Bruna Spagnuolo in Nigeria, Malawi, Algeria
©by Bruna Spagnuolo
Il mio approccio al viaggio ha a che vedere con il mio scrivere: cerca, scova e canta il bello che si fa speranza. Il modo di 'raccontare' la Nigeria, L'algeria, il Malawi, Malta e Rodi, in questa pagina, è... soltanto 'mio'. Le mie pagine sono ciò che di geografico potrebbe svolgersi in un salotto letterario (il mio). Ogni pagina è l'equivalente di una mia poesia (allargata all'iconografia).
NIGERIA |
La Nigeria federale (geografica/storica/politica) dispone di sedi appropriate e di vari spazi illustrativi e orientativi adatti alla vastità della sua estensione e dei suoi molti stati. La 'mia' Nigeria avrà, in questa sede, riferimenti -foto di natura personale e affettiva. "Il paesaggio di quell’Africa nigeriana, che si snodava ai lati della strada, l’avvolse come una cornice familiare, dal lontano al vicino, con gruppi di alberi attestati attorno a nere rocce nude o a invisibili fossati, alternati a radure verdi, folle improvvise di persone sciamanti, venditori sporadici e abusivi di benzina accanto a pochi contenitori di plastica, frutta esposta su cavalletti e graticci lignei, ragazzini ingegnosi che segnalavano le buche con verdi rami e speravano in qualche mancia, animali magri che scambiavano la strada per un guado sicuro e passavano da un lato all’altro della loro pastura. Ginevra si sentì parte del tutto e riprovò la commozione che sempre la ricolmava quando attraversava le vaste aree africane lontane dai grandi centri abitati: quella terra aveva un fascino selvaggio e una sorta di alone intessuto di sentori e di odori che si materializzavano come una casa immensa fatta di mille particolari sorvegliati da una volta celeste che soltanto in terra africana si apriva in anfiteatri immensi dagli orizzonti senza confini." (estratto dall'opera inedita Fichi acerbi arrostiti- Copyright by Bruna Spagnuolo.) |
Il tramonto sul fiume Benue, messo subito sutto il titolo, è un omaggio alle atmosfere che dell'Africa racchiudono l'essenza più antica, profonda, misteriosa e bella. Il risveglio dell'Africa (il mattino) è qualcosa che , nel ricordo di chi ha esperimentato il 'mal d'Africa', somiglia al fruscio della pioggia , al suo cessare e al risveglio della natura dopo i temporali. Il tramonto, ovunque nel mondo, è un'ora solenne; in Africa, è un evento ogni giorno ritrovato e perduto e memorizzato come unico. L'atmosfera crepuscolare incombente , che riveste il mondo di aloni irreali e gli animi di languori e di nostalgie, in Africa si anima di voci e di fremiti che preannunciano una sorta di anticamera del buio abitata da mille creature in movimento. I richiami che si spargono nell'aria paiono intrecciare i fili di una coperta tacita che, di lì a poco, avvolgerà tutto e tutti nel silenzio; per un tempo brevissimo, che pure pare non aver fine, animali, cose e uomini si sentono sospesi tra il giorno e la notte, tra il buio e la luce, tra il brusio e l'assenza di suoni (presi da un'ansia immane, fatta di desiderio di riposo e, insieme, di ritrosia di abbandonarsi ad esso e di paura inconsapevole del buio che lo racchiude...). Rapite dall'incantesimo di quell'ora, le creature hanno la sensazione di essere quasi immortali e di poter individuare l'arcano in cui si annida l'eterno... Il fiore del frangipane è l'altro simbolo che, nel mio cuore, identifica e definisce l'Africa e, perciò, la Nigeria (che, a suo modo e, per molte e profonde ragioni- come emerge chiaro e forte nel mio libro inedito "Fichi acerbi arrostiti"- è più Africa che mai). La pianta che produce questo fiore (di un profumo così dolce e ammaliante da essere commovente) è un miracolo vivente, un serbatoio-meraviglia di linfa-vita e un'industria a fondo perso di investimenti-fiori assicurati (anche in condizioni ambientali di disagi e di siccità spaventosi).
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Il camaleonte è una creatura pacifica che si mimetizza con l'ambiente, per sopravvivere, in Africa. Lo stesso dicasi dei bambini... Nei villaggi, nei mercati (e/o in qualsiasi angolo di passaggio trasformato in mercato- perché chiunque/ovunque s'improvvisa venditore di qualsiasi bene-cibo-beveraggio vendibile- da una pannocchia a pochi centilitri di acqua racchiusa in un angolino di plastica annodata) e per le strade, i bambini sono la presenza più pregnante che esista... Nei villagg, i bambini hanno un'identità -popolo-capanna a cui tornare e lo mostrano nei loro sguardi perspicaci, maliziosi, impertinenti e sicuri. Nelle città, i maschietti si aggirano per le strade, affetti da fame e da scabbia, sfruttati da sedicenti maestri di arabo (a causa di usanze che descrivo nell'opera inedita "Fichi acerbi arrostiti" e che qui non possono avere parole-pagine sufficienti ed estese").
