Bruna Spagnuolo

VAL SARMENTO

© by Bruna Spagnuolo

Si avvicendano le generazioni, inVal Sarmento e le ginestre sono sempre là, tempestate di gocce di sole, vestite d'oblio e d'eterno... Erano piene di api e di canzoni, un tempo... Tacciono rumorosamente, ora, meditando sull'assenza dei ronzii... e sui presagi delle api che non tornano...

*-Primavera in Val Sarmento- Alberi bianchi, alberi spinosi, alberi di un ventoso rosa tenue o di un orgoglioso rosa arrossato si alternano a barbe di piantaggine simile a giunco, a tappeti di erbetta vellutata e ondeggiante, a orli di pruni, biancospini, erica, su cigli e dirupi. Qualche pero prepara il suo artritico scheletro a nutrire bianchi fiori e simbiosi di vischio.

Come piccole comunità sagge, le ginestre consultano l’eternità sul destino dell’uomo, abitando suggestive argille erose dal tempo. Ai bordi di fiumi e torrenti, collinette-dune ricoprono le loro nudità rossicce di cespuglietti odorosi e attaccaticci. Chiazze di ulivi secolari tingono di pace e di assenze gl’insediamenti umani. Ogni ritorno è un crogiuolo di sensazioni contrastanti, un’immersione nella marea della mente: il freddo nelle case, le guance arrossate dal fuoco, le mani gelate, la voglia di farniente e di dormire accanto al camino, pernon svestirsi nelle camere gelate; le tavole imbandite, l’ospitalità assillante, i volti bruciati, ridenti, accoglienti, inglobanti; i saluti, i saluti, i saluti e le assenze… Tante assenze… ti aspettano agli angoli delle strade e ti portano per mano nella città dei ricordi, dove ogni selciato è un ritrovo… Le parole delle assenze sono buchi dell’anima. Un’assenza in particolare, ti attende, ti abbraccia e poi fugge, raminga. La senti. E’ sempre nel luogo in cui non sei. Una crisi di identità galoppante ti stritola in spire senza spazio né tempo. E vorresti dormire e dimenticare, dimenticarti, svanire, come luce nel cielo, come nebbia nel sole, come polvere d’oro. E vorresti non appertenerti e non essere nei volti e nelle cose, nei ritorni e negli addii, nel dono dato, nella porta accesa in attesa, nelle parole non dette, nelle pietre parlanti, nelle assenze presenti. Un foglio bianco invochi, dimensione in cui il passato non interferisca con il presente; porto franco ove non occorra resa; interparallelismo in cui liberare i destrieri pazzi che ti porti in cuore; alienazione libera e blasfema da iniettare come anestetico alla mente; libro su cui scrivere un nome che ti corrisponda, quando non sai più chi sei e vorresti essere isola senza porti e darsene, quando non sai più quali e quante persone si annidino in te né dove, quando getti briglie e basto nel dirupo. Gl’incontri con la terra si fanno umori, sentori, affetti, presagi, memorie, a s s e n ze da bere… fino ad assuefazione al bombardamento di gioie, dolori, miserie, tesori: much too much to be taken in one heart/trop pour un seul cœur/demasiado para un corazón solo/fazla bir kalp icin/sana kwa moyo moja/troppo per un cuore solo…” ('troppo per un cuore solo': inglese/francese/spagnolo/turco/swahili/italiano). *(Da Le travalicazioni dei promessi sposi del Pollino, di Bruna Spagnuolo- copyright by B. S.)

Le realtà che apparivano indiscutibili, come l'alternanza della luce e del buio, si sono imbattute nelle mappe intricate di tramonti sconosciuti e senza ritorno...
Ore o giorni poteva durare l'attesa dell'amico vento. I contadini sedevano sotto il sole e dormivano sull'aia, sotto le stelle, tendendo l'orecchio, per carpire l'anticipazione dei passi-alito. Giungeva il vento, infine; di notte o di giorno, le mani callose gli andavano incontro e, come formiche operose, con le forche, sollevavano nell'aria i loro sudori, affidandoli al vento come figli amati. Giudizioso e fidato, il soffio vitale separava la paglia e la pula dai chicchi preziosi . Le braccia stanche, ma grate, compivano gli ultimi gesti-preghiera e trasportavano il carico d'oro nelle casse-granaio...
Si è smarrita nelle stratificazioni del tempo l'umiltà che aveva sempre cibo per l'ospite. L'asinello non tritracca più le mulattiere ciottolose e impervie. Ha lasciato il suo raglio impigliato nelle stagioni delle primavere tenaci, delle tramontane taglienti e delle nevicate inclementi.
I molti mulini disseminati lungo la riva del Sarmento si sono estinti, nell'attesa vana dei passi che più non risuonano e dell'acquaio che più non incanala l'acqua del fiume nella loro direzione, perché possano animarsi e rumoreggiare, a turno, da monte a valle...
"L'acquaio si distaccava dal fiume e gli scorreva parallelo, raggiungendo i vari mulini e facendone girare le ruote di arenaria. Le chiuse, a monte di ogni mulino, venivano sollevate e lasciavano che l'acqua passasse da un canale all'altro, da un mulino all'altro, portando il suo gorgogliante messaggio di vita laboriosa. Un mulino rumoreggiava e sputava un getto d'acqua spumeggiante dalla frontale arcata in pietra o in mattoni; la valle taceva, attonita e ammirata. Il silenzio sopraggiungeva e il rumore scendeva più a valle, con sincronia sempre uguale e fedele. Uomini, asinelli e muli si affaccendavano attorno ai mulini e l'acqua formava la colonna sonora di un lungometraggio necessario, a tutti noto. Le filande gareggiavano con i mulini e si contendevano gli amplessi del poderoso fiume. Nessuno immaginava che un giorno l'acqua avrebbe cambiato patria e che gli andirivieni avrebbero disertato le rive del fiume." (Da Una leggenda chiamata Sarmento di Bruna Spagnuolo)

Torna dalla protostoria l'arte di intrecciare il grano e farne serti-trono votivi da portare con grazia e con cuore scevro da risentimenti/rancore. La valle se ne fregerà finché gli anziani sopravviveranno... Morti sono i tempi in cui erano le vergini a danzare con le spighe sul capo.

