©by Bruna Spagnuolo

Il mio approccio al viaggio ha a che vedere con il mio scrivere: cerca, scova e canta il bello che si fa speranza. Il modo di 'raccontare' il Pakistan e il Venezuela, in questa pagina, è... soltanto 'mio'. Le mie pagine sono ciò che di geografico potrebbe svolgersi in un salotto letterario (il mio). Ogni pagina è l'equivalente di una mia poesia (allargata all'iconografia).

PAKISTAN dei   ricordi, dei fiori,

dei batik raffinati e delle letture meditate

Tarbela Dam Colony ( 1978/1979/1980)
Il letto dell’Indus river , quando era privo della sua piena, a valle della diga (alla quale ancora molte ditte, sotto la supervisione del governo pakistano, lavoravano a pieno ritmo), appariva come un gigante sfiancato e, con i suoi macigni levigati, esercitava un richiamo irresistibile. I bambini lo chiamavano “la spiaggia dei sassi”.

 

Per domare il gigante Indus river, era giunta gente da tutto il mondo, portando con sé anche i bambini e allestendo per loro ambienti idonei e scuole.

Vere e proprie città erano sorte, per accogliere il personale multinazionale, con le relative famiglie. Con il passare degli anni, i siti abitativi erano stati impreziositi con giardini stupendi.

 

Da Squarci di vita, di B. S.:

Le luci ovattate illuminano il club abbastanza da mostrare, intorno ai tavolini, eleganti signore in abiti di foggia tanto occidentale quanto orientale, ma il modo di portare gli abiti e la mancanza di dupatà dicono che nel club non ci sono donne pakistane. Gli unici Pakistani sempre presenti nel club sono i camerieri e il loro capo, perché il costo dell'abbonamento è così alto che solo gli Espatriati se lo possono permettere. Nelle grandi occasioni, però, alcuni Pakistani importanti vengono invitati alle feste. Sara si guarda attorno, rispondendo ai saluti dei connazionali e dei camerieri pakistani. Ci sono persone con cui lei si trova bene, ma ci sono cerchie in cui si può parlare solo di moda e di pettegolezzi e lei va oltre, perché non vuole provare la stessa, sconcertante frustrazione provata introducendo argomenti d'interesse storico o attuale. ....//Nel salottino c'è un allegro cicaleccio e il "baba" in divisa bianca va e viene, come una formica indaffarata, servendo bibite e sorridendo allo strascicato sciucurià (grazie) che riceve in cambio. Lo chiamano baba, perché non hanno imparato che "servo" in urdu si dice naukar , pensa Sara. Lucy le fa cenno di fermarsi. Si trova bene con Lucy, anche se a volte ha l'impressione di trovarsi di fronte a un muro. Quando hai fame, un semplice pezzo di pane ti può salvare la vita. ....//Cara , semplice Lucy! "Sai? Sono stata a rawalpindi e sono stanca morta! Tu sai com'è quando si va a Pindi: ti senti stanca ma soddisfatta. Erano un paio di mesi che non uscivo da Tarbela e avevo bisogno di scaricarmi comprando. Ci sono cose che riesco a comprare tra Pindi e Islamabad che destano persino il mio stupore. Sai le formiche? Ecco, sembro una di loro: dentro e fuori da bazaar e boutique. ..."// Sara perde il filo del discorso. Due nuovi arrivati stanno attirando l'attenzione del gruppo. "Ehi, Carolina! Non fare l'Indiana, anche se l'India è vicina. Devi pagare da bere!" "C'è qualche ricorrenza che ignoriamo?" "Sì. Sono dieci anni oggi che è arrivata in Pakistan. Lei sì che sa qualcosa del Pakistan, non te , Sara, che sei qui da poco. Ascolta Carolina e imparerai molte cose". Carolina , elegantissima e sofisticata, spiega a tutti che "il scialle" di seta cruda che indossa lo ha comprato da poco. Sara la guarda con simpatia, pensando che la mancata erudizione non necessariamente schiuda porte sulla grettezza. La pugnalata che sta per arrivarle la coglie del tutto indifesa. "Carolina, cosa stavi facendo dieci anni fa a quest'ora?", chiedono alla donna. Lei dice: "Stavo vomitando per la puzza di Pakistano" e si abbandona a una rista strozzata e civettuola. Sara pensa che sia una freddura e che qualcuno aggiusterà il tiro, ma tutti ridono di cuore e il marito di Carolina, con una risata riccioluta, aggiunge: "Eravamo appena sposati e questa che la ditta ci ha dato qui era la prima casa che offrivo alla mia sposina, ma non potevo neppure avvicinarla. Diceva che puzzavo di Pakistano. Ho consumato litri di profumo chanel. Ancora passo dei guai se faccio entrare qualche Pakistano in casa. Pensate che il mali (giardiniere) non si azzarda mai ad entrare e, siccome 'altre' signore hanno fatto prendere ai loro mali la cattiva abitudine di prendere il tè, sia nella calura estiva che nel freddo invernale, anche Carolina è costretta a darglielo, ma gli ha riservato una ciotola e glielo passa fuori dalla finestra o dalla porta e si richiude dentro.

 

Un tumulto di sensazioni trasporta Sara, in una nuvola di tristezza, attraverso un pellegrinaggio di immagini care. "Cuibatni, mem saab (non importa), non ti ho ricordato che la data era passata perché ... tanto lo so che non perdo niente con te, che mi paghi senza dubbio e che mi dai tante cose in più da portare a casa. Gli altri mali si lamentano tanto dei Saffed (Bianchi) e m'inviadiano, perché dicono che tu sei una di noi. Ti rispettano perché rispetti gli altri, sei seria, vesti in modo decoroso e pudico, come le nostre donne e tratti gli altri come tuoi pari. Sai, dicono che hai lasciato il tuo lavoro, perché non ti lasciavano aiutare i Pakistani e..." Caro ,vecchio giardiniere fidato e fedele... I bambini, non sapendo pronunciare il suo nome in urdu, lo chiamavano "Abde" e così ormai lo chiamavano tutti. Un mulinello di ricordi 'pakistani' turbina nella mente di Sara: il ciukidar (guardiano), mussulmano tradizionale e severo, che s'inchina davanti a lei (una donna e, per di più, bianca e straniera); la folla del bara bazaar (grande mercato), di cui gli Espatriati hanno molto timore, che le dedica attenzioni e rispetto; l'autista, che si precipita ad aprirle la portiera e a prelevarle pacchi e pacchetti, mentre si rifiuta di fare lo stesso con le altre signore che lo pretendono; il ragazzo del commissary (supermercato) che rimane a bocca aperta, perché lei fa da sé e non si fa portare la spesa alla macchina, come le altre signore; la sua ventiquattrenne amica pakistana, che si precipita a chiederle consiglio ogni volta che la sua mania di occidentalizzazione la mette nei guai; la sua meravigliosa amica pakistana, Rehana, che ha trovato l'epico coraggio di separarsi da un marito ministro (in un paese in cui qualsiasi marito è la legge) e di vivere raminga con i suoi bambini e che si è vista togliere la bambina che aveva adottato e che ne è quasi morta di dolore; l'odore del curry all'imbrunire; la vita che ferve di notte durante i Ramazan, il richiamo delle Moschea nel silenzio; l'incanto dei picchi nevosi più alti del mondo in lontananza (quando 50 gradi bruciano l'aria); l'ululato degli sciacalli al tramonto e... tutte le cose che, in poco tempo , ha imparato ad amare. Si accorge di essere uscita dal Club e di essere immersa nel buio, risvegliata da una risata notturna del bosco. Ha dimenticato il terrore dei cobra vaganti nel buio; l'aria calda non la infastidisce, per una volta, e il cielo di velluto, che si specchia nella piscina, le fa venire le lacrime agli occhi. Trasale, spaventata: "Qualcosa non va? Posso fare qualcosa, mem saab?" "Chi...? Ah, sei tu, baba. Va tutto bene. Sai, continuo a pensare che di sera fuori debba essere fresco e lascio l'aria condizionata per questo forno. Sono proprio matta!" "No, mem saab, non sei matta. Non rattristarti. Il mondo è grande, ma la giustizia, l'ingiustizia e la saggezza sono uguali dappertutto. Non indurire il tuo cuore. Non pensare che sia sbaglaito essere sensibili e continua ad accettare il mondo intero, come fai ora. Non mi guardare stupita: gli anni sono la migliore scuola per imparare a leggere negli occhi della gente. Non è tutto inutile, sai, soffrire voglio dire. Da qualche parte, nell'universo, qualcuno capitalizza tutto questo, ne sono sicuro. Un giorno, ci sarà chi attingerà alla banca di sogni e di speranze che noi ora alimentiamo. Sorridi ora, vado a dire agli altri che mem saab è uscita per proporre un bagno in piscina."

          

La collettività espatriata godeva di ambiente internazionale e di elevate condizioni sociali. Chi ne sentiva il bisogno poteva dedicarsi alla cultura e far tesoro dei momenti di lettura...

Il libro nella foto è “The Far pavilions” di M. M. Kaye.