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Molte sono le etnie nigeriane e vastissime le aree su cui esse sono sparpagliate ma le immagini dei bambini si equivalgono (a parte qualche piccolo particolare), dal Nord al Sud e così via. Il bambinetto con la mezza calabash (zucca secca e leggera) sulla testa è un bambino fotografato nel Benue State, nel lontano 1977, in zona middle belt, ma potrebbe essere un bambino fotografato oggi nel mercato di Kasua Maganì, in pieno Nord, nel cui mercato ho fotografato e visto immagini identiche (recenti). La donna che porta sul capo la cassetta dalle pareti a vetro (contenente frittelle) è un altro dei personaggi ricorrenti (tipici delle città africane). "Subito all’uscita della sua via, notò che la “villetta” in cartone e lamiera, abusivamente nata sotto i due grandi alberi di mango, si era duplicata e che accanto a quella con ‘veranda’ di fogli di giornale erano parcheggiati due macchine e un furgone. “Che strano”, pensò, “non hanno casa e si fanno la capanna di cartone, ma hanno macchine e furgoni”. Sapeva che quel piccolo incrocio si sarebbe “fregiato” di quell’insediamento, da lì in avanti, e che i proprietari legittimi della costruzione dignitosa e regolare che sorgeva dietro, non se ne sarebbero più liberati, così come i proprietari di altre abitazioni e recinzioni “regolari” non si sarebbero più liberati delle vere e proprie baraccopoli di lamiere e cartoni addossate alle loro eleganti recinzioni e dimore e destinate ad espandersi ineluttabilmente, perché qualcuno dell’amministrazione statale avrebbe chiesto ai disgraziati che le abitavano dei soldi e avrebbe così ufficializzato quello scempio degradante per gli esseri umani e per la vista. Al round about un uomo in maglietta verde e pantaloni neri era seduto per terra, nel bel mezzo dell’erba bagnata dalla pioggia appena caduta. Subito dopo, la strada era un ritrovo e, anche quel giorno, come se non fosse Pasqua, era passaggio, novità, vita, sopravvivenza. Su tavole disposte a gradini, innumerevoli parallelepipedi di pan carré ammiccavano in bella mostra da una, due, tante bancarelle in fila sul bordo della carreggiata. Colpì Ginevra al cuore che il pane fosse la leccornia più esposta sulle strade di una nazione ove a far da pane c’era lo gnam." (Da Fichi acerbi arrostiti- Copyright by Bruna Spagnuolo) "Molti erano i sentori che Ginevra doveva ignorare, quando entrava nei supermercati di kaduna. Tra essi, spiccava un subdolo senso di colpa non bene identificato, che strisciava, si acquattava, la spiava e l’aggrediva a tradimento, quando meno se lo aspettava. Accadeva che, a volte, lei riuscisse a perderlo di vista completamente e a dimenticarlo persino; allora esso trovava il modo più meschino per colpirla, nascondendosi dietro le confezioni dei cibi dietetici. Nulla offendeva lo spirito sensibile di Ginevra di più di quelle confezioni destinate a gente ricca abbastanza da permettersi gli eccessi alimentari e, in seguito, da pagare una fortuna per apprendere le strategie del “mangiare poco”, alias della fame, che i poveri conoscevano tanto bene e di cui avrebbero fatto a meno tanto volentieri… Essere immersa nella povertà e nell’abiezione e uscirne, solo per aver attraversato la soglia di quei cubi in muratura che erano chiamati supermercati, era già disorientante. Trovarsi faccia a faccia con il paradosso dei cibi dietetici venduti tra coloro che non sapevano come imbastire una qualsiasi parvenza di pasto in tutta la giornata era uno schiaffo troppo violento da sopportare. Sapere che i bambini e i vecchi cenciosi non sarebbero stati ammessi all’interno di quel genere di luogo era, per così dire, consolante, se “consolazione” poteva essere chiamata la consapevolezza di aggiuntiva violenza discriminante nei confronti di altri esseri umani che, alla lunga, altro non erano per Ginevra che consanguinei, perché sentiva il genere umano tutto come proveniente da un’unica progenie e diretto verso un’unica meta." (Da Fichi acrebi arrostiti- Copyright by Bruna Spagnuolo)
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Una delle peculiarità dei popoli africani (e di questo popolo in particolare) è quella di farsi percepire come popolo in cammino... C'è sempre gente in cammino, ai lati della strada (anche tra i mezzi di trasporto e i mammy-lorry sempre carichi di derrate varie e di esseri umani 'accatastati' e contenti) e sempre il singolo è percepito in relazione alla collettività (anche quando è solo con le miserie e gli squallori cui non sa neppure dare un nome...). "Svoltando a sinistra, nella via principale, fu quasi aggredita dalla moltitudine indaffarata che, come sempre, vi dimorava. Le innumerevoli piramidi colorate di frutta e verdura, allineate con ordine su bancarelle di fortuna o sul nudo pavimento, le infinite mercanzie accatastate sui supporti più incredibili spinti il più ‘in mostra’ possibile, fino in mezzo al traffico, gli andirivieni vari di gente che sembrava formata da soli venditori, le fecero girare la testa. Ebbe voglia di accostare e di chiudere gli occhi, per fingere di essere altrove. Il risultato fu che rallentò e si trovò il finestrino intasato di carte telefoniche infilate dentro a turno o tutte in una volta da una marea di mani tese, dietro le quali altrettante bocche insistevano perché le comprasse. Come inebetita, frenò e guardò avanti; immerse lo sguardo tra la gente che, passando da una parte all’altra della strada, rischiava centinaia di volte al giorno di essere investita e che si dirigeva verso il mercato perennemente allestito sulla destra. In pochi attimi, raccolse immagini che parvero durare una vita. C’erano giovani mussulmani distratti e frettolosi, ragazzini scalzi e apparentemente senza meta, vecchi accattoni cenciosi di ambo i sessi, venditori che osavano funambolismi indicibili per trasbordare, da un lato all’altro dello spartitraffico e della strada, montagne di sacchi su carriole, inibendone i ripetuti tentativi di crollo disastroso tra gli infiniti mezzi indisciplinati in movimento. Tra la gente abituale del mercato, avvolta in indumenti dalle varie sfumature del beige e dei colori della terra, spiccavano i passanti domenicali eleganti di varie etnie e di varie culture e offrivano allo spettatore attento un caleidoscopio variegato e multicolore di tuniche maschili di fattura araba o africana, di turbanti africani e di copricapo mussulmani. Le donne offrivano un ampio campionario di moda femminile e da esso si poteva dedurre, nitido e chiaro, il divario etnico, culturale, religioso e generazionale che dalla società nigeriana in generale si diramava fino a Kaduna e che, da lì, ad essa ritornava come una retetributaria confluente. Una donna con pantaloni neri di maglina e maglietta nera tempestata di strass contrattava le carote. Una sorta di matrona corpulenta, avvolta in un rapa verde e bianco abbondante che si fissava sopra la blusa scollata che aveva