  • Estratto da Le travalicazioni dei promessi sposi del Pollino di B. S.:
    "In realtà, l’usanza della danza del grano si ricollegava tanto ad antichi magici riti orientali, quanto a manifestazioni messapiche e romane, di tipo profano, spesso legate alla poesia e al teatro.
  • In origine era stata appannaggio esclusivo di gesti sciamanici da tramandare come rituale segreto.
  • Con l’apporto della mitologia, era divenuta un rito affidato alle vergini sacerdotesse custodi del tempio, donatrici dei doni della terra e dei voti del popolo e intermediarie temute e rispettate tra l’uomo e la divinità.
  • Tra il II e il III secolo a.C., con l’arrivo dei Romani, l’usanza aveva subito trasformazioni legate agli abusi patrizi e alle credenze pagane, relegando le sacerdotesse nel ruolo di ancelle-schiave costrette ad eseguire riti–danze-canti per le autorità romane.
  • I gesti rituali della danza originaria erano morti con le generazioni che li avevano custoditi e che li avevano portati nella dimensione del vissuto scomparso, insieme al significato mistico e mitico ad essi legato.
  • Era rimasto il gesto, tramandato come necessità indomita di comunicare con la divinità e fu così che Angela lo sentì e lo visse in quel sei Agosto 1941.
  • La sua madrina, pur sapendo che Angela aspettava un bambino, fu irremovibile e pretese che Angela portasse il suo trono di messi. Il bel corpo di Angela non tradiva minimamente il suo stato e il sacerdote convenne che una giovane donna maritata come Angela fosse più pura di molte giovinelle e diede il suo benestare, benché la cosa non fosse proprio in linea con i suoi rigidi principi.
  • Il povero sacerdote si sentiva confuso e amareggiato, perché quell’andirivieni di soldati tra la valle e il mondo attraverso aveva portato una ventata di cambiamenti e di modernità talmente forte che egli non era riuscito ad arginare un inevitabile ammorbidimento della rigidità morale generale.
  • Egli stesso, a sua insaputa, era stato investito dalla esecrata ventata con tale forza da permettere a una donna maritata di portare in processione l’intreccio di messi dedicato alla Santa Vergine.
  • Uno stuolo di fanciulle dall’aria trionfante si strinse intorno alla sacra e preziosa icona, con le ondeggianti gregne dorate sospese sul capo come auree corone piumate.
  • Tra loro spiccavano le fanciulle di cultura albanese che sul capo portavano i ciriyi, fatti con grosse e lunghe candele disposte a basilica su grandi piatti rotondi e ornate con nastri e fiori multicolori.
  • Esse portavano alla Santa Vergine i voti della minoranza etnica albanese, stanziatasi in Val Sarmento nel ‘600, ma rappresentavano molto più di quanto i Sarmentani potessero sapere.
     
  • Il trono di candele aveva sostituito quello di grano, per balcanica influenza, nelle tradizioni messapiche delle genti venute dalla Troade e rimaste a vivere in Illiria ed era andato a riunirsi al trono di spighe, quando gli Albanesi, per sfuggire ai Turchi, si erano rifugiati su suolo italico ed erano giunti in Val Sarmento.
  • Le implicazioni storiche, etniche ed etnologiche contenute in quelle semplici usanze, che si incontravano, s’incrociavano e si sovrapponevano, erano straordinarie: i Turchi, provenienti dalla Troade e ormai fusi con la stirpe messapica, erano andati ad aggredire genti delle stesse origini e le avevano spinte a raggiungere le genti dimessapiche origini che nel secondo millennio a.C. avevano scelto di non fermarsi in Illiria e avevano raggiunto le spiagge italiche.
  • Tra difficoltà e differenze, la cultura albanese e quella sarmentana avevano cercato per secoli di vivere affiancate e, loro malgrado, si erano integrate, ma mai avevano sospettato di appartenere a un ceppo consanguineo.
  • Per assurdo, la guerra, che distrugge e separa, in quel caso, aveva operato il miracolo del ricongiungimento.
     