Averlo letto ha rappresentato un momento importante della mia vita e mi ha lasciato un grande rimpianto: quello di non averlo letto prima di incontrarne l'autrice. I libri come quello sono opere impegnate, indimenticabili e uniche. Molti sono i libri belli e le letture che ho amato intensamente. Per esempio, le prime opere del Wilbur Smith non ancora industriale, come "Stirpe di Uomini" e "I fuochi dell'ira" ( e altri, come "L'uccello del sole"), racchiudono il sacro fuoco dell'amore per i luoghi, il canto della nostalgia e del richiamo accorato dell'anima per i sentori, gli odori, le atmosfere, la consistenza dei panorami, delle creature in essi contenuti e dell'aria che essi respirano (nonché delle epopee e delle metamorfosi a lungo respiro geografico e antropologico che le definiscono). Non posso citare tutte le opere che ho letto e che mi hanno affascinato, perché neppure un sito allestito soltanto a tale scopo basterebbe. Cito, fra le opere contemporanee quelle che ho amato e che mi hanno schiuso quel tanto in più che rende la vita degna di essere vissuta. Ci sono libri adatti a trascorrere il tempo immersi nella distrazione piacevole offerta dalle digressioni mentali in essi contenute o nell'evolversi della suspence della trama bene architettata. Ci sono libri originali e fantastici, che aprono alla fantasia mondi irreali e creativi. Ci sono libri storici, libri di viaggi, libri di attualità e di spettacolo e libri per ogni ramo dello scibile umano. Tutti i libri, purché validi e rispettosi della lingua in cui sono scritti, sono pietre insostituibili nella grande architettura letteraria. Ci sono libri, però, che si elevano come cime e che rientrano nella categoria delle opere grandi e dei capolavori dell'umanità. Quei libri contengono valori indiscutibili e altissimi dal punto di vista linguistico, letterario, estetico, etico e umano. Lasciando da parte i mostri sacri della letteratura, di cui tutti conoscono lo splendore e che formano una cronologia luminosa della paternità letteraria mondiale, la mia mente cerca dimensioni letterarie in cui liberare i destrieri alati che si porta dentro e in cui i loro voli possano trovare cieli-porte, quandunque oscure lame trafiggenti si profilino all'orizzonte. E mi viene in mente Ruark, con il suo "Something of value" corposo, grandioso, ricco di pagine magnifiche in cui l'umanità viene messa a nudo e trasferita nella terra, nella natura, nelle varie forme di vita, negl'intrighi cespugliosi delle foreste africane e nei lati oscuri del cuore umano e delle lacerazioni sociali più assurde e imprevedibili nella prevedibilità scontata che la cecità degl'interessi materiali azzera volutamente. La padronanza superba con cui Ruark asserve la lingua alla resa incisiva della parola, che si fa scalpello e strumento primitivo e/o raffinato, diventa immagine plastica e viva di movimenti-guizzi e di percezioni affilate come le lame silenziose e decapitanti dei Mao Mao. Indimenticabile e unico è per me Ruark. Tra le letture che avrei immaginato pesanti-pedanti e difficili da portare a termine, c'è un'opera-sorpresa, la trilogia del "Book of silence" di William Horwood. Il primo dei tre volumi in cui mi sono imbattuta è "Duncton Stone"- 872 pagine che mai avrei pensato di leggere e che ha tenuto la mia mente a sé legata dall'inizio alla fine. Non avrei creduto di poter leggere un simile "mattone" imperniato sulle peripezie di un mondo di talpe e ho dovuto scoprire che quel "mattone" mattone non è e che è, invece, un'opera stupenda. Il mondo delle piccole creature in essa descritte è la dimensione altra in cui la realtà umana trova collocazione per tutto il suo peregrinare, il suo patire, il suo portare croci (lungo percorsi accidentati e meandri pieni di insidie e di trappole), il suo essere intrisa di tradimenti inconfessati-di ambizioni inconfessabili-di brutture-di bruttezze-di realtà/rarità sommerse e sconosciute, la sua abitudine di curiosare-chiedere-fare illazioni-cercare (da soli, in gruppo o in folle) non-si-sa-cosa o la verità. La bellezza della lingua, che costruisce in modo vivido e tangibile i microcosmi fatti di terreno, di sassi, di sentieri sperduti, di grotte e nascondigli, di tramatori oscuri e senza scrupoli e di ricercatori puri della verità, di seguaci dell'incarnazione della menzogna oscena e di quella della purezza semplice e disinteressata sembra partire dal basso e innalzarsi pesantemente e gradualmente, verso la cima degli alberi e del grande "Stone". I movimenti solitari e silenziosi o gregari e rumorosi delle piccole talpe sembrano riprodurre il fruscio del mondo fatto di erba e di foglie ai piedi dei grandi alberi dalle chiome ombrose e fruscianti. I moti intimistici dei personaggi riproducono quelli degli esseri umani, nella miseria e nell'abiezione ma anche nella catartica ricerca dell'ultimo libro del silenzio e nella sfida ascetica di chi deve "osare rinunciare a tutto ciò che ha e a molto di più...". Ci sono autori grandi che sfornano opere infinite e sbalorditive, dai risvolti storici innegabili e suggestivi e che toccano l'apice della loro grandezza nelle opere meno world wide incensate. La Mc Cullough, per esempio, ha realizzato una grande opera quando ha scritto "The thorn birds" e ha raggiunto livelli storico-narrativi inenarrabili nelle altre sue notevoli e numerose opere, ma ha toccato l'apice della sua maturità nella creazione e nella realizzazione di "Morgans run", poiché quel libro contiene, insieme a un linguaggio che è reale patrimonio letterario, lezioni-lirismo, conoscenze-insegnamento, approfondimenti-valori che vanno al di là della storia raccontata e che si fanno ricchezza indicibile per l'umanità intera, per la sua identità e per la sua eredità lingusitica. Molti sono gli scrittori che dovrei citare, per le stesse ragioni, ma me ne manca il tempo e il modo in questa sede. M. M. Kaye, però, non la posso trascurare, perché, con la sua opera "The far pavilions" ci ha regalato un'impresa letteraria meravigliosa, unica e insostituibile. I collegamenti storici che rivivono in quella grande opera ci giungono come eco del flusso vitale che scorre nelle vene dell'autrice stessa e ci arricchiscono come sciami di pensieri recitanti incisi nel tempo che comprende eventi, epoche e personaggi. La casupola isolata immersa nell'oblio in cui Sita si prende cura del bambino inglese del quale si è appropriata, il brulichio colorato dei centri abitati indiani e del loro interno ricco di scorci-muri tipici e rari, il fremito affollato e profumato di spezie dei villaggi polverosi pieni di bancarelle e di casupole tutte attaccate vi prendono corpo in modo palpitante e toccante, come il grido del falco e il vento profumato di resine proveniente dalle cime dell'Hindu Kush. Il culto del coraggio e dell'onore (come valori irrinunciabili per i quali vivere o morire) s'incarnano nel padre adottivo pakistano e nei suoi figli estremamente forti, virili, indomiti e ligi alle pratiche religiose mussulmane. L'amore grande, tanto inaspettato quanto imperituro fa capolino, sboccia, arde e torreggia pur senza imporsi sui personaggi e sugli eventi che travolgono luoghi e genti e che non tengono conto dei confini geografici e umani. La storia emerge dal passato e trafigge il presente, con la lezione disattesa dei suoi disastri antichi, nel giorno limpido di sole (un giorno "for hymns") in cui un giovane Inglese (amico leale-cuor di leone del protagonista) vende cara la pelle prima di essere trucidato con tutti i suoi commilitoni in Afghanistan.Un'opera è grande quando non teme il passare del tempo e quando la sua grandezza è attuale in ogni epoca. "The far pavilions" è un'opera così ed è, perciò, grande, ma ancora più grande è perché a tutte le caratteristiche elencate aggiunge la saggezza della parola e della ricerca glotto-linguistica disseminata quasi inavvertitamente tra le pagine appassionanti magistralemente concepite. Il solo suono del nomignolo ("Kairi bhai"-mango acerbo) indostano (della principessa segregata e affamata dalla sorella che perisce "suttee" in un delirio di vanità) porta con sé un patrimonio di identità legato agl'intrighi e alla bellezza dei palazzi-meraviglia di maharajah e maharani circondati da giardini ombreggiati dai manghi.

 

Pakistan ricco di

colori, tradizioni, luci e ombre...