volant inamidati per manica, faceva crollare le piramidi di pomodori in cima ai cesti di varia grandezza che facevano da misura di vendita, per tastare e scegliere quelli migliori, e di tanto in tanto alzava una mano per sistemare meglio il turbante dello stesso tessuto inamidato e legato nell’artistica forma che oscillava tra quella di un grande fioree quella di un cavolo riccio e misterioso. Una grassa donna araba vestita di nero, con unamano si trascinava dietro una bimbetta svogliata vestita di chiffon rosa, con l’altra si teneva il velo sulla testa o si aggiustava il nero merletto traforato che copriva il viso e lasciava scoperti soltanto i grandi occhi inquisitori. Una donna indiana, con shalvar-camise di leggero tessuto morbido e cangiante, sandali alti dorati e sciarpina avvolta attorno al capo, si aggirava tra le bancarelle come una rani in incognito, appoggiando i piedi con attenzione tra la polvere, le pozzanghere e la sporcizia endemica. Ginevra la seguì con lo sguardo attraverso lo spazio che divideva le bancarelle, mentre superava lo schieramento circolare dei venditori, sbucava sul retro a forma di anfiteatro pieno di rifiuti vegetali in putrefazione, si tappava il naso e tornava indietro precipitosamente, guardandosi i sandali con espressione corrucciata. Una donna cinese, con vestitino aderente lungo fino al polpaccio e capelli legati a coda, contrattava dei polli, sbatacchiando l’intero grappolo di bestie legate per i piedi. In quella fetta brulicante di umanità, di mercanzie polverose e di moto, le ragazze africane parevano portare un barlume di grazia. Una indossava jeans aderentissimi e top rosso molto scollato e corto in vita. Una portava un vestitino nero e luccicante lungo fino alle ginocchia. Un’altra indossava una gonna aderente sui fianchi, scampanata in basso e lunga fino alle ginocchia. Una ragazza alta e snella indossava gonna stretta lunga fino alle caviglie e blusa della stessa stoffa. Una ragazza ancora più alta indossava la classica gonna lunga africana su una camicetta di pizzo pregiato e traforato. Una ragazza indossava la classica tunica larga arricciata attorno all’ampia scollatura e alle maniche. Tutte avevano spalle ampie ed erette, vita sottile, sedere tondo, ben fatto e sporgente, e andatura danzante. L’attenzione di Arianna fu attirata da un’adolescente che indossava la tipica divisa scolastica formata da camicetta bianca e gonna a pieghe blu, anche se era un giorno festivo, e che parlava con una ragazzina molto magra coperta da vestito lungo, soprabito e sciarpa neri di foggia araba, che la facevano somigliare a una capinera spaurita e desiderosa di chiome fiorite e frondose." (Da Fichi acerbi arrostiti- copyright by Bruna Spagnuolo ) |
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'Popolo in cammino' è, in Nigeria, anche la folla che festeggia la fine del Ramadan (cioè del nono mese dell'anno lunare mussulmano dedicato al digiuno- e decretato dall'osservazione intenta delle lunazioni). Poveri o ricchi, emiri o popolani, i Mussulmani, allora, celebrano la ricorrenza con solennità e allegria (e anche i non mussulmani godono della festa nazionale). |
Nei mercati sperduti si trovavano (e ancora si trovano) in vendita le mercanzie legate alla vita contadina primitiva (di cui l'Occidente- purtroppo- ha dimenticato le mappe). L'Africa immortalata in queste foto è ancora l'Africa del passato, quella in cui le fibre naturali sono protagoniste assolute della vita di tutti i giorni (in assenza dello scempio degradante dei rifiuti inquinanti e pieni di plastica svolazzante dell'era contemoranea), ma le immagini come quelle qui sopra sono ancora realtà viva e comune in tutte le aree rurali e nei vari mercati. |
La vicinanza con la folla è protagonista, in ogni agglomerato sociale (che sempre diviene anche zona di mercato). La gente è socievole e curiosa e ama la contrattazione. La Nigeria è il solo posto sulla terra ov'è il venditore a chiedere all'acquirente "how much?", prima di esporsi fissando un suo prezzo, che presuppone successivi tira e molla propedeutici alla conclusione finale (completa di amichevole stretta di mano e di amicizia fatta). Le donne della foto indossano i famosi tessuti nigeriani- di puro cotone vivacemente stampato in bellissimi colori sgargianti (attrazione importante dello shopping locale). |
La base dell'alimentazione (il "pane"- come noi definiremmo il cibo più importante in assoluto) è, in Nigeria, lo gnam (igname- radice tuberizzata delle dioscoreacee). Bollita e schiacciata nel mortaio di legno, la grossa e morbida patata, dall'apparenza simile a tronco, diventa il buonissimo 'pan de yam' che (preso con le mani e intinto in gustosissimi sughi) rappresenta la pietanza principale della dieta nazionale. Importanti ricorrenze e celebrazioni (descritte, insieme all'alimentazione, nel romanzo "Fichi acerbi arrostiti") legate alla coltivazione di questa "patata gigante" scandiscono il calendario della gente dei villaggi (e la vita tribale- non avulsa ancora- in certe zone- da pratiche primordiali e persino da orrori- che narro nell'opera sopra citata e che non possono trovare spazio in questa sede). La patata dolce (insieme allo gnam nella scena di mercato-a dx) è un altro pilastro dell'alimentazione nigeriana. Grossa (fino a non essere contenuta nelle due mani), tondeggiante e/o bitorzoluta, può essere consumata bollita, fritta, arrostita o aggiunta a zuppe varie ed è buonissima. Vari tipi di tuberi vengono coltivati ovunque e persino sul bordo delle strade (yam, coco yam, cassava, ecc.) e vengono anche seccati e consumati disidratati o in farine. |
Il mais è, nell'alimentazione nigeriana, il parente nobile dello gnam e fa la sua comparsa, in Africa, ovunque e sempre. Nella foto sopra, donne e bambini mondano le pannocchie e le raccolgono nelle ceste. La donna al centro della foto, nei cestini bassi, ha piccoli pesci secchi di fiume (pronti per il consumo o per la vendita). Lungo le strade in terra battuta o asfaltate dei piccoli centri abitati e persino delle città, le donne accendono piccoli fuochi, arrostiscono le pannocchie tenere e le offrono ai viandanti e agli occupanti dei mezzi di trasporto, per poche naira. Non mancano, lungo le strade, i venditori di pesci secchi simili a ciambelle nere. Essi, in genere, sono anche gestori di piccoli bracieri su cui arrostiscono e vendono la suya (i gustosissimi spiedini fatti di medaglioni piatti e tondi di carne bovina rivestita di polvere di arachidi mista a spezie varie e a polvere di egusi- un seme simile a quello del melone, che ha anche importanti valenze sciamaniche- v. l'opera Fichi acerbi arrostiti). La foto (sopra), scattata nel 1977, è un balsamo per gli occhi e per il cuore di chi conosce la Nigeria di fine secondo millennio-inizio terzo . Lo sfondo è fatto di natura meravigliosamente linda e naturale e il suolo su cui donne e bambini lavorano è cosparso delle confortanti