  • Le anziane donne vestite di nero strinsero il rosario tra le dita nodose e sibilarono con forza le loro Ave Maria, scambiandosi occhiate di disapprovazione, quando videro Angela dietro alla statua, tra le numerose adolescenti e le fanciulle in età da marito.
  • Avevano per Angela stima e simpatia, ma permetterle l’impudenza di portare lagregna dietro alla Madonna, dopo che si era maritata, era davvero troppo.
  • Guardandola però, le loro espressioni si addolcirono e le loro menti andarono alle giovinelle sintine, le fanciulle poco di buono, che erano più sfacciate delle donne maritate e accanto a cui Angela sembrava una fanciulla timida e casta.
  • Prima che la processione cominciasse, anche la più acida zitellona arcigna aveva compreso come mai il sacerdote avesse permesso che Angela portasse la gregna.
  • Con le scarpe nere basse, dalla cinghietta abbottonata di lato, l’ampia gonna nera che cadeva morbida fino alla caviglia, la camicetta bianca con il collo circondato da una balzina ricamata, i capelli intrecciati e avvolti intorno al capo e un’ombra triste tra le lunghe ciglia, Angela si sentiva terribilmente intimidita e goffa.
  • La gente cominciò a muoversi dietro alla statua e lei ebbe l’impressione che divenisse una specie di onda e che la conglobasse.
  • Con una mano alla dorata gregna che aveva sul capo, l’altra mano sul fianco e le sue movenze aggraziate, eleganti e leggere attrasse gli sguardi di tutti, ma non se ne avvide.
    Camminava fissando la sacra immagine e, intanto, aveva l’impressione di ricordare altri luoghi noti, altri canti, altri gesti; quando la processione si arrestò davanti alla cappella, che avrebbe accolto la Santa Vergine e l’avrebbe ospitata fino alla prossima festa e che sorgeva accanto al cimitero, i suoi piedi cominciarono a muoversi disegnando preghiere che non sapevano di conoscere.
    Il viaggio mentale, che l’aveva stordita al ballo di Carrera, la riafferrò. Non si avvide di coloro che la circondavano né degli sguardi fissi sui suoi bei fianchi; si mosse con armoniose evoluzioni conturbanti e caste allo stesso tempo, mentre con le braccia pareva suggerire il movimento del vento, della pioggia, del sole, delle nuvole, della luna, delle stelle e degli stormi in volo. Ebbe la sensazione di far parte di uno stuolo leggiadro di fanciulle dagli splendidi capelli lunghi e scuri adorni di profumati fiori e cominciò a seguirne i movimenti fatti di passi lievi e brevi e di immagini che sembravano restare sospese nel vento, come chiamando, come in attesa, come invocando.
    Ai confini dell’inconscio Angela percepiva come un disagio leggero perché lei non indossava la bianca tunica velata delle altre fanciulle e non aveva i piedi nudisulla riva sabbiosa del fiume… Il fiume… Perché le sembrava di essere sul fiume? A quel pensiero Angela provò una fitta dolorosa nel petto e si sentì invadere da una rigidità improvvisa, mentre un desiderio di sonno e di oblio pareva risucchiarla in un luogo buio nel quale non voleva andare… Non più…
    La madrina la sfiorò e le tolse il trono di spighe dal capo, un silenzio più rumoroso di qualsiasi chiasso materializzò intorno a lei la presenza della folla, fugando quella sensazione di… di… Non ricordava di che cosa. L’aria assente del suo sguardo diafano fuggì dietro la timidezza spaurita di sempre e il candore del suo volto si colorì di rosso."

  Da Le travalicazioni dei promessi sposi del Pollino, di B. S., copyright by B.S: "Dalla preistoria della casa secolare piena di pace/ dal suo pavimento in cotto slivellato/ dai suoi muri a calce/ dalla sua assenza di tentacoli Massmedia, il suono di clarini-sassofoni-accordi di banda musicale si percepiva come preludio di festa. Virgilia ritrovò, dietro le palpebre ancora assonnate, l’infanzia del vestitino nuovo e delle scarpe profumate di fiera, da sfoggiare, togliendo col dito ogni piccola macchia, l’indomani alla processione e al passeggio gremito di passi-musica-gelati. La pelle d’oca delle tristezze-nostalgia si vestì di colori e di sole, ma non seppe rubare al tempo il batticuore e lo stupore dell’infanzia nascosta in qualche dove. In crescendo, la musica disegnò l’attesa delle messi intrecciate e delle loro danzatrici del passato, portando dietro porte-muri-menti la consapevolezza dolente dei grappoli-amore modificati dal passaggio della falce di altre stagioni. Al suono della banda che, come nel 5 agosto di ogni anno, passava di buon mattino attraverso i vicoli antichi, la storia tornò a ripetersi… Cucita al linguaggio della realtà trasfigurata, l’adolescente sarmentana affidò ancora una volta al balcone il languore dei suoi struggimenti senza nome. I sospiri vestiti di nero sorressero i loro cuori trafitti dal ritorno della banda in assenza dei passi per sempre andati. La promessa sposa accarezzò con le ciglia il ritorno futuro della banda nel suo sogno realizzato.

Noepoli, 6 agosto. Festa della Madonna Di Costantinopoli. 'La festa è tornata! La processione è passata. Non è avvenuta la danza del grano (quest'anno): è morta la vecchietta che intrecciava le spighe'. C’era di nuovo quel lamento, come un richiamo d’aquila nell’aria, perché…? /.../La gente si salutava e si raggruppava, chiacchierando, sorridendo e ridendo. Tutti si mostravano interessati a tutto con un luccichio innaturale negli occhi e, intanto, ognuno osservava l’altro in cerca dei segni del tempo, cercando inconsce smentite alla caducità della vita. Nessuno si spingeva fino a chiedersi il perché dell’irrequietezza e del bisogno di muoversi tra la folla e di vedere tutti coloro che erano stati lontani per anni o per almeno un anno. Ignorata, dilagava l’inconscia ansia di capitalizzare la realtà prima che essa svanisse nel già accaduto, nel passato e nel non ritorno.

  Il sentore di irrimediabilità del passare del tempo aleggiava su quella festa sin dal giorno della fiera. S'insinuava nelle prime note della banda che passava tra le case. Alitava sulle bancarelle dei venditori che apparivano spaesati nel contesto rimpicciolito di quella fiera che non aveva più, come nel passato, il suo prolungamento nei campi tra gli animali in vendita, magari infiocchettati. Si condensava nei passi dei rarissimi campagnoli che si recavano alla fiera accarezzando la nostalgia del passato in cui le mulattiere erano state affollate di voci e di colori. S’incistava nel folclore della festa, mentre la processione si snodava come un serpente variopinto dal punto più alto a quello più basso del paese e lungo la strada rotabile, fino al cimitero. Tremava nei canti religiosi, nella musica, nei fuochi pirotecnici e in ogni tentativo di far rivivere le tradizioni. S’ingigantiva nelle ultime ore di festa del sei Agosto.