-Pakistan dell’Islam e dell’Indus river-

Interno di una moschea- 1978//Tarbela Dam-Spill way-

 

Il letto dell’Indus river depauperato della sua irruenza, a valle della diga

 

-Pakistan delle leggende e dei pregiudizi-

 

Ghazi-Riva sinistra dell’Indus river-Bufali al pascolo

“Quel giorno, dirigendomi verso il fiume, dietro la costruzione che si vede sullo sfondo, incontrai una bambina. Indossava il suo piccolo tradizionale shalvar camise sdrucito e polveroso, con l’aria sicura e altera tipica delle donne del luogo; con uno sguardo di molti decenni più vecchio dei suoi nove anni denutriti, si prendeva cura di due fratellini, che portava uno sul fianco e l’altro per mano. Si accigliò, appena mi vide, e fermò i suoi passi, fissandomi; quando giunsi a poca distanza da lei e dai suoi fratelli, m’indirizzò uno sguardo di disprezzo e sputò con sdegno. Io mi fermai, la fissai e restituii il gesto, con un contegno che diceva: ‘Vedi? So sputare anch’io; se questo è il tuo linguaggio, comunichiamo così’, ma, subito dopo, le sorrisi. La bambina rimase incerta per un momento, poi si mise a ridere e io feci altrettanto. Le dissi, in urdu, che non doveva avere paura di me solo perché ero una ‘orrat’ straniera. Aggiunsi che sapevo che ai bambini inculcavano tale paura, con racconti in cui le donne come me rapivano i bambini per chissà quali scopi terribili, e che io non avevo intenzione di rapire nessuno. Vidi il sospetto negli occhi di quella bambina dallo sguardo vecchio e feci un passo avanti, con l’intenzione di farle una carezza. Lei strinse le mani, l’una attorno al bambino che portava in braccio e l’altra attorno alla mano del più grandicello, mentre sporgeva il fianco e bilanciava tutto il corpo, in un desiderio di fuga. Indietreggiai e m’incamminai verso il fiume. I piedi della bambina, per un attimo, rimasero a metà sollevati dal suolo, come rondini indecise sulla direzione del volo, poi ristettero, mentre lei seguiva i miei passi con sguardo sorpreso e pensoso. Andandomene, senza degnarla oltre di attenzione, l’avevo completamente spiazzata: la strana ‘orrat’ straniera destava il suo sospetto, perché indossava un brutto shalvar fatto con risparmio di stoffa, non indossava camise e non portava dupatà sulla testa, ma parlava la sua lingua, era simpatica, sembrava buona e, per giunta, se ne andava per la sua strada e non rapiva i bambini…”

-Pakistan dell’ospitalità e del curry-

1979-Tipico esempio di dinner party pakistano: in un clima estremamente gentile e ospitale, gli uomini festeggiano da una parte e le donne da un’altra, senza possibilità alcuna d’incontro e di scambi di vedute.


-Pakistan dell’ artigianato e dei bazar-

 Peshawar-1979- Rawalpindi/bazar

   Tutte le città pakistane sono un paradiso di artigianato di ogni tipo, di oggetti antichi in ottone cesellato e in rame sbalzato, di tappeti a nodo singolo o doppio fatti a mano, di tessuti in cachemire ricamati in seta cruda e di tessuti in chiffon e seta ricamati in oro e in argento, di pelletteria ottima e raffinata, di filigrane d’oro realizzate dagli orafi artigiani su disegno esclusivo.

   I negozi si affollano lungo i marciapiedi, l’uno accanto all’altro, tentando il passante con le varietà più impensabili di tessuti magnifici e con tutto ciò che egli possa desiderare (sgargianti e pregiati sono i tessuti delicati ricamati con metalli preziosi; irresistibili e variopinti sono i tessuti in lana cachemire; resistente e rinomato è il cotone pakistano). Gli stessi marciapiedi sono una bancarella ininterrotta, variopinta e sbalorditiva. Presso i venditori accovacciati per terra, lungo i marciapiedi, si possono fare gli acquisti più incredibili e strani.

   “A Peshawar, ho visitato negozi stracolmi di stoffe pregiate e delle mercanzie più svariate. Gli acquisti che mi hanno dato più gioia, però, li ho fatti per terra, lungo i marciapiedi. Mi sono accovacciata, come i venditori, e ho rovistato tra le cose più improbabili che avrei potuto immaginare. Ho comprato un ciondolo di rame a forma di minuscola spada e un ciondolo di ottone a forma di piccolissimo cucchiaio che, con grande orgoglio, ho appeso alla catenina d’oro che portavo al collo. Mi sono innamorata di una specie di scatola in rame antico sbalzato e l’ho comprata. Sotto il coperchio ha un piccolo vassoio cesellato e sotto di esso vari scomparti con mini coperchi di grande precisione. Avevo ammirato oggetti simili nella casa pakistana di una signora italiana veterana del Pakistan, che li aveva definiti ‘portagioielli’. Il venditore accovacciato (mentre si massaggiava i piedi nudi) mi spiegò, invece, che tale oggetto tutto è fuorché un portagioie: si tratta di una ‘pan pot’ (la pentola del pan); il pan è una pianta dalle foglie edule, che vengono allineate con ordine in un tovagliolino dentro il vassoio sotto il coperchio; gli scomparti sotto di esso servono a contenere impasti speziati da mescolare, arrotolare e mangiare dentro le verdi foglie di pan. Che la spiegazione della signora in questione(la stessa che ha ispirato il racconto Puzza di.." negli "Squarci di vita") fosse errata non mi stupì e non mi stupisce, perché la poveretta era ottenebrata dall'ignoranza e dai molti limiti culturali, dai quali non era escluso neppure il razzismo. Le persone come quella signora, uscite da un orizzonte limitato alle cascine, nelle quali lavoravano, e proiettate nella realtà internazionale, di cui ignoravano qualsiasi abc, non pochi danni hanno disseminato nel mondo. Della stessa categoria era il giovane uomo italiano, che, uscito dalla gabbia d'oro delle strutture internazionali, si era recato nel vicino villaggio mussulmano, Ghazi, aveva cominciato a seguire una ragazza velata, indirizzandole fischi e attenzioni, e si era ritrovato con la trachea tranciata dal coltello affilato di un passante pakistano. Si era salvato, perché aveva stretto spasmodicamente la mano sullo squarcio della sua gola, mentre l'altro Italiano, che lo accompagnava, lo riportava nell'ambiente internazionale, dotato di bravi medici pakistani e di ospedale, ma se avesse perso la vita in quello sperduto villaggio di una zona situata nel cuore della religione islamica più integrale, avrebbe dovuto biasimare soltanto se stesso e la sua ignoranza paradossale. Io posso testimoniare che coloro che portavano rispetto alla gente del luogo e alle sue usanze potevano muoversi liberamente in quello stesso villaggio e in altri luoghi, senza alcun timore. Personalmente, mi sono recata più di una volta, alla guida di un'auto, tutta da sola, nel villaggio di Ghazi, dove ho comprato ogni genere di cianfrusaglie e di vere meraviglie, entrando e uscendo indisturbata dai vari bugigattoli che fungevano da negozi. Indossavo abiti lunghi e sciarpina di foggia pakistana, davo rispetto a tutti e lo pretendevo di ritorno. Una sola volta, un uomo mi ha seguito e indirizzato un qualche complimento pesante. Senza voltarmi, come avrebbe fatto una donna locale, gli ho detto di dire quelle cose a sua sorella. Ha piegato la testa, ha chiesto scusa e ha desistito. Durante la permanenza in Peshawar, non abbiamo mangiato né bevuto nulla e, soltanto in macchina, quando ci siamo allontanati dalle zone abitate, abbiamo mangiato qualcosa, piegandoci e nascondendoci dietro i sedili, perché essere colti nel gesto di mangiare o di bere nei giorni di ramazan, nelle zone tribali, può voler dire essere abbattuti a fucilate. Sono entrata nella mia casa pakistana sfoggiando gli oggetti acquistati come dei tesori. La donna delle pulizie, con grande allegria, mi ha spiegato, aiutandosi con i gesti, che i miei ciondoli erano uno per la pulizia dei denti (uno stuzzicadenti) e l’altro per la pulizia delle orecchie e si è stupita grandemente nel vedere che non ero più così orgogliosa di portarli al collo e che li toglievo”.

Pakistan dei mezzi di trasporto dipinti come quadri

 

 

