Bruna Spagnuolo
VAL SARMENTO
© by Bruna Spagnuolo
Si avvicendano le generazioni, inVal Sarmento e le ginestre sono sempre là, tempestate di gocce di sole, vestite d'oblio e d'eterno... Erano piene di api e di canzoni, un tempo... Tacciono rumorosamente, ora, meditando sull'assenza dei ronzii... e sui presagi delle api che non tornano... |
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*-Primavera in Val Sarmento- Alberi bianchi, alberi spinosi, alberi di un ventoso rosa tenue o di un orgoglioso rosa arrossato si alternano a barbe di piantaggine simile a giunco, a tappeti di erbetta vellutata e ondeggiante, a orli di pruni, biancospini, erica, su cigli e dirupi. Qualche pero prepara il suo artritico scheletro a nutrire bianchi fiori e simbiosi di vischio. Come piccole comunità sagge, le ginestre consultano l’eternità sul destino dell’uomo, abitando suggestive argille erose dal tempo. Ai bordi di fiumi e torrenti, collinette-dune ricoprono le loro nudità rossicce di cespuglietti odorosi e attaccaticci. Chiazze di ulivi secolari tingono di pace e di assenze gl’insediamenti umani. Ogni ritorno è un crogiuolo di sensazioni contrastanti, un’immersione nella marea della mente: il freddo nelle case, le guance arrossate dal fuoco, le mani gelate, la voglia di farniente e di dormire accanto al camino, pernon svestirsi nelle camere gelate; le tavole imbandite, l’ospitalità assillante, i volti bruciati, ridenti, accoglienti, inglobanti; i saluti, i saluti, i saluti e le assenze… Tante assenze… ti aspettano agli angoli delle strade e ti portano per mano nella città dei ricordi, dove ogni selciato è un ritrovo… Le parole delle assenze sono buchi dell’anima. Un’assenza in particolare, ti attende, ti abbraccia e poi fugge, raminga. La senti. E’ sempre nel luogo in cui non sei. Una crisi di identità galoppante ti stritola in spire senza spazio né tempo. E vorresti dormire e dimenticare, dimenticarti, svanire, come luce nel cielo, come nebbia nel sole, come polvere d’oro. E vorresti non appertenerti e non essere nei volti e nelle cose, nei ritorni e negli addii, nel dono dato, nella porta accesa in attesa, nelle parole non dette, nelle pietre parlanti, nelle assenze presenti. Un foglio bianco invochi, dimensione in cui il passato non interferisca con il presente; porto franco ove non occorra resa; interparallelismo in cui liberare i destrieri pazzi che ti porti in cuore; alienazione libera e blasfema da iniettare come anestetico alla mente; libro su cui scrivere un nome che ti corrisponda, quando non sai più chi sei e vorresti essere isola senza porti e darsene, quando non sai più quali e quante persone si annidino in te né dove, quando getti briglie e basto nel dirupo. Gl’incontri con la terra si fanno umori, sentori, affetti, presagi, memorie, a s s e n ze da bere… fino ad assuefazione al bombardamento di gioie, dolori, miserie, tesori: much too much to be taken in one heart/trop pour un seul cœur/demasiado para un corazón solo/fazla bir kalp icin/sana kwa moyo moja/troppo per un cuore solo…” ('troppo per un cuore solo': inglese/francese/spagnolo/turco/swahili/italiano). *(Da Le travalicazioni dei promessi sposi del Pollino, di Bruna Spagnuolo- copyright by B. S.) |
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Le realtà che apparivano indiscutibili, come l'alternanza della luce e del buio, si sono imbattute nelle mappe intricate di tramonti sconosciuti e senza ritorno... | |
Ore o giorni poteva durare l'attesa dell'amico vento. I contadini sedevano sotto il sole e dormivano sull'aia, sotto le stelle, tendendo l'orecchio, per carpire l'anticipazione dei passi-alito. Giungeva il vento, infine; di notte o di giorno, le mani callose gli andavano incontro e, come formiche operose, con le forche, sollevavano nell'aria i loro sudori, affidandoli al vento come figli amati. Giudizioso e fidato, il soffio vitale separava la paglia e la pula dai chicchi preziosi . Le braccia stanche, ma grate, compivano gli ultimi gesti-preghiera e trasportavano il carico d'oro nelle casse-granaio... |