  Quella notte, alla Torretta, ognuno contava le ore che mancavano alla fine della festa e cercava di afferrarle, di tenerle strette e di non lasciarle andare. Gli anziani dissimulavano come meglio potevano il timore di non rivedere la festa dell’anno successivo e di non trovarsi lì ad accogliere i loro cari che sarebbero tornati da lontano. Gli emigranti pensavano al loro bagaglio già pronto, mentre contavano le assenze tra i volti accoglienti e si chiedevano quante altre voci, quali andature, quanti sguardi familiari sarebbero mancati al prossimo appello di quella festa secolare… E tutti sorridevano o ridevano con esagerata allegria e parlavano con la voce quasi alterata di chi, invece di ridere, potrebbe piangere".

Sono partiti i marinai senza la nave, stivando con cura, dentro la valigia di cartone, i particolari del mondo del ricordo (che non avrebbero più ritrovato...)

chiedo venia se non correggo le foto sovraesposte (mi piacciono, per la loro atmosfera onirica).

La parte antica della vecchia 'nave' si fa deserto-nido per il vento... La nave nuova ha chiglia troppo estesa ed è arenata nell'inimicizia con le stornellate (che un tempo affollavano le distese di sarchiature giovani, increspate dal noto come onde sfumate)...

Tutto è cambiato (con le opzioni tristi della globalizzazione), eppure tutto è uguale... Il cielo di ponente s'incendia ancora, quando il sole cala e spande attorno polvere di sogni... Ci sono giorni in cui l'aria è gelata e il cielo è così terso che il tramonto a stento lo colora. Il freddo, allora, profuma di cime e di bianche nevi e innalza gridi di nibbio e di poiana...

La paura del temporale nero come gli uragani racconta ancora storie delle leggendarie figure che sfidavano il tuono e si opponevano alla tempesta, recitando formule scongiuranti e sottomettendo gli elementi che "giravano, giravano, rumoreggiavano e, non osando abbattersi sul raccolto prezioso, andavano a scaricare sui monti la loro ira biblica spaventosa..."

“La mia valle mi attende e, come sempre, mi annienta (con la sua vastità di orizzonti immortali). I rumori sono voci secolari (di un calendario librato sui millenni immutati). Le cicale riempiono i silenzi perquisiti dal vento (come i miei capelli e la chioma degli ulivi meditanti). La vastità del Sarmento lancia grida di siccità verso il Pollino indifferente (coltivazioni in pieno letto hanno rimpicciolito gli argini del fiume). I calanchi lunari non si stagliano più su acque minacciose e turbolente. L’antico fiume completamente domato sogna il ritorno delle callose mani, che si accostavano agli argini ombreggiati con preghiere solerti più grandi della loro sfida. Di cresta in cresta, le valli contigue ripetono l’eco di invasioni antiche (catturato dal sole, dorme nell’aria l’urlo del guerriero). Il tempo si è fermato (la terra paziente non è ancora stanca di ferite e cicatrici). I voli delle rondini sono tornati (da quando i corvi che avevano scacciato i colombi-che avevano scacciato le rondini hanno fatto dei garriti una bandiera)… Come colonie di insetti, i paesi si annidano sulle alture (le colline macchiate di stoppie e di ispide chiome esplodono di tenacia nell’assenza dell’acqua)… Nell’erba secca ogni rudere si fa presenza della storia passata; nell’abitato ogni vicolo lastricato si fa ritrovo dei passi che non risuoneranno e degli affetti che mai più imbastiranno sorrisi per i nuovi arrivati… (questa mia valle ha ogni anno più ricordi accesi). I cieli di velluto immortalano i racconti saggi dei nonni (i nipotini attendono i sogni narrati con occhi sgranati). Gli assenti parlano nel vento al cuore attento (i volti incartapecoriti perpetuano di questa terra il fascino fatale). Ogni erba pare ingiallita dal destino (gli sguardi si ammalano di anacronismi senza ritorno). L’asinello tritracca ancora l’antica mulattiera; è monumento al ciò che era la frescura degli orti di fiumara (nel divorzio da discariche abusive). Dissolvenza del vento di ponente, mi spargo nell’aria e… immortale divento.” (Da Le travalicazioni dei promessi sposi del Pollino- copyright by B. S.)