I mezzi di trasporto dipinti sono abituali, in Pakistan. Ce ne sono di varie tipologie. Alcuni pullman o furgoni hanno veri e propri quadri, con tanto di figure umane e di paesaggi dipinti sul retro, là dove la superficie non è interrotta dal vetro dei finestrini. A volte sono le scene della cerimonia nuziale i soggetti dei dipinti su ruote. Tali scene sono sempre soffuse della nostalgia e della tristezza di cui le famiglie delle spose rivestono la cerimonia stessa, poiché dare in sposa una fanciulla è, per i congiunti più stretti, come celebrarne il funerale. Con le nuove leggi e con la modernizzazione dei tempi, molti passi avanti sono stati fatti in ciò che riguarda il matrimonio e i diritti delle donne. La tradizione antica era portatrice di valori assoluti e, spesso, di soprusi e di ingiustizie altrettanto assoluti. In nome dei valori tradizionali, i genitori promettevano le fanciulle al partito che appariva loro più vantaggioso ed erano disposti a vederle morte piuttosto che venir meno alla parola data. Per un padre o per un fratello maggiore, uccidere la propria congiunta ribelle era la sola strada per mantenere l'onore e per non divenire, agli occhi del mondo, omuncoli come coloro la cui parola non aveva spessore alcuno. Il coraggio necessario a trucidare una persona che amavano faceva parte del prezzo che un vero uomo doveva essere pronto a pagare, anche a costo di pesi insopportabili da portare nella coscienza per il resto della vita. L'Italia ha potuto, purtroppo, constatare amaramente, con il feroce assassinio della povera Ina, che la fedeltà alle tradizioni estreme male interpretate miete ancora le sue vittime agli albori del terzo millennio. L'avvento del terrorismo ci dice che molti sono coloro che sono disposti a farsi strumentalizzare da chi tira i fili dietro le quinte, perché molti sono ancora i nostalgici dei vecchi tempi in quella terra che è la patria dell'Islam (pakistan, infatti, viene da pak=sacro e stan= luogo). Io ho fiducia nel futuro del Pakistan, perché credo che, proprio quando sembra impossibile vincere contro i mulini a vento, i semi della speranza germoglino nei modi più imprevisti (magari attraverso l'esempio dei grandi, come Benazir Bhutto, e dello spargimento del loro sangue innocente). Ho pianto per questa grande donna, come ho pianto per suo padre. Ero lì, quando hanno assassinato suo padre senza darne annuncio alcuno alla popolazione. Ho appreso la notizia quella stessa mattina dal suo dentista e amico, che, dopo averlo salutato per l'ultima volta, mi raccontò in lacrime come lo avevano prelevato dalla cella in gran segreto e condotto al luogo dell'esecuzione in tutta fretta. Era poco più che trentenne quel dentista e, dopo quel giorno scomparve nel nulla, come tutti cloro che erano stati vicini a Bhutto. La morte di Benazir è stata un evento nefasto dalla portata incalcolabile, ma esorto sia i suoi amici che i suoi nemici a non pensare che sia stata vana: quella donna appartiene alla categoria di coloro che vengono definiti "pazzi" perché "pensano di cambiare il mondo" e che moltiplicano, come per scissione, i meccanismi umani e sociali che cambiano il mondo davvero. Mi auguro soltanto che il Pakistan non debba chiedere altro sangue alla famiglia Bhutto né ad altri sognatori forieri di speranza.

Pakistan dei saggi e degli asceti

 

Left bank dell’Indus river-Tomba di un saggio-

Là dove un saggio giace per l’eternità, il popolo pakistano affigge bandiere commemorative. I passanti lasciano un segno visibile della venerazione che dedicano al saggio defunto, appendendo bendierine o brandelli di tessuti con lo stesso significato. Gli adulti si fanno carico di tramandare ai giovani e ai bambini il culto e il rispetto per gli asceti e per i saggi scomparsi, poiché coloro che hanno lasciato un’eredità di saggezza, scalderanno come il sole il cuore dei posteri e, proprio come il sole, lo illumineranno. Ciò rientra nella tradizione del rispetto per gli anziani anche quando sono in vita e per gli adulti in generale. Nelle scuole pakistane non mancava (e credo non manchi) mai un cartello con la scritta “Baraunke adap karò” (rispetta gli adulti).

La gente timorata di Allah ha sempre un posto e del cibo per i saggi e per i soofy oranti e/o itineranti. In questa tradizione saggia e sacra potrebbe incistarsi, purtroppo, oggigiorno, la "parentela" religiosa e ideologica del terrorismo, facendo sì che le frange violente, mascherate da falangi pie, trovino accoglienze-rifugio presso i Mussulmani semplici e privi di acculturazione. Ritenendosi "fratelli" della stessa religione, molti sono coloro che non oserebbero rifiutare ospatilatà, aiuto e omertà.

-Pakistan del passaggio non rifiutato-

Pulman di linea Abbottabad-Rawalpindi, con passeggeri “in terrazza”

 

Pakistan delle folle brulicanti

 

 

Pakistan delle feste e della cultura

I Pakistani che ricoprivano una posizione importante nell’organigrammma delle compagnie addette ai lavori della diga venivano invitati alle celebrazioni degli Occidentali. I più colti e moderni portavano alle feste internazionali, complete di danze, le loro mogli (deliziate di partecipare alla vita sociale e di sfoggiare i loro abiti principeschi). Alcune delle donne occidentali non resistevano alla tentazione di indossare il tradizionale sary e di sfoggiarne i tessuti pregiati e, spesso, preziosi nel vero senso del termine. Indipendentemente dal colore più o meno chiaro della pelle e dal colore dei capelli, le straniere erano individuabili al primo sguardo, poiché non sapevano avvolgere i magnifici tessuti nell'alone di mistero e di fascino di cui li ammantavano le legittime proprietarie di quel tipo di abito (che disegnavano al loro passaggio una scia disinvolta ed elegante, estremamente femminile e leggiadra).  
Gli Occidentali accettavano gl’inviti dei Collaboratori pakistani e vi si adeguavano, partecipando ai consessi di soli uomini senza portare con sé le loro consorti, a meno che non si trattasse di un invito eccezionale tra famiglia e famiglia. La comunità internazionale scandiva la vita in base ai vari calendari nazionali, organizzando le iniziative più svariate (dalle feste danzanti alle gare sportive). La festa di Santa Barbara (protettrice dei cantieri) riuniva tutte le nazionalità nelle varie celebrazioni. Per quell'occasione le donne (inglesi, americane, italiane, australiane, neozelandesi, pakistane, tedesche, slave) preparavano giocattoli di stoffa, conserve, dipinti, dolci, ricami, s'ingegnavano in tutte le loro abilità, per allestire il mercato di Santa Barbara e ricavarne un fondo per la beneficenza. A me chiedevano di preparare dipinti su tela, che esponevano e che io ricompravo e riportavo a casa.

Tra le iniziative delle donne di varia nazionalità, ci fu un party in onore della scrittrice M. M.Kaye.

Nella prima foto asinistra, la scrittrice inglese M.M. Kaye firma autografi, sulle copie del suo libro "The Far Pavilions" (fresco di stampa), alle signore di varie nazionalità che a Tarbela, nel club (Hill Club) destinato alle feste e alle celebrazioni importanti, l'avevano invitata a un party a lei dedicato. Era il 1978 e la scrittrice aveva appena pubblicato la sua corposa opera prima che avrebbe poi ottenuto successo nel mondo. Nella seconda foto, la scrittrice è in piedi, di spalle e con il "dupatà" marrone in testa, di fronte al marito (il generale Goff Hamilton- che ha servito nel mitico esercito britannico delle Guide fino al ritiro degl'Inglesi dall'India) e alla sua dama di compagnia. Di spalle, alla sua destra c'è la sua segretaria, alla sua sinistra una signora inglese sua lettrice. In quel suo primo libro, la Kaye aveva compendiato tutta la ricchezza della sua età matura e tutta l'elegia lirica e piena di trasporto che il suo cuore aveva imparato a dedicare ai luoghi impervi, ardui , colorati, poliedrici, irriducibili e leggendari in cui aveva vissuto per decenni al seguito del generale inglese cui era andata sposa, ma io non lo sapevo. Avevo organizzato il party in suo onore insieme alle altre donne, avevo fatto la sua conoscenza e avevo comprato il libro, ma senza entusiasmo alcuno, in verità, tanto che non avevo voluto neppure l'autografo. Non sapevo, allora, "chi" fosse davvero quella donna alquanto 'matura' (alla sua prima pubblicazione) che presentava volentieri il suo libro se e quando veniva invitata e non sapevo "che" libro fosse il volume ponderoso ancora sconosciuto al mondo. Seppi di aver avuto l'onore di conoscere una grande scrittrice soltanto dopo aver letto "The far pavilions". M'innamorai di quell'opera letteralmente e a tutt'oggi la vivo come l'opera letteraria e storica più bella e coinvolgente che io abbia mai letto e come l'opera che ha saputo racchiudere in modo incomparabile l'anima globale di luoghi e genti dell'India, del Pakistan e dell'Afganistan di un tempo lontano (che contiene l'anamnesi remota del tempo presente di quegli stessi luoghi e di quelle stesse genti).

 

-Pakistan delle montagne leggendarie-

Kashmir pakistano- 1979

-Pakistan delle vestigia storiche-

 

Forte di Latore- 1978

-Pakistan dell’Islam, dell’Induismo e delle minoranze cristiane-

 

-Pakistan dei giardini e delle tradizioni-

Shalimar Garden- Latore-1978- un bufalo "tagliaerba" riposa all'ombra di un mango con i giardinieri.