infiorescenze racemose del mais appena raccolto (da cui pare provenire il profumo-fruscio paglierino ancora fresco e fragrante). Un sacco di cotone, ripiegato, attende di essere riempito (in primo piano). Lo sguardo (ferito dalle macchie nere dei sacchetti di plastica sottile-onnipresente, che sfregia l'ambiente di ogni centro abitato attuale e dei suoi surroundings) sosta sulla foto-oasi delle speranze fatte di vita passata (e vorrebbe eleggerla a dimora della Nigeria presente "modernizzata"). "Sulla destra, avvolta nel rapa colorato e con turbante in testa, tra erba e terra nuda, sedeva la prima donna della fila di arrostitrici di pannocchie, che, con movenze lente e rituali, ravvivavano il piccolo braciere, giravano la pannocchia di turno, sistemavano in bella mostra, a ventaglio, nei manici del braciere, quelle già dorate e pronte da mangiare, meditavano con lineamenti dolci sulla paziente attesa e sul tempo domato. Di fronte, alcuni degli allievi della scuola di polizia, chini sui mazzi di fruste che facevano da scope, ripulivano il perimetro della recinzione, mandando nell’aria nuvole di polverone e terriccio." (Da: Fichi acerbi arrostiti- opera inedita) |
La casa della foto è la tipica abitazione mussulmana, circondata da recinzione-cortile entro i cui confini la privacy è sovrana. La casa in muratura (probabilmente assegnata- nei paraggi di Jos- alla famiglia come fringe benefit di qualche prestazione lavorativa) è stata completata artigianalmente con il muro di argilla che impedisce agli estranei di scrutare il ritmo privato della vita familiare. Nei villaggi e negli slum delle città , le capanne (rotonde o quadrate- a seconda delle credenze/superstizioni che descrivo in sede letteraria, come già detto) hanno la stessa consistenza di quel muro e (per una maggiore tenuta refrattaria) contengono anche una buona percentuale di cow-dung (sterco bovino). I cortili-scudo delle case mussulmane, nella città di Kaduna (e forse anche in Jos), sono stati (alcuni anni fa- durante la mattanza tra Mussulmani e Cristiani) dei veri e propri mattatoi. L'esercito (sparpagliato in lungo e in largo, a pattugliare le strade), non entrando nei vari cortili, non poté prevenire e/o impedire le stragi esecrabili che vi si perpetrarono (alcune delle quali sono descritte in Fichi acerbi arrostiti). |
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I fiumi, da sempre, sono stati catalizzatori della vita dei popoli e vie degli spostamenti di tutti gli esseri viventi. Il Katsina Ala river era teatro di raggruppamenti e di vita in divenire, dall'alba al tramonto del sole. Sulle sue rive hanno sostato centinaia-migliaia e milioni di esseri umani (con l'intento di attraversarlo nell'uno o nell'altro senso). Negli anni settanta, mezzi e persone si servivano ancora di un ferry-boat, per lasciare una riva e raggiungere l'altra. Gli ippopotami saggiamente si tenevano alla larga dalla calca e occupavano le acque non infestate dal bipede umano. |
La manovalanza nigeriana (sotto la direzione straniera) ha reso possibile la costruzione di un ponte. Non mancava (come in ogni cantiere nigeriano che si rispetti e agli angoli delle strade) la mammy provvidenziale, dalla quale acquistare il pan de yam e gl'intingoli necessari a rifocillarsi a metà giornata. La nostalgia dei tempi del Ferry naviga invano, ora sul fiume, in cerca delle solidarietà preziose come diamanti di luna. Gli addetti alla traghettata (nel passato) smettevano di lavorare, quando calava il buio, ma, se sapevano che qualcuno sarebbe giunto in ritardo, sfidavano la notte e attendevano, per poi traghettarlo, facendogli dono di una solidarietà silenziosa più rumorosa del tuono. |
C'è un ponte, ora, sul fiume; la sua presenza disturba il ricordo delle acque pescose e pulite, sulle cui rive gl'Indigeni facevano il bagno o pescavano quasi sempre completamente nudi. |
Il grande Benue river e il Katsina Ala erano habitat ideale per varie catene ecologiche e fornivano all'uomo cibo sano e abbondante. Oggi è ancora così, anche se gli artigli della globalizzazione hanno portato fin lì parte delle loro opzioni nefande. Il fiume Kaduna (nel Kaduna State- nel Nord) è così inquinato che, quando l'acquedotto della città di Kaduna si rompe e la gente attinge l'acqua al fiume, infezioni di colera (e Dio solo sa di cos'altro) si spargono in men che non si dica. Il fiume Kaduna è dissacrato anche dalle concerie e dalle poche industrie (come quelle tessili, con tutte le tinte e gli additivi del caso) e spero che gli altri fiumi nigeriani non ne abbiano seguito il triste destino (o che, come auspico nella parte futuristica di "Fichi acerbi arrostiti", la popolazione inverta la marcia e riqualifichi l'ambiente). |
Nella città di Kaduna, poco più in là del fiume omonimo, al lato della strada, accanto al mucchio dei rifiuti, in un groviglio di mezzi e di persone, è possibile comprare il pesce fresco (portato da lontano- come dicono- e pescato in acque pulite). "La corrente, a volte, mancava per settimane e, quando ciò accadeva i generatori coprivano soltanto alcune ore critiche della giornata e le abitazioni restavano generalmente senza luce. Nella stagione delle piogge cadeva dal cielo una quantità spaventosa di acqua che, se fosse stata immagazzinata in appositi depositi collegati ai tetti, avrebbe potuto rifornire tutta la nazione nei periodi secchi. Nella stagione senza piogge, il livello dell’acqua nelle dighe si abbassava spesso tanto da interrompere il funzionamento delle centrali elettriche nazionali. Nei periodi di siccità non era consigliabile, perciò, fare provviste notevoli di verdure e di frutta come nei periodi normali, in cui i vegetali si lavavano, si sterilizzavano con disinfettante liquido, si sciacquavano con acqua bollita e si conservavano in frigo e in freezer." "Nella realtà metropolitana nigeriana, vivere al passo con i tempi, e cioè vivere completamente all’occidentale, era costoso e impossibile. Le famiglie normali dovevano adattarsi ai ritmi e alle necessità ambientali, rinunciando all’uso dei surgelati, adeguandosi all’uso delle candele, fornendosi di recipienti in cui mantenere la provvista dell’acqua, rassegnandosi a comunicare solo quando e se era possibile. L’attesa era l’essenza della vita di quel tipo. Imparare a piegarsi a quelle condizioni, a saper aspettare, a farsi elastico pieghevole e adattabile era una regola di vita che si acquisiva per rottura violenta delle esigenze individuali, personali e collettive e, alla lunga, del diritto ad un proprio ego inconscio sovrano nella sua dignità. Ciò era alla base degli atteggiamenti, delle abitudini e persino delle andature e delle espressioni della popolazione nigeriana. In Nigeria Ginevra aveva capito che ovunque, nel mondo, l’alfabeto comportamentale umano poteva essere decodificato soltanto con una profonda conoscenza delle coordinate sociali e ambientali." "Furtiva e parallela, come un fascio di ultrasuoni pirati persistenti, nella mente di Ginevra viaggiava la consapevolezza della dicotomia tra la 'società ufficiale' della città, cui le sue riflessioni si riferivano, e quella che non faceva testo, che non rientrava nelle statistiche di nessun tipo e che, al suo interno, subiva una dicotomia ulteriore in 'società delle baracche di cartone e di lamiera' e 'società della polvere e delle strade'.Subdola e onnipresente, spadroneggiava la domanda: con tutta la vastità del territorio, l’immensa varietà delle popolazioni e… tutto ciò che sai, di che ti meravigli…?" (estratto da Fichi acerbi arrostiti- Copyright by Bruna Spagnuolo) |