Chi torna cerca i percorsi antichi delle vite vissute a fil di respiro, nella completa sintonia con le stagioni. Lo scalpiccio delle orme impresse nella polvere antica risveglia le notti piene di ululati e di luna, i silenzi dei bianchi fiocchi abbondanti che si avvolgevano su uomini e cose come massicce coperte piumose, i tripudi delle primavere precoci, le preghiere trepidanti per il buon seme messo a dimora, le strategie della sopravvivenza creativa e sempre umana, la solidarietà solerte e sincera di quando... "Le case erano un rifugio contro le intemperie, le stanze poche e affollate e le cucine contenevano soltanto uno stipo che odorava di pane. Ogni volta che la tavola veniva imbandita, gli angeli si mettevano in inocchio e pregavano, perché nessuno si strozzasse con i bocconi della fame. Fanciulle solerti sparecchiavano in fretta, perché gli angeli non restassero in ginocchio accanto alla tavola apparecchiata: era peccato lasciare gli angeli in ginocchio per incuria o per pigrizia. Attorno alle tavole frugali, menti assorte accarezzavano i maggesi fumanti delle miserie dignitose. Calli gentili riponevano avanzi preziosi, tenere dita contavano briciole dorate, aspettando le pignatte borbottanti del nuovo domani. Palpebre pesanti e parole stanche rassettavano i giacigli dei risvegli prematuri". (Da Le Travalicazioni dei promessi sposi del Pollino, di B. S.- copyright by B. S.)
Chi è rimasto ha assistito , con occhi prima ammirati poi sempre più disorientati, alla graduale trasformazione e alla sparizione della vita rurale... I vecchi hanno visto i figli inurbarsi e hanno dovuto seguirli (perché arriva un tempo in cui la sedia si fa scranno e lo scranno sedia, come dice un antico proverbio sarmentano), abbandonando le case (per costruire le quali i loro padri erano emigrati più di una volta nell'America grande o nell'America piccola) e vedendole trasformarsi in casolari desolati incancreniti dalle intemperie...
Da Le travalicazioni dei promessi sposi del Pollino (copyrigut by B. S.):
  • Rosa e Giacomo erano felici. Nessuno avrebbe potuto desiderare di più: avere una figlia femmina era una fortuna, perché si sarebbe presa cura dei genitori durante la loro vecchiaia; vederla maritata con onore era una doppia fortuna; vederla sposata a chi non la portava lontano e la faceva vivere in condizioni agiate era una tripla fortuna. Loro che avevano avuto quella tripla fortuna per tre figlie erano davvero stati benedetti da Dio, ma Rosa e Giacomo non sapevano che la loro realtà bucolica era destinata a scomparire, stravolgendo la vita di tutti i suoi personaggi, con la nascita della nuova era che sarebbe rimasta a cavallo tra la morte dell’era antica e la nascita dell’era tecnologica.
  • L’era in cui i padri sapevano che cosa avrebbero fatto i figli e dove avrebbero vissuto era finita. Il contesto identificante delle campagne cominciò a cambiare e i contadini scoprirono che il detto casa quanto puoi stare, terre quante ne puoi comprare non era più del tutto valido e che, anzi, si andava gradualmente invertendo nei paesi. Le preziose terre tanto ambite, tanto faticosamente conquistate e tanto amorevolmente curate dai padri cominciarono a venire abbandonate dai figli, che presero direzioni completamente diverse, si allontanarono e si inurbarono.
  • Il nuovo fermento portò le due figlie minori di Rosa a inurbarsi. La prima figlia rimase, nella sua bella casa, ormai ritenuta dagli altri soltanto una casa di campagna senza comodità, e non volle inurbarsi: fedele al volere e al carattere del suo taciturno e pacifico marito, lasciò che le sue figlie seguissero l’andamento generale e se ne andassero in città e, quando la figlia minore morì di tumore, si immerse sempre più profondamente nelle atmosfere oblianti del lentisco circostante.
  • Il fratello di Giacomo si trasferì in un’altra regione, dove i figli avevano comprato una fattoria e dove morì in breve tempo con la moglie.
  • Rosa e Giacomo videro il loro mondo trasformarsi in un luogo di fantasmi e di ricordi. Del seminterrato abitato dai vecchi e dai conigli e delle mandrie di buoi non restava che il ricettacolo vuoto.
  • Chiusa era la porta della casa accanto, che aveva trasformato il loro casolare in casa del vicinato e aveva sempre riempito un vuoto che d’improvviso si era materializzato. Senza gli andirivieni dei giovanotti,che conducevano i buoi al pascolo o all’abbeverata e li riconducevano nei recinti, dei genitori che partivano o tornavano con l’asino o si affaccendavano nei campi e ne ritornavano con rumorosa stanchezza, quel luogo era diventato deserto. Quella che era stata una casa ai piedi di un’aia indaffarata, piena di chiacchiere, di risate e di vita era diventata una casupola isolata, triste e silenziosa.
  • Di tanto in tanto, Rosa e Giacomo risalivano l’aia, attraversavano il campo e il fossato di loro proprietà, entravano nella proprietà della figlia e si recavano a farle visita, uno alla volta o tutti e due insieme, per stare qualche ora in compagnia, ma Rosa non doveva più alzarsi al canto del gallo, per recarsi a Senise a vendere la legna e Giacomo non doveva più andare al bosco a far legna o nei campi ad arare, a pascolare o a lavorare. La vita era diventata strana e non era come l’avevano immaginata.
  • La folla di figli, nipoti e pronipoti che avrebbero dovuto ritrovarsi in quelle terre nelle ricorrenze stagionali, a seminare, a sarchiare, a mietere, a trebbiare, in una gricillia di voci e di allegria che avrebbe dovuto riempire di orgoglio e di gioia il cuore degli anziani e indurli a trasferire ai giovani la loro proprietà con soddisfazione e con la convinzione di aver sofferto per un nobile fine e di essersi sacrificati per la felicità degli eredi, era fuggita in altri luoghi inseguendo altre mete.
  • Il vuoto del loro animo buono era abitato dall’altruismo e la tristezza dell’abbandono completo dei loro sudori e di ciò che era tutta la loro vita si stemperava nel conforto che in paese le figlie si erano fatta una posizione.
  • La vicinanza della prima figlia si dimostrò presto a portata di gambe più energiche e meno provate dagli anni e dagli stenti; Rosa e suo marito si trasferirono nel paese in cui si erano inurbate le due figlie minori.