Da:
Cerimoniale nuziale
Donne e uomini partecipano alle feste nuziali da dislocazioni completamente separate: le une dalla casa della sposa, gli altri da una casa vicina, messa a disposizione da qualche parente o vicino di casa. Gli uomini non hanno assolutamente modo di vedere la sposa.
Le invitate straniere sono presenti nel caso specifico, in via del tutto eccezionale, per legami straordinari di amicizia.
Tutti gl’invitati escono a vedere lo sposo che arriva da lontano e che quel giorno, per la prima volta, incontrerà la sposa. Le due cognate gli sbarrano il passo con la sciarpa (Il “dupatà”) di una delle due. Per oltrepassare l’ostacolo, egli deve offrire del denaro. Come prevede il cerimoniale, le due donne pretendono varie offerte simboliche, fino alla più conveniente.
Donne e uomini vengono invitati a tavola, in separata sede. Soltanto i bambini sono ammessi nei consessi femminili.
La sposa, affranta, si abbandona al dolore, prima di comparire in pubblico. Soltanto il fratello assiste alle sue lacrime, mentre madre e sorelle si occupano della gestione della celabrazione. 
Al momento giusto, la sposa viene portata tra le ospiti in attesa. Com’è tradizione vi viene quasi trascinata, ma il viso dei due sposi racconta oltre-tradizione la completa estraneità dei due individui che quel giorno concludono il contratto di nozze.
La sposa piange, a capo chino, mentre lo sposo, con espressione tutt’altro che felice, si sottopone alle varie prescrizioni del cerimoniale. La cognata gli offre un bicchiere di latte e gli chiede l’offerta di denaro simbolo del prezzo che egli deve pagare alla famiglia della sposa, in cambio della moglie che porterà via per farsi servire e obbedire.
Gli sposi posano per la foto di rito (lei piangendo, a capo chino, lui con espressione quasi disperata).
Gli sposi passano sotto il Corano. La cerimonia è finita. Tutto si è svolto in assenza della sposa, pranzo compreso, nel consesso femminile. Lo sposo è giunto a casa della sposa e vi è rimasto per pochi minuti, fino a questo momento cruciale. La sposa appare spezzata dalla disperazione e lo sposo ha l’aria di un prigioniero condotto al patibolo. Viene da pensare che i due sposi abbiano in comune solo la disperazione e che, forse, proprio da lì potrà nascere la reciproca pietà e comprensione (e… il seme di speranza per la vita che non hanno scelto di condividere…).
Il fratello e la sorella accompagnano la sposa alla macchina e la sorreggono. Da quel momento ella esce per sempre dalla giurisdizione familiare paterna ed entra in quella del marito e della sua famiglia. Per la famiglia della sposa, il giorno del matrimonio è simile al funerale della congiunta.
Come una gazzella in trappola, la sposa siede tra lo sposo e la suocera e si prende la testa tra le mani; scompare alla vista degli astanti quando la macchina parte, lasciando nell’aria una scia dorata e una dissolvenza leggiadra e dolorosa...
-Foto e testi di B.S.-Il libro è del 1985- Le foto sono del 1979-Moonisa è lo pseudonimo con cui B.S. pubblicò quel suo primo libro.

Da “Squarci di vita”:

Esperienze

(lo “squarcio” relativo al cerimoniale nuziale pakistano)

Anne ama questo popolo (in veritàama tutti i popoli della terra) e, per una volta, ha deciso di vedere da vicino usi e costumi riguardanti il matrimonio. Le famiglie pakistane sono molto gelose della loro intimità e non accettano estranei alle loro cerimonieprivate, ma Anne fa eccezione, lei è considerata una di loro. La sposa è parente di Rukhsana, un'amica di Anne, e tre delle amiche europee di entrambe chiedono di poter partecipare alla festa. Anne le porta con sé, dopo aver raccomandato loro di non comportarsi come turiste in vacanza. Cambelpur accoglie gl'invitati, dopo un breve viaggio. La strada è pulita e le colline circostanti hanno un aspetto lindo e imperturbabile. L'assenza di mosche e l'aria di 'pulito', sotto la sorveglianza di piccole creste rocciose, insieme al fatto che non si vedono mendicanti, dicono che quella è la residenza di pochi benestanti (polizia aerea, con precisione). All'arrivo, le donne vengono introdotte in una casa piena di di altre donne, che chiacchierano e sorseggiano 'mango squash' (sciroppo di mango diluito in acqua). Gli uomini sono riuniti all'aperto, in attesa dello sposo. La madre della sposa accoglie Anne come una di famiglia e la ringrazia del regalo e, soprattutto, di aver lasciato il lavoro in onore delle nozze di sua figlia. Tutto è colore in quella stanza: vi sono tessuti dalle sfumature fantastiche e ricamati in oro e argento, tutti abbinati fra loro con gusto e armonia, in modo da catturare lo sguardo, tenendolo occupato, senza mai ferirlo. Le giovanissime donne maritate di recente, cariche di gioielli e avvolte nei loro abiti nuziali, hanno l'aria di passeri ignari della loro cattura. Gli abiti nuziali hanno gonna pantalone, tipo pigiama, larghissima in fondo e un grande scialle damascato o trasparente, che funge da velo, con frange dorate e luccicanti. Le altre donne indossano il classico shalvar-camise o il sari indiano; qualche ragazza più moderna indossa il tradizionale completo (stle samurai), con lunga casacca-vestito su pantaloni aderentissimi. Le due ragazze che siedono accanto ad Anne sono Persiane in attesa che Khomeini venga destituito (per pter tornare in Iran); Annne lo apprende da Fosia, una ragazza aperta e socievole, che parla l'iraniano. D'improvviso, tutte le donne si alzano e corrono all'aperto: è arrivato lo sposo da Lahore! La madre della sposa gli va incontro e gli dà il benvenuto, poi è la volta degli uomini. Lo sposo indossa un completo shalvar-camise color crema, scarpe con la punta all'insù e turbante di seta tailandese. I baffi neri, sotto il naso aquilino, e lo sguardo mobile gli conferiscono un fascino felino, ma le guance paffute e le larghe pieghe dei pantaloni, terminanti tutte all'altezza del polpaccio, gli danno un'aria pacifica un po' goffa alquanto rassicurante. Alì Babà è pronto e si avvia per entrare, ma le due cognate gli sbarrano la strada, con il 'dupatà' (la sciarpina) della più giovane delle due arrotolato come una corda: lo sposo deve sborsare dei soldi, se vuole raggiungere la sposa. Egli fa diverse offerte, finché le due ragazze si accontentano di 200 rupie (circa 17.000 lire) e, ridendo, si fanno da parte. "Sì, ma la sposa?" Le signore italiane sono impazienti e tormentano Anne con questa domanda. "Non è ancora giunto per lei il momento di mostrarsi", risponde la dolce Fosia. A questo punto ci si trasferisce nella casa accanto: una villetta dalla struttura semplice, con una specie di terrazzo per tetto. Nel prato antistante la casa, è stato allestito un angolo tenda, con stuoie per terra e ventole negli angoli (per alleviare il caldo prepotente di una primavera anticipata). Un divano di foggia occidentale attende invano gli sposi e Anne raggiunge Rukhsana all'interno dell'abitazione, per chiedere il perché della mancata apparizione della sposa. Vi trova la sua amica sarda, che, con il sari turchese preso in prestito da Rukhsana, sembra un'autentica Indiana. Con espressione eccitata e con aria da cospiratrice, le annuncia: "Ho visto la sposa! Ascolta: mi sono mescolata con le donne che andavano e venivano e mi hanno preso per una di loro. La sposa è bellissima, ma non sembra affatto d'accordo con ciò che sta accadendo qui. Tutta abbigliata, siede sul letto, a gambe incrociate, come una statua, con gli occhi socchiusi e grosse lacrime le solcano il viso. Che l'abbiano costretta... tu che ne pensi? Ma no! Magari è soltanto affranta perché deve lasciare la casa paterna. E chi non lo sarebbe? Non può essere che così: questa sembra brava gente". Un attimo di riflessione spazzato via, perché non incrini la superficie serena di sempre. Anne vorrebbe fare lo stesso e non può... Non può che arrendersi all'eterna lotta che le angosce e le gioie fanno con l'innocente spensieratezza. Fosia le sia vvicina: "Perché quell'espressione? Non rattristarti, domani è un altro giorno. Vedi, noi veniamo tirate su nella consapevolezza che un giorno lasceremo i nostri genitori, per seguire colui che è stato scelto per noi. Niente "ma", cerca di capire quanto ti dico: fa male sempre e quasi a tutte tutto ciò, ma la felicità... verrà dopo. L'uomo amato esiste solo nei film. Nella realtà, se si è fortunate, si sposa una persona in grado di mantenere la famiglia, una persona che sia maschilista senza essere brutale, una persona ancora giovane e non vecchia e bavosa. L e nuove generazioni cominciano a parlare d'amore, ma ciò crea solo drammi. Il tempo, forse..." Le parole fatidiche di Fosia si perdono nell'aria, lontane dal dissipare la nebbia che subisce una trasformazione subdola, insinuandosi dentro e stringendo con una mano arcana l'anima, in una morsa incredibile. La voce di Ruksana fa ad Anne l'effetto di una fucilata: "What's the matter with you, my friend? Come,come and have some food, please!" Nel prato dietro la casa, è stata allestita una grande tavolata, sotto una tenda simile alla prima; ognuno si serve dai piatti di portata quante volte vuole e consuma in piedi il suo pasto: riso aromatico, pollo al curry, yogurt al cardamomo verde, vegetali affettati crudi, ciapati e trayful (come dolce). Il trayful, di origine inglese, sottolinea che la famiglia è di un certo ceto sociale, perché i dolci delle nozze pakistane sono, invece, gli 'sweetmeats' simili a variopint pezzetti di formaggio, consistenti, pastosi, dolcissimi. Sul viso delle sue amiche, Anne legge l'approvazione per l'eccellente sapore del cibo, a parte gli occhi lacrimosi a causa del peperoncino piccante. Il resto dei convitati ha sul viso l'espressione più normale e distratta del mondo persino mentre mangia il 'tikat' (una salsina più piccante di quelle cinesi, forse la più piccante al mondo). Dopo il pranzo, tutti riprendono posto dove il divano attende ancora la sposa. Anne si domanda se dietro la serenità delle donne, che conversano tra loro, si celi davvero la vita felice che ostentano. Le teste si girano tutte verso la porta dell'abitazione: la tanto attesa sposa è lì, sostenuta e trascinata dalla sorella maggiore e da una parente; i suoi piedi sembrano calamitati dal suolo che calpestano e le due donne la portano letteralmente, come vittima al sacrificio. La sposa viene portata avanti, a testa bassa, con il viso completamente nascosto dal velo damascato e con un raggio di sole imprigionato tra le trame del suo abito nuziale. Anne contempla quella figuretta esile piegata e le viene in mente un giovane arbusto percosso dalla bufera, mentre il nuovo padrone del cielo nasconde l'ultimo raggio morente. Gli sguardi non sono ancora distratti dai lineamenti della sposa, completamente nascosti, perciò il vestito diventa il centro dell'attenzione generale: le frange dorate del velo s'intonano con le chiazze cangianti e ramificate di tutto il vestito. Nessuno può vederne il volto, finché la sposa non raggiunge il divano, poi i parenti la circondano fino a formare un groviglio di teste e di mani, che si chinano su di lei, non si capisce se per portare felicitazioni o condoglianze, poiché la loro espressione è allegra in modo mesto. Anche lo sposo ha avuto i suoi momenti di attenzione, ma brevi e per nulla paragonabili alla dedizione completa che riceve ora la sposa. La ressa attorno alla sposa si placa, infine, e la sorella maggiore di lei porta allo sposo un bicchiere di latte: per averlo, egli deve pagare una cifra simbolica. Fosia spiega ad Anne che ciò sta a significare che lo sposo, per avere la comodità di una sposa che lo serva e lo accontenti, deve ricompensare i genitori con una cifra adeguata. Anne sa che lo sposo paga realmente per questo acquisto fortunato cifre ben maggiori di quelle adoperate nel cerimoniale pubblico.