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Si è smarrita nelle stratificazioni del tempo l'umiltà che aveva sempre cibo per l'ospite. L'asinello non tritracca più le mulattiere ciottolose e impervie. Ha lasciato il suo raglio impigliato nelle stagioni delle primavere tenaci, delle tramontane taglienti e delle nevicate inclementi. |
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I molti mulini disseminati lungo la riva del Sarmento si sono estinti, nell'attesa vana dei passi che più non risuonano e dell'acquaio che più non incanala l'acqua del fiume nella loro direzione, perché possano animarsi e rumoreggiare, a turno, da monte a valle... | |
"L'acquaio si distaccava dal fiume e gli scorreva parallelo, raggiungendo i vari mulini e facendone girare le ruote di arenaria. Le chiuse, a monte di ogni mulino, venivano sollevate e lasciavano che l'acqua passasse da un canale all'altro, da un mulino all'altro, portando il suo gorgogliante messaggio di vita laboriosa. Un mulino rumoreggiava e sputava un getto d'acqua spumeggiante dalla frontale arcata in pietra o in mattoni; la valle taceva, attonita e ammirata. Il silenzio sopraggiungeva e il rumore scendeva più a valle, con sincronia sempre uguale e fedele. Uomini, asinelli e muli si affaccendavano attorno ai mulini e l'acqua formava la colonna sonora di un lungometraggio necessario, a tutti noto. Le filande gareggiavano con i mulini e si contendevano gli amplessi del poderoso fiume. Nessuno immaginava che un giorno l'acqua avrebbe cambiato patria e che gli andirivieni avrebbero disertato le rive del fiume." (Da Una leggenda chiamata Sarmento di Bruna Spagnuolo) |
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Torna dalla protostoria l'arte di intrecciare il grano e farne serti-trono votivi da portare con grazia e con cuore scevro da risentimenti/rancore. La valle se ne fregerà finché gli anziani sopravviveranno... Morti sono i tempi in cui erano le vergini a danzare con le spighe sul capo. |
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Da Le travalicazioni dei promessi sposi del Pollino, di B. S., copyright by B.S: "Dalla preistoria della casa secolare piena di pace/ dal suo pavimento in cotto slivellato/ dai suoi muri a calce/ dalla sua assenza di tentacoli Massmedia, il suono di clarini-sassofoni-accordi di banda musicale si percepiva come preludio di festa. Virgilia ritrovò, dietro le palpebre ancora assonnate, l’infanzia del vestitino nuovo e delle scarpe profumate di fiera, da sfoggiare, togliendo col dito ogni piccola macchia, l’indomani alla processione e al passeggio gremito di passi-musica-gelati. La pelle d’oca delle tristezze-nostalgia si vestì di colori e di sole, ma non seppe rubare al tempo il batticuore e lo stupore dell’infanzia nascosta in qualche dove. In crescendo, la musica disegnò l’attesa delle messi intrecciate e delle loro danzatrici del passato, portando dietro porte-muri-menti la consapevolezza dolente dei grappoli-amore modificati dal passaggio della falce di altre stagioni. Al suono della banda che, come nel 5 agosto di ogni anno, passava di buon mattino attraverso i vicoli antichi, la storia tornò a ripetersi… Cucita al linguaggio della realtà trasfigurata, l’adolescente sarmentana affidò ancora una volta al balcone il languore dei suoi struggimenti senza nome. I sospiri vestiti di nero sorressero i loro cuori trafitti dal ritorno della banda in assenza dei passi per sempre andati. La promessa sposa accarezzò con le ciglia il ritorno futuro della banda nel suo sogno realizzato. Noepoli, 6 agosto. Festa della Madonna Di Costantinopoli. 'La festa è tornata! La processione è passata. Non è avvenuta la danza del grano (quest'anno): è morta la vecchietta che intrecciava le spighe'. C’era di nuovo quel lamento, come un richiamo d’aquila nell’aria, perché…? /.../La gente si salutava e si raggruppava, chiacchierando, sorridendo e ridendo. Tutti si mostravano interessati a tutto con un luccichio innaturale negli occhi e, intanto, ognuno osservava l’altro in cerca dei segni del tempo, cercando inconsce smentite alla caducità della vita. Nessuno si spingeva fino a chiedersi il perché dell’irrequietezza e del bisogno di muoversi tra la folla e di vedere tutti coloro che erano stati lontani per anni o per almeno un anno. Ignorata, dilagava