Clima e siccità non scaraggiano il pollice verde di madre Semira, che, per i suoi ottocento bambini, ha creato un'oasi di verde e di fiori (come si vede nella foto a dx). La Nigeria è luogo di paradossi, contraddizioni (e tragedie sociali- ben descritte in Fichi acerbi arrostiti) e di gente "con il pelo sullo stomaco" (che ha affilato alla scuola della sopravvivenza le strategie creative dell'inganno subdolo e sottile); è anche luogo di artigianato splendido e di costumi magnifici. Un personaggio del luogo presente in questa foto ha saputo far sparire una donazione notevole che una missionaria cristiana aveva ottenuto da fonti mussulmane (il che è tutto dire). |
La Nigeria è anche luogo di bellezza... |
La mia meravigliosa amica madre Semira, in Nigeria, nel Kaduna State, ha creato una scuola, in cui, senza pietismo inutile, accoglie bimbi cristiani e mussulmani e li prepara per la vita, nel rispetto delle loro religioni, perché possano cambiare le sorti della loro nazione in un prossimo futuro. I suoi bambini, attualmente, sono ben 800. Prodiga di gratitudine e di preghiere, materializza ogni giorno il miracolo dei pani e dei pesci, percorrendo in lungo e in largo le vie della Nigeria, fin nei villaggi più sperduti, in cerca di prodotti con cui sfamare i suoi bambini (tuberi, canna da zucchero, riso e patate dolci da comprare senza i rincari che non si può permettere// Si spinge fin nei villaggi hausa -rigidamente mussulmani e ormai suoi amici- dove le vendono, le portano, le macellano una mucca ogni tanto). Ogni aiuto è per lei e per i suoi bambini una benedizione. Il cellulare di madre Semira (che io le ho regalato) è: 00234.8035902432 (la telefonata costa solo qualche euro)//il conto corrente postale è n. 19332709 (di tanto in tanto lei torna in Italia e preleva le offerte -che le servono come l'aria-)/la motivazione del versamento è: sostegno a madre Semira; l'indirizzo italiano è: Istituto religioso Oblate di Nazareth/ Via Giovanni XXIII, 44/70011 Alberobello (BA) |
Il Malawi, geograficamente e culturalmente, è molte cose. Il 'mio' Malawi ha alcuni riferimenti importanti; tra essi spiccano lo sfondo preponderante del fiume Scile e la 'mia' casetta di mattoni rossi conglobata nella foresta, con tutto il suo surrounding. Viaggiare è pratica diffusa e la sola parola ha molte eco nell'inconscio collettivo mondiale. Tutti coloro che viaggiano portano via, in qualche modo, nella mente e nel cuore, luoghi e culture. Coloro che 'viaggiano' perché dimorano a lungo nelle dimensioni in cui si recano, vivendole da insider in tutte le loro accezioni geografiche e culturali, vivono molte vite in una e portano, tra i ricordi, una sorta di arca di Noé di atmosfere, paesaggi, sensazioni, linguaggi, umanità, case... (e giardini...) |
... come dimenticare il giardino, quando include pezzi incredibili di foresta scultorea e bella... |
Non ricordo tutto ciò che ho visto in Malawi e della lingua chichewa ricordo soltanto "bonongwe", il nome di una verdura saporitissima lessata e soffritta. Ricordo bene, però, che le donne creavano al tombolo o all'uncinetto centrini e coperte molto belli, che i campi di mais formavano onde verdi rigogliose e che a Blantire c'erano paradisi di artigianato magnifico e vere ricchezze di malachite e di ebano scolpito. |
"Negli ambienti lavorativi dei 'pendolari' del mondo, c'è sempre un responsabile che, bontà sua, si può mostrare magnanimo e socievole o scostante e inavvicinabile, che sembra avere 'diritto di vita o di morte' e, che, immancabilmente, ha una moglie che si finge 'alla mano' soltanto per mettere in evidenza quanto onnipotente sia la sua posizione (tranne rare eccezioni, ovvero fortunatissimi casi di persone 'normali' dalla spiritualità adeguata al livello di una cultura ad ampio respiro). Il 'padrone delle ferriere' di quella circostanza, nel giorno di Pasqua, dimostrò la massima ampiezza della sua degnazione e disse che avrebbe portato (insieme alla propria moglie gravida e alla sua bambina di qualche anno) Giulio, Virgilia e l'altro espatriato rimasto ' a mangiare il pollo'. Incredula, Virgilia chiese se fosse uno scherzo. Il 'grande capo', che aveva sempre sguardo furtivo e indiretto, almeno quando parlava con lei, si limitò ad assumere un'espressione sorniona. Non ottenendo risposta, Virgilia pensò che, da qualche parte, nella foresta, fosse possibile farsi arrostire il pollo sulla brace o che, al massimo, si trattasse di uno scherzo e di una finta sortita. Indossò roba comoda ma anche, in qualche modo, un po' 'pasquale'. Il piccolo villaggio, che attraversarono, fu la cosa più piacevole della giornata. Guardando le capanne, Ginevra si domandò se fosse accaduto lì quello che Agnes, la donna delle pulizie, le aveva raccontato e cioè che durante uno dei fortissimi temporali, l'acqua era entrata a fiumi nelle capanne e, defluendone, aveva portato via uno dei bambini che dormivano per terra insieme ai genitori (che non lo avevano trovato con sé al risveglio e non lo avevano mai più ritrovato)". Estratto da: Quali e quante latitudini hanno i sogni (e quante Giuda...), di Bruna Spagnuolo |
"Virgilia non seppe mai dove avrebbero mangiato e se davvero quell'uomo avesse avuto intenzione di portarli a pranzo da qualche parte, perché quella fu una Pasqua di digiuno e di grandi epopee. Li portò nella foresta, dove, dopo un'arrampicata selvaggia, giunsero sul caratteristico e straordinario greto del fiume (che tanto fascino esercitava sulla fantasia di Virgilia). Amò molto il luogo, a prima vista, ma avrebbe preferito sapere prima che stava per affrontare un'escursione selvaggia ed equipaggiarsi per l'occasione, indossando cose appropriate e portandosi (quanto meno) un cappello. Nessuno di loro era preparato a quel tipo di 'gita' africana (non nel giorno di Pasqua, mentre pensavano di essere diretti a pranzo)". Da Quali e quante latitudini hanno i sogni (e quante Giuda...) di Bruna Spagnuolo |