 

A questo punto, parenti e amici si avvicinano allo sposo e gli porgono il loro regalo in denaro. La sposa no, non riceve regali; pare che lei abbia bisogno soltanto di conforto, come se andasse incontro a una grande sciagura o, peggio, alla morte. Ad Anne torna in mente ciò che don Morone le aveva detto, quando ancora il Pakistan per lei era solo un punto sulla carta geografica: "Il giorno delle nozze della propria figlia è, per i genitori pakistani, come il funerale della stessa" e ora lei non è più tanto sicura che quell'uomo avesse torto. Immersa nei suoi pensieri, non si accorge che qualcuno le sta parlando e realizza che le stanno chiedendo di fare una foto con gli sposi, solo quando Fosia le tocca un braccio e le ripete la richiesta. Vorrebbe diventare invisibilenell'angolo in cui Fosia le tiene compagnia, per non disturbare l'intimità di quella cerimonia e risponde che per lei è un onore che glielo chiedano ma che vorrebbe essere lasciata in disparte come una qualsiasi parente. Le viene risposto che proprio come una parente può fare la foto ricordo e accetta sorridendo. Il fotografo approfitta del suo momento di gloria e impiega più del necessario per portare a termine l'operazione eintanto Anne osserva la sposa: le sue mani sono dipinte con henna e sembrano miniature finemente cesellate. Fosia ha detto che, a volte, anche il corpo della sposa viene disegnato con 'mehendi' (urdu per henna). Povera piccola, fragile ragazza. Anne l'ha incontrata, con Ruksana, in altre circostanze; la creatura dallo sguardo vivo di allora non sembra la stessa che le siede accanto. "Ti ricordi di me?", le domanda. La sposa accenna di sì, abbozza un tentativo di sorriso, poi scoppia in un pianto accorato, prendendosi il viso tra le mani. Qualcuno tra la folla le indirizza dei lazzi, a proposito del figlio maschio che la farà sorridere, ma le esili spalle continuano a rimanere curve: solo un lieve ondeggiare delle frange dorate dice che il pianto, ora sommesso, non è ancora cessato. Elegante e dignitosa, nel suo completo verde bottiglia, la sorella sposata si avvicina, con passo leggero, e s'inginocchia accanto alla sposa: nel bellissimo viso dall'espressione dolce spiccano i grandi occhi tristi e cupi, che annullano l'effetto balsamico della sua voce suadente. Fanno portare dell'acqua, ogni volta che la sposa piange e le danno da bere, con il risultato che qualcuno subito si precipita con rossetto e specchio, a ritruccarle le labbra. La foto viene, infine, scattata e Anne è stupita di vedere il perfetto maquillage della sposa per nulla scalfito dal disperato pianto appena cessato. Le sembra di trovarsi al cospetto di una principessa, tanto imponente quanto evanescente e irreale, con il suo splendido pendaglio dorato sulla fronte, il sottile filo di perle bianchissime nella scriminatura dei capelli scuri, la cornice luminosa di velo e quel limpido diamante-lacrima che scivola sulla guancia. Non è finzione, non è finzione. Anne sa di non poter fare assolutamente nulla e si sente in trappola, come la creatura che vorrebbe salvare. Salvare da cosa...? Forse domani sarà felice... Saraà felice... Tutti ridono e battono le mani, quando gli sposi passano sotto il libro sacro, il Corano, prima di entrare nella macchina che li porterà lontano; solo la mamma della sposa ha un attimo d'immobilità nel suo sari viola: un attimo di verità congelato sul viso e sulla mano destra, piena di anelli, che stringe un fazzoletto e la borsetta con troppa determinazione. L'addio è un momento in cui la madre non nasconde le lacrime, poi si asciuga gli occhi e appare serena, dopo che la macchina è partita portando via una sposa con la testa tra le mani, seduta tra il novello sposo e la suocera. Il magnifico velo luminoso è l'ultima immagineche rimane nella mente di Anne: "Non saprò mai se quella fanciulla dovrà passare il resto dei suoi giorni in un piccolo cortile. Molte donne impazziscono per questa ragione e se escono vengono picchiate selvaggiamente. Se così sarà, il sole non potrà più accarezzare quel viso perfetto, né il vento potrà più sfiorare quei bei capelli. Signore, che non sia così... Anna si guarda attorno per vedere chi piange: nessuno; è dunque suo quel singhiozzo silente che echeggia lontano? Perché lei non sa dissimulare i sentimenti, mentre gli altri sono così bravi...? E la ferisce il pensiero: "non stanno dissimulando, non stanno sforzandosi di apparire sereni, sono sereni!" E si sente diversa, dura e tenera allo stesso tempo, come scorza d'albero levigata dalle intemperie eferita da chiunque voglia graffiarla. Anne è contenta di aver assistito a queste nozze e di poter aggiungere uno squarcio di vita vera ai tesori che ama collezionare, ma non sa se potrà sorridere ancora e le ragioni di questo suo stato d'animo sono sigillate nella disperazione di milioni di donne costrette a farsi violentare da un estraneo nel tripudio generale. Anne è costretta a chiudere gli occhi per scacciare l'immagine: "Saranno tutti lì, quando la fanciulla appena partita verrà chiusa in camera con un uomo con cui non ha mai parlato e il letto sarà ornato di fiori di carta e di stringhe colorate e lei dovrà consumare il matrimonio, mentre gli altri faranno festa, perché poi andranno ad aprire e a verificare... e l'indomani lei non potrà camminare". Le parole si formano nella mente di Anne, suo malgrado. Può solo cercare di cambiare argomento, ma Fosia dice: "Per fortuna, le cose stanno cambiando. Qualche giovane trova già il coraggio di divenire 'outcast' pur di sposare chi vuole, anche se per tutta la nazione la donna è colei che con cui l'uomo non può farsi vedere in pubblico, colei che deve camminare dietro al marito, colei che non può entrare nelle moschee, colei che non può andare in paradiso se non partorisce un figlio maschio, colei che deve vivere nell'ombra e nascondere il suo aspetto (ed essere sepolta mezzo metro più in basso dell'uomo). Anne vuole convincersi che la ragazza convolata a nozze sia una delle poche fortunate e cerca di ricordare il viso dello sposo: che espressione aveva? Sembrava seccato delle lacrime di lei? No... Indifferente? No... Guardava raramente verso di lei, come se avesse cose più importanti da pensare... "L'uomo è uomo in quanto affronta gli eventi e chi affronta gli eventi può vincere l'invincibile", pensa Anne, "riusciranno mai le donne pakistane a vincere l'invincibile?"

 

 

 

VENEZUELA (1994-1995)

L'immagine (sopra) mostra un angolo 'lunare' di Amazzonia (devastata dai cercatori d'oro). Non c'è acqua in quel luogo. L'effetto 'cascata' è dovuto alla rifrazione della luce sul terreno bruciato dal mercurio e 'sfumato' dalla varia intensità del suo 'passaggio'.