  • Per alcuni anni ebbero una casa in affitto e furono liberi di ospitare chi volevano e di godere della compagnia di tutti coloro che ancora li cercavano e si recavano a far loro visita, memori dei bei tempi che sembravano ancora a portata di parola, di pensiero e di ritorno al passato. Gli anni imparentati con il passato tramontarono irrimediabilmente, infine, e Rosa e Giacomo non poterono più decidere dove e come vivere.
  • Le figlie, che abitavano in due bellissime case nuove affiancate, decisero per loro. Un garage bene adattato divenne una casa più di lusso di quanto mai la casa di campagna fosse stata, ma non fu mai la casa per antonomasia che era rimasta nel loro passato.
  • Il focolare, il nido degli affetti e del calore, il riparo contro le intemperie, il conforto nelle bufere fischianti e gelate, il rifugio sicuro, la casa, la sicurezza più grande e più bella che ci fosse era rimasta con le ombre delle assenze e con i ricordi, nel ritmo frenetico di una vita piena come un alveare, per sempre incisa nei percorsi abbandonati del bosco, del torrente e del fiume.
  • Finito per sempre era il tempo in cui Rosa aveva mille cose da fare, in cui era sempre tanto indaffarata da non trovare un minuto per legarsi il fazzolettone in testa e da doverlo portare appoggiato sul capo con le cocche rivoltate in attesa di una pausa favorevole. Tramontata inesorabilmente era l’era in cui tutto e tutti in famiglia dipendevano da lei, in cui le sue mani e le sue gambe erano la voce del suo cuore grande che tutto poteva e tutto risolveva.
  • La sua natura forte e battagliera non si arrendeva e non si rassegnava. Quandunque la moglie di suo fratello giungeva, accompagnata dalle figlie o dal figlio che tanto le erano legati, Rosa trovava il modo di intrufolare un pacco di pasta o di biscotti nella borsa di qualcuno di loro, indifferente alle proteste imbarazzate del proprietario della borsa di turno.
  • Lei che aveva sempre avuto qualcosa da donare, accoglienze da fare, ospitalità da inventare, non poteva accettare di ricevere visite come una vecchia inutile, senza arte né parte e senza doni da offrire. I prodotti industriali, che potevano andare dalla saponetta alla caramella, non cambiavano il concetto del dono, per chi, come Rosa, era costretto a vivere in un contesto non suo. Il contesto, appunto, era quello che la rimpiccioliva.
  • La sua ragione non lo sapeva, ma il suo inconscio urlava una disperazione profonda e senza fine: dov’erano i tempi in cui lei avrebbe dovuto essere la nonnavisitata e riverita, l’anziana zia tra molti nipoti, la roccia saggia a cui parenti e amici recavano rispetto e chiedevano consiglio, colei a cui tutti si volgevano per conforto e direttive, in nome dell’esperienza e dei molti sacrifici affrontati con onore e con stoica resistenza?
  • L’amore per i suoi cari era la voce più forte e lei non sapeva dare nome al sospiro prolungato che le sollevava il petto dietro ogni parola. La realtà contadina, che era sembrata così solida, con tutti i personaggi al posto giusto fino al momento della morte, non poteva essere sprofondata nel nulla.
  • Le persone che avevano condiviso le aurore, i tramonti, le brezze e le tramontane, che avevano accompagnato i conoscenti dal battesimo, al matrimonio, al funerale attraverso il profumo gelato della neve, l’aria dolce profumata di miele della primavera e l’odore del sole tra le messi e le stoppie, erano ancora vive e ancora si svegliavano e si addormentavano con lo stesso fruscio di vento e di acque nelle stesse campagne.
  • Le dava conforto pensare ai casolari ancora intatti e ancora abitati, là dove erano sempre stati, ma sorvolava sul fatto che in essi fossero rimasti soltanto i vecchi e che non vi sarebbero stati per sempre. La cosa a cui non poteva pensare e che doveva assolutamente evitare era l’erba sulla soglia della sua casa abbandonata, come sulla soglia di un tugurio visitato dalla disgrazia.
  • L’erba era bellissima nei campi, ma sui gradini delle case e sui ballatoi dei balconi era portatrice di messaggi funesti e di presagi di morte. Quante volte aveva sentito lanciare contro qualcuno l’anatema ti voglia crescere l’erba dinanzi alla porta e si era sentita rattrappire le budella, pensando che una tale cosa non si potesse augurare neppure al peggiore nemico! Si ripeteva che sua figlia, di tanto in tanto, andava certamente ad aprire la casa e che il suo passaggio era sufficiente a prevenire la crescita dell’erba.
  • Non era possibile che lasciasse radicare le erbacce sulla soglia della casa in cui era nata, cresciuta
  • e vissuta fino al matrimonio! No, tutto non era perduto; erano sempre le terre che davano pane, come potevano essere trascurate e dimenticate per sempre?
  • Prima o poi tutti sarebbero tornati a vivere in campagna come nel passato. Non era forse vero che i mariti delle sue figlie ancora seminavano e raccoglievano il grano? Ogni anno ne seminavano un po’ di meno e, alla fine, contavano soltanto sulle entrate derivanti dalle attività urbane, ma la speranza era l'ultima a morire e Rosa era convinta che i bei tempi sarebbero tornati. Intanto, però, sentirsi inutile e messa da parte era triste.
  • La vecchiaia era amara. I nipoti la salutavano sì, ma la vedevano appena e, forse, non sentivano neppure ciò che lei diceva, presi da cose che ritenevano altro incomprensibile e avulso dai nonni. Le figlie, ogni tanto, discutevano i turni dei loro doveri nei confronti dei genitori e qualcosa nel cuore di Rosa si contorceva, là dove la sua inesauribile fonte generosa del dare non si era mai essiccata.
  • C’erano tre case, tre cuori, tre amori che avrebbero, invece, dovuto contendersi il privilegio di avere con loro i propri genitori, tra i propri bambini, tra i propri figli adulti, a capo, a piedi e in mezzo in tutti gli eventi gioiosi, seri o importanti di ogni giorno e di ogni anno. Quando il sentore latente di tale dolorosa omissione divenne consapevolezza, la vecchiaia, quella invalidante a livello di ascendente e di posizione di privilegio, giunse e giustiziò la grandezza d’animo e il valore umano e civile di una donna forte e senza rivali.
il cimitero: "la via dei cipressi", "in Val Sarmento//The way of all flesh" (la via di ogni carne), per gl'Inglesi