"Il luogo era così bello e così incredibile che non era possibile resistere alla tentazione di esplorare gli anfratti di quei massi straordinari. Scendere da quelle montagne di selce fu un'allegra scommessa, risalire fu un'esperienza epica. Ai piedi di quei macigni c'era limo, che parve meraviglioso come borotalco (mai avrebbero pensato di doverne avere paura). Ignaro del fatto che quel limo si fosse depositato sotto le sue scarpe (non adatte all'occasione), poco dopo, scattando foto, Giulio scivolò sui sassi e si ruppe una gamba. Virgilia credette che scherzasse, quando disse che non poteva muoversi e che non riusciva a venir fuori dal crepaccio nel quale era finito. Capì che era vero e che aveva avuto ragione, quando, salendo nella foresta e guardando quella donna con il pancione inerpicarsi e portare anche la bambina in braccio (con la testolina scoperta sotto il sole cocente), aveva detto: "Speriamo che vada tutto bene, perché siamo venuti in un luogo pericoloso, senza portare nulla di ciò che potrebbe servire". Che ironia! A farsi male non erano state le persone più vulnerabili del gruppo. I due uomini si diedero da fare non poco, per tirare il malcapitato su dal crepaccio, ma fu lui che, patendo dolori lancinanti, si dovette arrampicare gattoni, dopo essersi sfilate anche le calze, fino in cima a quei macigni divenuti di colpo spaventosi. Ci sarebbe voluta almeno una corda, ma non avevano nulla, perché erano usciti senza sapere dove fossero diretti (pensando di scendere dalla macchina e fermarsi a pranzo). I due Italiani tentarono di trasportare il ferito, a turno, ma procedevano a stento, con progressi inferiori a quelli delle lumache e, infine, si arresero. Virgilia attraversò la foresta da sola e rifece il tragitto in discesa, sperando di non sbagliare direzione e di non perdersi (e pregando di non imbattersi in qualche belva o, peggio, in qualche cobra). Sulla strada in terra battuta, dove avevano lasciato il fuoristrada, nel mezzo del nulla (come spesso accade in Africa) c'era un posto di blocco. Un poliziotto in borghese, piccolo, mingherlino e nerboruto accolse la richiesta d'aiuto, con decisione immediata e senza esitazione. Non fece domande e si mise a correre. Salì nella direzione che Virgilia gli aveva indicato, si caricò sulle spalle l'incidentato (cioè circa ottanta chili) e lo portò a valle. Dopo un tempo che parve eterno e che era, in realtà, breve, Virgilia vide arrivare il poliziotto. Teneva per le mani Giulio, che penzolava dalle sue spalle e che trascinava i piedi con evidente sofferenza. L'Africano arrancava, annaspando. Ginevra ebbe paura che stramazzasse al suolo e morisse. Depositato accanto alla macchina, più sudato e stravolto del suo soccorritore, in preda al dolore, Giulio si profuse in mille ringraziamenti commossi, poi tirò fuori dal taschino tutto ciò che possedeva e rovistò tra i vari documenti ordinatamente stivati nel raccoglitore di pelle: selezionò tutte le banconote dei kwacha locali e le depositò, mano a mano che le trovava, nelle mani dell'uomo; fece lo stesso con quelle delle lire italiane (che conservava ovunque, come riserva), poi rovistò in tutte le tasche e gli consegnò anche gli spiccioli delle due valute; infine, gli prese le mani tra le sue e gliele strinse. L'Africano non credeva ai suoi occhi. Agitava la testa, con sguardo commosso, e ripeteva: -Enough! Enough! Too much, too much! Thank you! Thank you!" Quella scena, durata soltanto qualche minuto, fu solenne e rimase negli occhi di Virgilia. Giulio, con quel gesto, rese onore alla grandezza dell'animo semplice del suo soccorritore. Il suo calore istintivo ebbe la solennità degli onori militari resi ad un eroe dalle truppe schierate. L'uomo ne percepì l'importanza e ne fu toccato. L'una di fronte all'altra, in quell'istante, estranee al resto del mondo, quelle due persone sedute per terra diedero corpo umano alla giornata pasquale di quell'anno e assursero a simbolo del bene che circola nel mondo come buona linfa. Passarono il resto del giorno ballando nel fuoristrada, sui dislivelli del terreno (con tutto ciò che ne conseguiva per la gamba rotta, che Virgilia aveva avvolto nel suo golfino, che cercava di tenere ferma e che, comunque, strappava gemiti al povero infelice). Cercarono, tra mille costoni e piste dissestate l'ospedale e, quando lo trovarono, dovettero rimettersi in viaggio: tra le sue 'corsie' (celle senza finestre, in cui s'intravedevano 'involti' umani adagiati sulla nuda terra senza pavimento) e i presunti 'ambulatori', non c'era nulla e/o nessuno che potesse aiutarli. Il viaggio fu eterno e, infine, li portò in una 'clinica' ostetrica, ove qualcuno ingessò alla meglio la gamba del malcapitato. La frattura era di poco sotto il polpaccio e il gesso arrivava appena al polpaccio, formando un peso più dannoso che utile ai due monconi che subivano gli sbalzi di ogni spostamento. Fu necessario, nei giorni successivi, affrontare seicento chilometri di viaggio, per andare a Lilongwe, in cerca di soluzioni riparatrici. Il rimedio fu persino peggiore: il nuovo stivaletto di gesso, della stessa lunghezza del vecchio, fu molto più pesante, perché aggravato da una staffa di ferro che, posta sotto il tallone, avrebbe dovuto essere un supporto per 'camminare'. Muoversi era impossibile, in quelle condizioni, per Giulio, perché i saltelli sulla gamba buona facevano sobbalzare e muovere l'osso rotto dell'altra gamba; per spostare il povero Goiulio, Virgilia inclinava all'indietro la sedia e lo trascinava da una stanza all'altra. Incredibile, ma vero, colui che aveva causato tutto quanto fece anche di peggio (forse spinto dalla moglie, probabilmente adombrata dal non sentirsi first ed unica in quel sito abitativo sperduto nel bush): senz'altra maschera che quella di cui la natura lo aveva dotato, comparve sulla soglia e, guardandosi i piedi, comunicò a Virgilia che il 'malato' se la doveva cavare da solo. Virgilia dovette partire. Giulio se la cavò, certo. Se la cavarono anche i sopravvissuti dei campi di concentramento, perché non avrebbe dovuto cavarsela lui (senza neppure il pericolo dei forni crematori)? Ci sono ambienti in cui chi è subnormale fa passare per normale le assurdità e le prevaricazioni e chi è normale non può che vestire di dignità la sua impotenza. 'Normale' sarebbe stato far partire il malato e mandarlo a curarsi (non toglierli l'unica possibilità di assistenza). Il ricordo buono di quell'esperienza ebbe, per Virglia, il volto dell'ignoto Malawaiano soccorritore. Lo avrebbe ricordato per sempre. A distanza di anni, non avrebbe saputo se facesse ancora il poliziotto, se fosse ancora dove l'aveva incontrato e che vita conducesse, ma si sarebbe augurata che, ovunque fosse, stesse bene e che avesse ricevuto tutto ciò che si augurava dalla vita. Quell'uomo era uno degl'ignoti, silenziosi, misconosciuti e umili eroi del globo terrestre (che sono poi quelli che mandano avanti il mondo, alla fine). Gl'individui come quelli'gnoto Malawaiano rendono la terra ancora accettabile come luogo da abitare; a loro (e non ai potenti) il genere umano deve inchinarsi, a loro deve dire grazie; finché gli uomini semplici e buoni esisteranno (sia pure nelle foreste sperdute) il mondo degli squallori e delle stragi (glorificate sull'altare del tornaconto personale) non prevarrà". Dall'inedito Quali e quante latitudini hanno i sogni (e quante Giuda...), di B. S. |