Vari volti

della stessa

dimensione

VenezuelaLussureggiante

 

VENEZUELA del "chaparro", de "la hoguera" e della tartaruga vivisezionata:

I contadini disboscano la foresta, per disporre di terreno fertile da coltivare. Il mezzo più veloce per disboscare sono “la quema”, l’incendio, e “la hoguera”, il falò, che rendono il terreno alcalino e poco adatto alla coltivazione, al contrario di ciò che i contadini pensano. Anziché arare il terreno, seppellendo l’erba in esso, i contadini continuano a “fare pulizia” con gl’incendi, fino a quando lo strato di humus originario si estingue e il terreno non è più coltivabile; allora, disboscano un altro pezzo di foresta… In tal modo, la foresta indietreggia e si riduce sempre di più, lasciandosi alle spalle un suolo arido e improduttivo.

In esso cresce e prospera soltanto il chaparro, un arbusto cespuglioso che ama il terreno siliceo. Gli Indios usano le foglie del chaparro come la carta vetrata; le massaie se ne servono per pulire il fondo delle pentole. L’usanza di trasformare la vegetazione in “hoguera”, in falò, non risparmia neppure le zone non coltivate, poiché la gente appicca il fuoco nelle zone selvagge (indifferente alla distruzione irreversibile di molte specie animali e di molte essenze arboree) per scovare e catturare le tartarughe, specialmente nel periodo natalizio. El pastel de morrocoy, infatti, è, in loco, il piatto natalizio più prelibato. Se si pensa che la gente infligge alla tartaruga la morte più orrenda che si possa immaginare, staccandone le carni dal carapace da viva, per preparare la pietanza che ha tanto peso nell’atmosfera natalizia…, ci si sente accartocciare l’anima e ci si rende conto che tale usanza barbara non fa che mettere in fuga quanto di natalizio esista sulla faccia della terra.

VENEZUELA DE "LA FINCA"

La “finca”(fattoria) è, in realtà, una tenuta dall’estensione immensa, comprensiva di innumerevoli ettari di terreno, con tutte le caratteristiche geografiche del caso. La finca relativa alla foto comprende quanto si vede all’orizzonte (con tanto di lago e di anaconda annessa).

L’abitazione tipica della “finca” ha tetto in foglie di moriche, interni geometrici e ariosi e chinchorros (amache) d’obbligo, sostitutivi del letto europeo, appesi tra parete e parete.

“El ganado” (il bestiame) è il corredo sine qua non di ogni “finca” che si rispetti.

Tronchi come questo sono sculture naturali che andrebbero dichiarate patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, in quanto vetustà rarissime dal valore incalcolabile, là dove “la quema” (l’incendio) è all’ordine del giorno.

VENEZUELA DELLE METROPOLI

Puerto Ordaz

Le metropoli venezuelane non hanno nulla da invidiare a quelle del resto del mondo. Hanno vie principali, edifici moderni, centri commerciali e monumenti di ogni tipo. Tra i vari supermercati, colpiscono l’attenzione del forestiero quelli “esoterici”. Sono pieni di mercanzie da comperare dietro eventuale richiesta del “brujo”o della “bruja” (mago/maga): profumi e saponette dai nomi magici, “velones”(candele) blu (da buciare per allontanare le negatività), “velones” arancione (da bruciare per rafforzare la positività), velones blancas (da bruciare, dopo averle infilate eventualmente nell’ananas tagliato, come sacrificio votivo importante/oppure da usare per fare “una velada” -a qualcuno che abbia bisogno di essere “purificato” - e cioè tenerle sempre accese per un numero prestabilito di giorni e di notti ininterrottamente-per esempio, una settimana), “velones” di molti altri colori utili a molti altri fini, oggettini di azabache (legno fossile nero molto antico), immaginette di San Michele Arcangelo (usate per confezionare amuleti protettivi, insieme a un frammento di azabache e a una piccolissima spada metallica di San Michele), piccole statue del “San Juan del dinero”(cui la gente rivolge le sue richieste di ricchezza e dedica un vero e proprio culto pagano, con tanto di doni in frutta e bibite e vestitini proporzionati), statuine umane bianche e nere e persino membri maschili bianchi e neri.

Nelle grandi città, i supermercati pullulano di bambini (dai cinque ai quindici anni). Si affollano attorno alle casse, offrendosi di sistemare la spesa nei sacchetti e di trasportarla fino alle auto, in cambio di qualche monetina. Alcuni bambini sono così piccoli che andrebbero presi in braccio insieme alla spesa che trasportano. Nello sciame di bambini attorno alla mia cassa, c'era un ragazzino tra i tredici e i quattordici anni , una volta. Parlava fitto fitto con gli altri bambini e sentii che lo avevano picchiato e gli avevano rotto la testa. Gli feci delle domande e capii che si era rifiutato di fare da corriere della droga. Fui devastata dalla scoperta. Gli dissi che correva pericoli ben più gravi delle botte. Gli domandai se voleva venire a disinfettarsi la testa e se aveva bisogno di aiuto. Mi disse che la mamma ce l'aveva e che sarebbe andato a casa. Gli raccomandai di andarci subito e di restarci, evitando di farsi vedere in giro da coloro che lo avevano picchiato. Tutti i bambinetti, dal più piccolo al più grande, assentirono: Tiene razon la seňora, haz como ella te dice, Michelangelo! Non cambiai più supermercato. Tornai sempre in quello, sperando di rivedervi Michelangelo, ma ciò non accadde mai più. Provai a domandare sue notizie ai bambini, ma erano sempre diversi e non sapevano nulla di lui. Ancora spero che non gli sia accaduto nulla di male e che abbia avuto una chance di diventare adulto e di avere una vita da vivere.

 

VENEZUELA DELLE BARACCOPOLI

Buona parte “de los niños de la calle” abbandona le baraccopoli la mattina e sciama verso la città ricca, con lo scopo di raggranellare abbastanza per far ritorno alla baraccopoli la sera almeno con del latte e del pane per le madri e per i fratellini. Qualcuno, quando riceve qualche moneta di elemosina, entra nelle librerie e compra delle immaginette; con esse, in seguito, gira per le strade, trasformandosi in venditore ambulante. I bambini che sviluppano una certa esperienza di “venditori provetti” portano con sé, dopo qualche tempo, le sorelline o i fratellini, per l’apprendistato di rito. Quelli sono, paradossalmente, tra i bambini che evadono l’obbligo scolastico e che vivono nella strada, i più fortunati. Gli altri rientrano nel mondo sordido della prostituzione minorile e dello spaccio di droga, insieme ai bambini che non hanno più alcuna baraccopoli cui far ritorno essendo stati abbandonati da entrambi i genitori.

Da Linfa Guerriera

 

 

Venezuela de « Las tascas »

“Las tascas” sono il modo più semplice e veloce di “mangiare fuori” e di scoprire le specialità locali, ma anche molte altre cose. Sotto le tettoie all’aperto, non c’è nulla di più gustoso di una “cachapa” fritta, fatta con succo di mais fresco, servita in tutta semplicità con “queso de mano” più morbido e filante della mozzarella, e allietata da musiche locali, da danze estemporanee e da conto modesto. Insieme a tutto ciò che un ristorante di lusso può offrire, c’è da conteggiare anche il pistolero armato a guardia della porta. La tasca, forse perché è un luogo modesto, non attira l’attenzione della delinquenza e offre gli stessi margini di rischio di qualsiasi angolo di strada venezuelano (cioè quelli di imbattersi in individui pronti a tutto che, puntando una pistola al capo, dicano ai malcapitati: “Señor, yoquiero su carro”, e che li derubino dell’auto e di tutto quanto posseggono). Si dice che un tempo i Venezuelani fossero così ricchi da disdegnare di raccogliere pochi bolivares eventualmente trovati per terra e che li calciassero via distrattamente; si ironizza amaramente sul fatto che al presente nessuno si vergognerebbe di raccogliere da terra gli spiccioli trovati; si parla in lungo e in largo delle incursioni e delle rapine nei negozi e nei vari luoghi pubblici; ci si chiede se in galera ci vivano i ladri o i cittadini normali, costretti ad applicare “rejas” robuste di ferro alle finestre, fino al decimo piano, e persino alle tombe dei loro defunti nei cimiteri.

Venezuela dei fiumi grandi come il mare

 

Il grande Orinoco- sullo sfondo: CiudadBolivar

 

ParcoCachamay- Il turbolento fiume Caroni


 Da Linfa guerriera

 

Venezuela innamorato della Gran Savana

La Gran Savana-terra di spazi oceanici e di silenzi-solitudine replicanti

 

da Linfa guerriera

 

la Gran Savana

 

Venezuela del lago Kury

e delle orchidee temerarie (vita che sconfigge la morte)

Sui rami della foresta morta immersa nel lago spuntano orchidee bellissime, che lanciano messaggi di speranza ai 'nocchieri senza paura' che si avventurano in quella specie di Stige soleggiato (per pescare o per sfidare se stessi, zizgando ad alta velocità tra i dedali di tronchi silenziosi e impassibili).