"Sfilano i visi, le cose e le case, la vegetazione familiare e silenziosa, gli spazi noti

e il cimitero-paese degli assenti, le erbe arse, le colline pesanti di verde assetato, le cicale stanche dei ricordi…"

(Da Le travalicazioni d. p. s. d. Pollino, di B.S.)

Le erbe coraggiose (i CamarrunI) sfidano ancora le timpe (i burroni) e il lentisco custodisce i segreti di millenni fa...

"Lo sguardo di lei parve impigliarsi nei cespuglietti turgidi dei camarrunI, le piante grasse abbarbicate alle argille erose e vincitrici delle temute siccità e delle gelate severe. Quelle piantine lattiginose e urticanti, che erano comuni ad altri luoghi-altri lidi del suo passato, calamitarono la mente di Eliade, ma quelle che parvero legarla a quella valle e, in particolare, a quel luogo, furono dei cardi belli come piccoli soli caduti sulla terra. Leuco notò il suo sguardo e... "

"La barca raggiunse il grande fiume e ne percorse un breve tratto; quando venne a trovarsi in linea con la dimora dei defunti, Leuco fece un cenno e la barca venne tirata dolcemente a riva. Cheones scese, prese in braccio la sua defunta sposa e si avviò su per il ripido pendio; quando giunse alla piccola grotta, le donne d’alto rango gli si fecero incontro, per prendergli Eliade dalle braccia: al suo diniego, due uffuciali fecero il gesto di trattenere le sue braccia robuste, per obbligarlo a cedere la defunta; allora egli parlò con calma e determinata autorità e li fece indietreggiare, portando di persona la sua amata al letto estremo. All’interno della piccola grotta (dissimulata da una folta macchia di lentisco), le donne avevano preparato il charpoy regale. La fedele Tiala precedette Cheones. Uno stuolo di ancelle la seguì: ognuna di loro portava un oggetto importante per la sepoltura: gl’indumenti che Eliade indossava quando era spirata, un materassino ripieno delle piume degli uccelli che lei stessa aveva cacciato, un cuscinetto ornato con i merletti che lei aveva tessuto, pane e acqua. Cheones si fermò davanti al charpoy, depose Eliade e, voltandosi verso Tiala, disse: “Prepara la mia sposa per il suo riposo!”

Tiala fece un cenno e le ancelle si disposero in cerchio intorno alla defunta, affaccendandolesi attorno, come ogni sera nell’ora del riposo. La sollevarono, misero gli ultimi indumenti che lei aveva usato in bell’ordine sulle funi del charpoy, li ricoprirono con il materasso di soffici piume e con tessuti preziosi ricamati in oro, poi ve la deposero con movimenti leggeri.

Tiala controllò che ogni piega del magnifico vestito fosse in ordine e che la defunta avesse il busto sollevato e appoggiato ai cuscini, come nelle ore in cui riposava senza dormire. Controllò che i capelli fossero ben pettinati, poi li intrecciò, partendo dalla fronte, in una treccia multipla che si allargava a tutta la testa, prima di continuare come treccia normale per tutta la lunghezza dei capelli. Infine, annodò la treccia a forma di nastro dietro la nuca, prese il piccolo cuscino orlato di merletti dalle mani della terzultima ancella e lo mise sotto la nuca della sua signora, in cima ai cuscini dorati. La fedele dama, a quel punto, fece cenno alle ultime due ancelle di deporre il pane e l’acqua, s’inchinò e indietreggiò, con il volto rigato di lacrime, dopo aver nascosto nell’abito di Eliade il coccio del piccolo vaso: aveva cambiato idea e non avrebbe conservato per la piccola Egea quel simbolo di sofferenza. Cheones depose un’ultima carezza sul volto e sui capelli della sua amata e così parlò: “Dormi, mia adorata. La natura ti è amica e non oserà sfigurare la tua immensa bellezza; tra poco le vergini danzeranno ancora per te; penserò io a sorvegliarle, perché non trascurino nessun elemento della natura. Sei bella, mia amata, bella, come mai corpo mortale fu su questa terra e così resterai, te lo prometto. Oh, Dèi, io vi sfido: non deturpatela o avrete la maledizione mia e di tutta la mia numerosa stirpe passata e futura! Se non la deturperete, io, Cheones, il re guerriero, vi prometto in pegno la mia forza e la mia virilità che, oggi qui, deporrò nella terra, con la mia leggendaria sposa! Dormi, mia amata, nessuno oserà disturbarti”. Le parole di Cheones caddero e si diffusero tra i suoi sudditi come serpenti e passarono tra le file dei guerrieri, gelando il sangue nelle loro vene. La gente parve volersi fare piccola e sparire; quando i dignitari giunsero, portando una moneta da un obolo, su un rosso cuscino frangiato d’oro, Leuco avanzò timidamente verso il suo sovrano. Cheones distolse lo sguardo dal volto della defunta e si rabbuiò: “No! Non deturperete la bellezza della mia sposa, mettendole l’obolo in bocca, come se fosse un cane! Se il suo rango non fosse onore sufficientemente grande per la barca di Caronte, la bellezza di Eliade sarà un privilegio talmente grande che egli dovrà traghettare senza compenso tutta la nostra stirpe, da qui all’eternità! Da oggi e per sempre non si metta più obolo in bocca ai nostri morti!”