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Il fiume Scile è una presenza sine qua non e un'entità calamitante straordinaria. Attorno ad esso gravitano catene ecologiche gigantesche, folti intrighi di vegetazione, campi coltivati e siti stanziali umani che, anche a distanza, sembrano avvolgersi nell'aura vitale di quella presenza liquida, munifica e preziosa. I campi coltivati dei dintorni del fiume hanno terra morbida e scura, che pare trasudare la linfa vitale di quelle acque abbondanti e generose. Le capanne rotonde hanno foro-camino centrale, dal quale il fumo si alza in volute gentili, quando il crepuscolo tinge di ansia serale l'attesa del buio e le famiglie sciamano, come gli uccelli, attorno ai loro nidi , mentre sui fuochi accesi le pentole diffondono i vapori della speranza. Da lontano, i casolari fatti di terra e con la terra fusi in un connubio ancestrale dalle viscere profonde, paiono tese verso il fiume, come cuccioli attenti al richiamo dell'allattamento. Il cielo grande, a misura di orizzonte africano, sul fiume si modella in sintonia, facendosi piccolo e, allo stesso tempo, facendo grande il fiume. Le nuvole si ammassano, piumose, consistenti, gigantesche e rendono la volta del cielo spaventosa, muovendosi e creando chiusure-aperture-profondità che si specchiano nel fiume e che portano il fiume a specchiarsi nel cielo. Quell'increspato e silenzioso grande corso d'acqua si anima di ombre, di luci, di riflessi e di mistero. Gli armenti di ippopotami, sulle sue rive, drizzano, di tanto in tanto, le piccole orecchie e caracollano verso l'acqua, come se avessero percepito l'arcano precluso all'orecchio umano. Gli uccelli si affollano tra i rami delle rive, come frutti maturi pronti al raccolto. Lo sciabordio occasionale parla di immersioni furtive da/per la riva, ove, all'ombra dei canneti, i pachidermi scandagliano l'aria, collezionando gli ultrasuoni elusivi che il contingente innalza verso l'eterno. Un pandeismo diffuso pare contagiare persino la ruvidità furtiva del preistorico coccodrillo e dei rettili insidiosi. Le leggende dei bambini e degli adulti divorati lungo il fiume si versano nelle voci sommerse, come tributi alla natura. Attraversando lo Scile si sente battere il cuore del Malawi . |
Ciò che riporto in questa sede non è un lavoro di tipo geografico, come si è capito (spero) dalle altre pagine di questo sito. Le nazioni, qui, hanno la caratterizzazione delle impressioni che hanno lasciato nel mio cuore. L'algeria, ovviamente, è una nazione poliedrica e vasta e ha aspetti infiniti che sono reperibili nei documenti giusti. La 'mia' Algeria è quella di cui racchiudo le immagini dietro le palpebre del ricordo affascinato |
Nelle foto qui sopra c'è l' Algeria del mare silenzioso e pensante, come una creatura vivente/ l'Algeria della bella Algeri con il suo biancore da sposa ammaliante, la sua architettura raffinata, arabeggiante e vestita di leggiadria, e con il vicolo dei pescatori, nei cui bugigattoli il pesce fresco e buono passa direttamente dalla bilancia alla padella (per chi vuole gustarlo, con abbondanza e senza troppi fronzoli-galateo),/ l'Algeria della valle delle scimmie, con i suoi paesaggi suggestivi e le scimmiette-mamme che stringono tra le braccia cuccioli simili a bambole o a bambini minuscoli (e ispirano tenerezza e amore, insieme ai loro piccoli). La valle delle scimmie chiama dal ricordo lontano e si fa casa dell' eco temeraria del vento della mente, imparentandosi con immagini-cultura del deserto e del fascino tuareg. |
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In queste foto c'è l'Algeria che non posso dimenticare e che si fa dimensione senza confini e senza tempo della storia che mormora nell'aria e parla tra i sassi... Cherchell, nella provincia di Tipasa, è un luogo che cattura la mente e il cuore e li conduce per mano nella dimensione oltre immagini-suoni, ove ogni pensiero è un raduno di silenzi rumorosamente declamanti. |
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Gli occhi profondi e sognanti degli antichi Egizi lungimiranti e misteriosi hanno accarezzato e amato questo angolo miracolosamente bello di mondo; le loro menti eccelse hanno pensato e progettato (1500 a. C.) un sito stanziale dalla bellezza così sovrabbondante che, a distanza di millenni, impregna ancora le rovine. Una divinità egizia, in basalto nero, porta ancora il cartiglio del faraone Thutmose II. |
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I Fenici s'invaghirono di questa città-sogno e la vollero per sé a ogni costo. Vi s'insediarono (IV secolo a.C.) e la denominarono in un modo che fa pensare ai nomignoli che nascono dal profondo di un cuore pieno d'amore: Jol (o Iol). Questo nome suona come il ritornello di una nenia affettuosa e fa venire in mente che i cantori di corte devono aver certamente inserito il nome di questa città leggendaria nei loro antichi canti commemorativi e divulgativi delle gesta epiche. Grande bellezza, grandi epopee, verrebbe voglia di dire, perché tutti i potenti (come innamorati prepotenti) si avvicendarono nel corteggiamento-rapimento di questa città splendida e sfortunata (come una dama bellissima oggetto di molte contese). Il re numida Giugurta la conquistò e la rese famosa e potente (morì nel 104 a. C.). Bocco I e Bocco II la elessero a sede della corte numida. Altri re numidi l'amarono come un'oasi di bellezza in cui far riposare gli occhi, la mente e il corpo. Il re numida Giuba II dovette abbandonarla e fuggire, insieme alla sua sposa (la principessa greca tolemaica Cleopatra Selene), a causa della sua simpatia per i Romani, poiché il popolo, che disapprovava la romanizzazione, diede il via alla rivolta (che si trasformò in guerra civile- 26 a. C./20 a. C.). L'imperatore romano Cesare Augusto intervenne e sedò la rivolta. Il regno numida fu diviso in due. La metà del regno di Mauretania che includeva Jol, sotto Giuba II divenne parte della provincia romana dell'Africa Nova (mentre la Numidia occidentale incorporava la seconda metà della Mauretania). Giuba e Cleopatra Selene ribattezzarono Jol Caesarea o Caesaria, in onore di Cesare Augusto, e la ricostruirono in stile romano. Caesarea divenne, in seguito, capitale del regno di Mauritania (uno dei più importanti e fedeli alleati di Cesare Augusto). |