 

Il lago Kury è un lago artificiale. Sul suo fondo giace un villaggio fantasma, il villaggio Nueva fortuna. Il Nueva Fortuna ricostruito non è più nido di usi e di costumi, poiché gli Indios hanno venduto le case loro assegnate a coloro che essi stessi chiamano “comemuslo” (mangiamuscolo), cioè ai Venezuelani acquisiti (gl’Italovenezuelani) . Soltanto davanti a qualcuna di quelle case si sente ancora profumo di "arepas" (frittelle di farina di mais bianco) e si vedono i brandelli del pesce ocellato stesi ad asciugare.

da 'Linfa Guerriera'

I tronchi privi di respiri-linfa, depositati sulla riva, sembrano dinosauri stanchi intenti a sublimare la scultureità della morte, nell'oblio immortale di una lumescenza unica al mondo...

Il moriche, la sentinella dell’acqua, disegna, con le sue radici, le mappe sotterranee delle provviste idriche e, con le sue chiome, le proclama al mondo...

da Linfa Guerriera

 

 

 

 da Linfa Guerriera

 

 

 

Venezuela dei

fiumi scalpitanti,

delle acque parlanti

e delle foreste imponenti

 

 

Venezuela della follia contagiosa

e dei disastri ambientali

 

Nelle due foto sopra:Villaggio-baraccopoli dei cercatori d’oro di frodo, i "desesperados" che, “oggi” dopo “oggi”, sperperano ogni “domani” della loro vita, aspettando la fortuna  sotto forma di pepita gigantesca. Ogni sera vendono il frutto degli stenti quotidiani, pagato dalla natura in disastri inenarrabili, e si ubriacano, per meglio favoleggiare la ricchezza che dovrebbe cambiare la vita di tutta la loro famiglia (trascurando di preoccuparsi del fatto che con l’equivalente della loro sbornia potrebbero dare alla famiglia la “fortuna” di non patire la fame).

Non avrei mai immaginato che un bipede così piccolo potesse infliggere danni tanto catastrofici a una foresta immensa come quella amazzonica. I cercatori d’oro di frodo agiscono indisturbati, seguendo l’estro “creativo”  individuale nell’uso del mercurio (che serve a far addensare la polvere d’oro in minuscoli grappoli attorno all’apposita rete), trascurando a piè pari cosa causano all’ambiente e alla loro ignara salute.

Le aree abbandonate dai cercatori d’oro si avviano verso un destino di morte graduale...

 

fino a trasformarsi in paesaggi spettrali...

 

L’uso del mercurio brucia l’essenza stessa della vita, trasformando il terreno in uno spettacolo dalle suggestioni lunari sconvolgenti

 

e dalle sfumature azzurrognole impressionanti...

 

Quelli che erano un tempo paradisi di acque divengono stagni della morte, che fanno impressione per l’assenza assoluta di suoni e di movimento (nessun frinito, nessun volo, nessun gracidio caratterizzano quelli che danno l’esatta idea dello Stige e dell’Ade del mito).

 

Il piccolo uomo, che appare indifeso come una formica accanto ai giganti arborei della foresta più grande del mondo, è capace di sradicare “i giganti”, per rovistare tra le loro radici, ove si dice che si nascondano le pepite più grandi mai esistite.

Coloro che hanno davvero trovato le leggendarie pepite non lo hanno mai raccontato a nessuno, poiché, prima di raggiungere l’abitato, hanno sempre trovato una morte  ingloriosa quanto l’operato condannabile di uccidere la foresta-madre e di contribuire all’invio malaugurato di tonnellate di mercurio al mare: sono stati uccisi dietro il primo cespuglio da altri cercatori. La morale triste di questo dramma mondiale è che nella dissacrazione del patrimonio del genere umano non v’è alcuna fortuna da trovare…La sola salvezza della foresta, che è la cassaforte della vita, sarebbe nel boicottaggio dell’acquisto dell’oro, ma a chi lanciare tale sfida, in quella nazione...? Le leggi che non esistono sarebbero necessarie e le leggi che esistono non sono sufficienti, ma, se anche esistessero leggi perfette, chi potrebbe garantirne il rispetto? Le miniere ufficiali sono tenute al rispetto delle leggi e i cercatori di frodo non sono compendiati nella legislazione ufficiale…, ma non c’è abitante di un certo livello sociale che non abbia la propria piccola miniera clandestina o che non abbia un amico che ne possegga una. Tra i più poveri in assoluto, alcuni dei più intrepidi e coraggiosi decidono di sfidare la sorte e di tentare la fortuna, divenendo cercatori d’oro di frodo. Nei luoghi in cui formano dei veri e propri siti stanziali, esistono centri abitati regolari, in cui i proprietari di oreficerie vere valutano, pesano, acquistano, espongono e vendono ogni giorno ciò che i disperati ricavano dalle viscere violentate di quello che era il magnifico e inviolato polmone del mondo… Ai cercatori di frodo mi piacerebbe far sapere che il mercurio li candida alla tomba e non alla fortuna.

A tutti i Venezuelani mi piacerebbe domandare: “Che faranno con l’oro coloro che moriranno di tumore, che faremmo tutti con l’oro quando e se ci estinguessimo?” Se i sogni potessero avere ali invincibili, mi piacerebbe che questo ne avesse un paio grandi come la galassia: che la popolazione venezuelana lanci la sfida al mercato dell’oro e che ne boicotti l’acquisto e, di conseguenza, la produzione; che i cercatori d’oro dedichino ai loro bambini tutta l’attenzione e le cure della ricerca mai paga; che il mondo acquisti sapienza sufficiente a stabilire le priorità pro-vita del pianeta…

A tutti i politici, gl'imprenditori, i potenti del mondo mi piacerebbe domandare: dove pensano di andare ad abitare quando avranno finito di dissacrare la sola casa che il mondo offra tanto a loro quanto ai cittadini che non hanno potere decisionale? Nello spazio? Certo, con il loro denaro se lo potrebbero permettere, ma... sarebbero ancora vivi quando quella opzione diverrebbe (eventualmente) reale? A tutti coloro che parlano del disastro ambientale legato all'immondizia (vedi Napoli e dintorni allargati al mondo) mi piacerebbe domandare: non si sentono mentalmente disturbati mentre propongono "siti di raccolta" e "bruciatori" senza azzardarsi a dire una sola parola sulla causa delle diossine, dei tumori, delle morti e della crocifissione della terra? Non si vergognano mai guardandosi allo specchio, sapendo che tutto dicono tranne le cose giuste da dire? I rifiuti in sé non sarebbero un problema se non contenessero i veleni di cui la plastica è la regina. Perché, dunque, coloro che hanno "visibilità" non dicono ciò che qualcuno dovrebbe dire e coloro che hanno potere non mettono un po' di salvezza sulla bilancia della vita? Stiamo per estinguerci tra puzze e diossine e ancora e ancora pensiamo al "pil" e a cose che non hanno senso di fronte al nulla che avanza. Le buste di plastica che avvolgono i nostri rifiuti restano e resteranno sovrane nelle tonnellate spaventose di immondizia che viaggia sul pianeta. Vi resterebbero anche se "la raccolta differenziata" fosse urbi et orbi applicata e sono quelle che, bruciate, fanno dono delle diossine a grandi e piccini (e sempre più strette al cuore ce le terremo?). Chiaramente assurdo e paradossale è stabilire le percentuali dei veleni letali e dei "numeri" delle vite umane, eppure gli "esperti", i politici, i "parlatori" non ne provano orrore. Ma perché non si dice che è ora di smetterla di produrre e di distribuire i sacchetti di plastica, invece di dire che i 'termovalorizzatori' che tali non sono di diossina ne emettono "pochina"? Ma, di grazia, quella "poca" diossina, accumulandosi nel terreno non diviene "moltina"? E perché non si programmano bruciatori a zero emissione? Forse perché non offrono vie traverse di 'guadagno'? E, quando s'invoca la raccolta differenziata, perché non si dice che neppure la raccolta differenziata risolve il problema dei sacchetti di plastica (che ammorbano l'eliminazione dell'immondizia)? Perché non si comincia a organizzare seriamente la distribuzione di soli sacchetti di carta, facendo sparire una volta e per sempre quelli di plastica? Che cosa stanno aspettando coloro che hanno voce in capitolo...? Di cosa hanno bisogno, per decidersi a fare le sole cose necessarie...? Forse pensano di appartenere alla categoria degl'immortali (refrattari al cancro e alla caducità di noi poveri mortali)?

A tutti i comuni mortali mi piacerebbe dire: ognuno è piccolo quando è da solo e diventa oceano quando si unisce ai suoi simili in un unico intento. Facciamo il poco di cui siamo capaci e non limitiamoci a lamentarci, proseguendo sulla via sbagliata "perché tanto noi da soli non possiamo cambiare le cose". Facciamoci borse di pezza per fare la spesa, cuciamone dieci se due o tre non bastano. Usiamo sempre e solo quelle e dichiariamo, da oggi e per sempre, la guerra alle buste di plastica. Il "poco" che otterremo sarà "molto" in proporzione a quanti saremo.

da Linfa guerriera

-Foto di G.Ferrara- Testi di Bruna Spagnuolo se ti serve l'e-mail di B. S., eccola