I dignitari indietreggiarono, a testa bassa, provando costernazione per quell’innovazione, dolore per il loro re e pietà per la dolce Eliade che, nonostante il suo rango, non avrebbe avuto di che pagarsi la traversata estrema. Tutti sapevano che Caronte respingeva i vivi, gl’insepolti e coloro che non potevano pagare la traghettata. Gli astanti trassero un sospiro di sollievo, quando Leuco depose il cuscino scintillante, su cui era appoggiato l’obolo, ai piedi della defunta e mise nella sua mano un ficaruolo di pelle pieno di argoria(1). Era giusto che chi non aveva versato in condizioni di indigenza in vita, non vi si trovasse neppure in morte e che la posizione sociale fosse chiara anche tra le ombre. La collera di Cheones esplose di nuovo, quando Leuco stese la mano, per staccare la grossa lacrima degli dèi dal collo di Eliade: “Non osare toccarla! Se gli occhi magnifici, che facevano invidia alla bellezza del cielo d’estate, non hanno più luce, che muoia per sempre la luce!”

Il popolo rabbrividì, a quelle parole blasfeme, volte a rafforzare il buio, e al pensiero di quella grossa lacrima luminosa relegata nel buio. I sudditi si sentirono invadere da un’inquietudine insopportabile, sapendo che relegare nel buio la luce racchiusa nelle lacrime degli dèi era un delitto e che gli dèi punivano chi ingenerasse squilibri nell’eterno equilibrio tra luce e ombra, tra bene e male. Cheones salì sulla piccola altura, sopra la grotta, e sorvegliò la bianca riva del fiume, dove le vergini scalze e con i capelli al vento, erano schierate. Sul capo portavano serti di messi dorate, intrecciati a forma di trono. Stavano immobili, come statue erette nel sole. Il suono della conchiglia riempì la valle con la sua eco di luttuosa aspettativa e di mistero: la valle seppe che la leggendaria Eliade era pronta per la traversata estrema e le vergini seppero che il re era al suo posto di osservazione. Come fiori mossi da un unico soffio di vento, cominciarono a muovere passi di danza sulla sabbia cosparsa di petali profumati. Leggere, come libellule senza peso, cominciarono a danzare e ad emettere mormorii votivi tristi e soavi. La gente si strinse ai propri cari, pensando che quel giorno pure le pietre della via restavano acchiassicate, agghiacciate. Mentre i sudditi prostrati, chiedevano perdono agli dèi per il comportamento blasfemo del loro re pazzo di dolore, le vergini sembrarono prendere il volo, come bianche farfalle leggere. Disegnarono saltelli di numero pari, usando le braccia come ali, e mormorarono: “Oh, aria, soffia benevola, tieni lontana la morte dai vivi e non decomporre il corpo leggiadro della nobile Eliade!”

Ondeggiarono, come verdi campi di grano nel vento, con passi laterali che avanzavano e regredivano, accompagnati da corpi e braccia flessuosi come giunchi, e mormorarono: “Oh, vento,canta inni di vita, a dispetto della morte, e narra a questa valle, a tutte le valli e a tutte le generazioni future della bellezza della leggendaria Eliade!”

Fecero ruotare le braccia, le gambe, i corpi come girandole e mormorarono: “Oh, sole, splendi sugli armenti e sulle messi e sul nome di Eliade, perché mai venga dimenticato!”

Disegnarono con i piedi le stelle e con le mani i raggi di luna e recitarono: “Oh, luna, non disertare mai la nostra valle e il luogo in cui Eliade è sepolta!”

Sembrarono alberi conficcati nella terra, ebbero mani vibranti come rami e mormorarono: “Oh, pioggia, cadi lontano dalla sua bellezza! Va’ su pascoli e raccolto e rispetta colei che aveva voce più dolce delle tue liquide gocce di vita”.

La natura parve unirsi alle vergini, con un concerto tutto suo e la folla respirò piano, mentre gli alberi stormivano, il vento mormorava tra case e persone, gli uccelli turbinavano in voli e canzoni e l’acqua del fiume pareva essere piena di una folla che borbottava, scalpitava, crepitava, rideva e piangeva con voce cupa e sommessa o limpida e argentina; quando le vergini tacquero, tutto tacque e un silenzio irreale scese sulla valle. Le vergini biancovestite, allora, si schierarono a forma di stormo pronto al volo e, vibrando sulla punta dei piedi, con le braccia che battevano l’aria come ali, si diressero verso la piccola caverna della sepoltura; con i serti di messi in equilibrio sul capo,parevano creature eteree coronate, pronte a decollare per la volta del cielo. Le truppe dei giovani guerrieri, a breve distanza, marciavano in file serrate, come ad assicurarsi che le fragili creature giungessero a destinazione con il loro dono prezioso. Giunte alla tomba, le fanciulle entrarono a turno e deposero il loro dono intorno alla defunta Eliade, che pareva sorridere in mezzo a quei troni di spighe. ( Da Il destino ti abita di Bruna Spagnuolo -copyright by Todariana ed Eurapress editrice)

(1) denaro/monete in lingua messapica (come risulta dalla testimonianza rinvenuta a Brindisi e messa insieme prima da Deecke e Torp e poi da Ribrezzo e pubblicata dalla Treccani come probabile “decreto monetario o bulé dei Brundisini”).