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Nulla dura per sempre: il potere è, per antonomasia, la riprova di questo detto. La triste storia della fine di Cesare ( nota urbi et orbi nel passato e nel futuro) non poté non ripercuotersi sull'alleanza di Roma con il regno numida. I contorti-complessi-subdoli-orribili intrighi del senato romano, alla lunga, ne ebbero ragione. L'ultimo monarca numida , Ptolemy di Mauritania, fu assassinato durante un viaggio a Roma. Gli Arabi conquistarono l'Algeria, nell'undicesimo secolo, e chiamarono la città di Jol (o Caesarea) Sharshal. Quel meraviglioso luogo non ebbe mai pace. Fu infestato dai pirati Turchi e conquistato dal Barbarossa; nel 1738 fu devastato da un terribile terremoto; nel 1840 fu occupato dai Francesi (che pronunciarono Sharshal 'Cherchell'). La bellezza di queste rovine è un miracolo che non finirà mai di commuovermi. I Francesi hanno fatto scavi danneggianti e costruzioni-ladre (con preziosi reperti hanno costruito le caserme); hanno portato via tesori, per fregiarne Parigi o la stessa Algeri. Alcuni monumenti sono stati devastati, per ingenuità e ignoranza, nei tempi in cui l'archeologia non era di moda. L'ippodromo della leggendaria Jol fu depredato; i suoi pezzi servirono per costruire la chiesa dell'attuale centro abitato. Le scale dell'ippodromo furono distrutte dagli scavi di un cardinale, che cercava la tomba di santa Marciana (martire cristiana prima incornata e calpestata dal toro, poi maciullata dalle belve). Gli eventi della storia, il terremoto e il passaggio degli esseri umani non hanno potuto nulla contro il fascino inenarrabile dell'antica, mitica, magnifica, indimenticabile Jol... Ancora e per sempre parla della vita brulicante che l'ha abitata, dei progetti, delle ansie, delle gioie e dei drammi dei proprietari delle case... La sua città dei morti (foto a sx sopra) stipula sodalizi con la natura che la circonda e con le voci delle assenze sepolte in meandri-lontananza inimmaginabili; la pietra e la terra cantano abbracci-addii aleggianti nel mormorio di alberi e acque che più non sono... Tra le rovine dell'antica Jol, si respira un vento che parla di storia e di eventi lontani. Il mare silenzioso, austero e vivo calamita i pensieri e li trasporta nella dimensione lontana dello stesso luogo affollato di vita e di storia. Il porto ancora attende le veloci biremi e triremi foriere di guerra e scruta l'orizzonte, in cerca delle liburne mercantili a un solo albero e con vele quadre che, insieme alla gagliarda gioventù maschile, portavano con sé le attese e i sospiri delle fanciulle innamorate. |
Malta è una dimensione/molte dimensioni ed è un crogiuolo di ricchezze-bellezze così enorme da non potersi descrivere (vedi tutte le zone che sono state dichiarate dall'Unesco patrimonio dell'umanità e, dulcis in fundo, i templi megalitici). Descrivere Malta (con supporto iconografico) richiederebbe spazi e impegno spropositati, ma Malta è vicina (all'Italia) e talmente nota che non ha bisogno di questa pagina. Qui la cito, perché è troppo bella e troppo importante per non farlo e perché rientra tra i luoghi che hanno riempito di bellezza i miei occhi (e su cui i miei passi si sono snodati con riverenza). Mi limito a ricordare le piccole cose che definiscono la 'mia' Malta. |
Lasciando le coste dell'Italia, avevo in mente l'antica Reggio-colonia calcidese, la sua oligarchia, l'avvento del potente Anassilao messenico, l'alleanza con Cartagine, la successione di Micito e i suoi sogni di conquiste infranti -a Nord- dagl'indomabili Iapigi, l'avvento della democrazia e l'alleanza con Atene. Gli occhi rifiutavano la Reggio dei palazzoni e del cemento e cercavano -invano- la Reggio atavica, trincerata dietro la paura del pericolo che veniva dal mare... (come quando Dionisio I di Siracusa giunse con il suo esercito e la rase completamente al suolo- nel 386 a. C.). |
Non ero preparata a Malta e, quando vi giunsi, ebbi la sensazione di non poterla abbracciare tutta con la mente. Malta non è abbracciabile con lo sguardo in una volta sola, da nessuna prospettiva, perché ha più di un'identità/dislocazione, ma non è abbracciabile neppure con la mente tutta quanta, perché va scoperta, corteggiata, conquistata e amata per gradi e per livelli di comprensione. Malta è un universo che può sembrare piccolo soltanto a chi lo separa da ciò che ci sta sopra (che è un patrimonio infinito). |
Di Malta ho ricordi tutti belli (che vanno dalle atmosfere, ai paesaggi, ai monumenti, ai negozi, agli oggetti di pregio svariato, agli spaghetti allo scoglio più buoni del mondo), ma la peculiarità che fa sentire il mio cuore indifeso è la qualità particolare che l'aria assume nel sole in certi angoli e in certe ore del giorno. L'aria assolata di quelle ampolle di spazio e di tempo ha un corrispettivo in colore-odore-sapore in altre direzioni dai silenzi assordanti (che abitano il pensiero). In quegli angoli di tempo e di luce, l'isola diventa la casa del vento e quasi si rannicchia per non opporgli resistenza e, allo stesso tempo,per ingentilirne il passaggio. La buona terra coltivata si fa culla dei germogli verdi e li nasconde dietro muriccioli-scudi bonari e senza pretese. |
Ho visitato e visto cose grandiose sull'isola di Malta, ma devo a un tassista la visita a un luogo che parla dell'inconscio popolare e dell'ansia del soprannaturale che vi alberga (sin dalla nascita del tempo). C'è un albero, sul bordo di una strada, in pieno asfalto. Ha una strana ramificazione binaria (che si duplica come per scissione), volta verso l'alto, a mo' di braccia tese verso il cielo. Il tronco sembra percorso da un pathos che lo arcua e lo apre quasi in due ai lati di una specie di nudità simile a un corpo teso in uno spasmo. La gente narra che ai piedi di quell'albero sia accaduta una disgrazia e che, in seguito all'evento funesto, l'albero abbia assunto l'aspetto nel quale sono ravvisabili gli spasmi dell'agonia del Cristo sulla croce. I Pellegrini si alternano ai piedi dell'albero-scultura che non manca mai di fiori e di lumini. |
Molto avrei da dire anche su Rodi, ma è meta di turismo in senso lato. Tutti la conoscono e molti l'amano (con gli altri anch'io). Sulle molte vicissitudini storiche di quest'isola tutti si documentano, quando vi si recano in visita. Il mio compito è elencarla tra i luoghi che ho calpestato e che sono entrati nel mio inconscio con l'essenza della loro anima-paesaggio. |
Le spiagge piene di luce e di libertà (in cui le idee nidificano e volano, tuffandosi come gabbiani senza zavorre-ancore)/il cielo di un azzurro vellutato e terso/ il mare blu cobalto frangiato di onde sottili e trasparenti come merletti sembrano in attesa di richiami e di suoni di conchiglie (magari provenienti dal monte Atavyrion, come al tempo della civiltà minoica e dei Dori dell'Argolide). Le lotte intestine tra Oligarchici e Democratici sepolte nei millenni sembrano ancora invocare aiuti -invasioni provenienti dal mare, sotto forma di potenti velieri (con le insegne di Sparta e poi di Atene)... Il paesaggio è tinto di vigne e di ulivi e l'aria sa di zagara e di api. |
Torna il colosso di Rodi, nella mente, a farsi storica leggenda... Poso i piedi di carne nel punto ipotetico di un'orma del grande piede di argilla e lancio ippogrifi verso epoche temerarie... |
Foto di G.Ferrara- Testi di Bruna Spagnuolo- Copyright by Bruna Spagnuolo se cerchi l'e-mail di B.S. clicca qui