelse quel martoriato luogo come scacchiera-braccio di ferro e non trovò adeguati argini contenitori. I nostri soldati si trovarono nel bel mezzo di una guerra (di cui non avevano deciso l'inizio e di cui non potevano decretare la fine, proprio come la popolazione irachena). Chi abbia sbagliato cosa-quando-come-se e perché (ai Posteri l'ardua sentenza) non è dilemma che riguardi i nostri militari (e meno ancora i caduti). Ognuno di loro aveva iniziato un cammino di pace, un 'discorso'-corrispondenza con la terra in cui si trovava e con la sua gente. Chi li ha uccisi ha estinto figure magnifiche, utili all'Italia e al resto del mondo. Chi uccide un uomo commette un'azione nefanda e altera l'ordine dell'universo. Ciò è accaduto ogni giorno in Iraq (e non solo lì...) e ancora accade, purtroppo, con 'dovizia' nefanda nel mondo, che è un corpo mutilato e sofferente per questa ragione. Ogni latitudine sanguina, per tali mutilazioni; l'Italia sanguina per le proprie.

Chi uccide i nostri soldati di pace, mutila la nostra italianità, ma danneggia anche il popolo al quale l'attentatore stesso appartiene, perché quel popolo attenderà invano il ritorno dei passi amichevoli e delle mani tese dei caduti- com'è stato per tanti bambini e adulti a Nassiriya e in tanti villaggi afghani. Piangere i nostri morti è un dovere; è lo stesso per ogni nazione. Qualcuno ha detto che non c'importa nulla dei caduti altrui. Ciò è ingiusto e inqualificabile: non possiamo andare in casa d'altri a celebrare i funerali altrui, come altri non vengono in casa nostra a celebrare i nostri. Che non ci sia importato nulla del caporale romeno Bogdan Hancu, morto con i nostri Franco Lattanzio, Carlo De Trizio e Nicola Ciardelli, è falso. Ci è dispiaciuto e ci dispiace molto, ma la sua 'lacrimata sepoltura' apparteneva alla sua terra, ove non hanno pianto i nostri caduti e hanno, invece, pianto lui. Chi ha affermato che la sua morte ci abbia lasciato indifferenti, perché "tanto ne muoiono tanti nei cantieri", ha detto una cosa di cattivo gusto (a dir poco) . Si chiama crimine sfruttare e far morire i lavoratori e chi lo fa è meritevole di galera, ma vorrei ricordare che non è lontano il tempo di 'Rocco e i suoi fratelli' in cui erano i Meridionali italiani a patire gli stessi disagi e che, se sono più numerosi i muratori extracomunitari che muoiono oggi, è anche perché i muratori italiani ormai sono come le mosche bianche. Ribelliamoci alle ingiustizie, quando occorre, ma ricordiamoci che, se, per farlo, ne commettiamo altre, siamo sulla strada sbagliata. Sbagliato, infatti, è indirizzare lo scontento (o qualcosa di peggio) contro i nostri soldati e, soprattutto, contro quelli di loro che 'hanno speso la vita per qualcosa di più duraturo della vita stessa' e che, così facendo, sono caduti. Bisogna saper scindere i diversi argomenti e le diverse scale di valori: condannare le ingiustizie e rispettare gli eroi sono, infine, due cose che vanno a braccetto. Ci deve importare di tutti e di ogni singolo individuo e per i nostri soldati è così al punto che muoiono insieme alla gente dei luoghi in cui operano: i nostri caduti di Nassiriya sono morti insieme agl'Iracheni, Daniele Paladini è morto insieme ai bambini di una scuola afgana, molti nostri militari muoiono in vari angoli del mondo insieme alla gente che vanno a proteggere. Vorrei che il terrorismo avesse a cuore la vita allo stesso modo e che i suoi strateghi non perpetrassero lo scempio dello smembramento di poveri esseri brainwashed o addirittura di qualche persona innocente e ingenua (come la donna disabile fatta esplodere in un mercato irakeno). Chi usa la parola "dissidenza" dovrebbe fare molta attenzione, perché certe aberrazioni non fanno sconti agli Occidentali (di qualsiasi ideologia) e neppure ai Mussulmani che non condividano l'odio e la violenza. Il contenuto di questa pagina è un monito e un invito alla convivenza pacifica. Le vite spezzate dei nostri eroi italiani invitano a riflettere sulle molte vite spezzate nel mondo e sull'irragionevolezza delle stragi e degli eccidi. I molti sepolcri 'precoci' che affollano la nostra terra (e molte altre terre) richiamano il genere umano a più miti e saggi consigli: chi ha buonsenso lo dimostri evitando di disseminare parole di odio e di risentimento e facendosi strumento di riappacificazione (e, ove non fosse possibile, almeno di tolleranza). La convivenza è la sola alternativa che gli uomini abbiano e, se volessero far passare la dissacrazione della vita e l'abbattimento di qualsiasi argine-principio per ribellione alle ingiustizie, commetterebbero un delitto più grave di qualsiasi ingiustizia (una colpa senza appello).

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