l’inconscia ansia di capitalizzare la realtà prima che essa svanisse nel già accaduto, nel passato e nel non ritorno. Il sentore di irrimediabilità del passare del tempo aleggiava su quella festa sin dal giorno della fiera. S'insinuava nelle prime note della banda che passava tra le case. Alitava sulle bancarelle dei venditori che apparivano spaesati nel contesto rimpicciolito di quella fiera che non aveva più, come nel passato, il suo prolungamento nei campi tra gli animali in vendita, magari infiocchettati. Si condensava nei passi dei rarissimi campagnoli che si recavano alla fiera accarezzando la nostalgia del passato in cui le mulattiere erano state affollate di voci e di colori. S’incistava nel folclore della festa, mentre la processione si snodava come un serpente variopinto dal punto più alto a quello più basso del paese e lungo la strada rotabile, fino al cimitero. Tremava nei canti religiosi, nella musica, nei fuochi pirotecnici e in ogni tentativo di far rivivere le tradizioni. S’ingigantiva nelle ultime ore di festa del sei Agosto. Quella notte, alla Torretta, ognuno contava le ore che mancavano alla fine della festa e cercava di afferrarle, di tenerle strette e di non lasciarle andare. Gli anziani dissimulavano come meglio potevano il timore di non rivedere la festa dell’anno successivo e di non trovarsi lì ad accogliere i loro cari che sarebbero tornati da lontano. Gli emigranti pensavano al loro bagaglio già pronto, mentre contavano le assenze tra i volti accoglienti e si chiedevano quante altre voci, quali andature, quanti sguardi familiari sarebbero mancati al prossimo appello di quella festa secolare… E tutti sorridevano o ridevano con esagerata allegria e parlavano con la voce quasi alterata di chi, invece di ridere, potrebbe piangere". |
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Sono partiti i marinai senza la nave, stivando con cura, dentro la valigia di cartone, i particolari del mondo del ricordo (che non avrebbero più ritrovato...) | |
chiedo venia se non correggo le foto sovraesposte (mi piacciono, per la loro atmosfera onirica). La parte antica della vecchia 'nave' si fa deserto-nido per il vento... La nave nuova ha chiglia troppo estesa ed è arenata nell'inimicizia con le stornellate (che un tempo affollavano le distese di sarchiature giovani, increspate dal noto come onde sfumate)... |
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Tutto è cambiato (con le opzioni tristi della globalizzazione), eppure tutto è uguale... Il cielo di ponente s'incendia ancora, quando il sole cala e spande attorno polvere di sogni... Ci sono giorni in cui l'aria è gelata e il cielo è così terso che il tramonto a stento lo colora. Il freddo, allora, profuma di cime e di bianche nevi e innalza gridi di nibbio e di poiana... |
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La paura del temporale nero come gli uragani racconta ancora storie delle leggendarie figure che sfidavano il tuono e si opponevano alla tempesta, recitando formule scongiuranti e sottomettendo gli elementi che "giravano, giravano, rumoreggiavano e, non osando abbattersi sul raccolto prezioso, andavano a scaricare sui monti la loro ira biblica spaventosa..." |
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“La mia valle mi attende e, come sempre, mi annienta (con la sua vastità di orizzonti immortali). I rumori sono voci secolari (di un calendario librato sui millenni immutati). Le cicale riempiono i silenzi perquisiti dal vento (come i miei capelli e la chioma degli ulivi meditanti). La vastità del Sarmento lancia grida di siccità verso il Pollino indifferente (coltivazioni in pieno letto hanno rimpicciolito gli argini del fiume). I calanchi lunari non si stagliano più su acque minacciose e turbolente. L’antico fiume completamente domato sogna il ritorno delle callose mani, che si accostavano agli argini ombreggiati con preghiere solerti più grandi della loro sfida. Di cresta in cresta, le valli contigue ripetono l’eco di invasioni antiche (catturato dal sole, dorme nell’aria l’urlo del guerriero). Il tempo si è fermato (la terra paziente non è ancora stanca di ferite e cicatrici). I voli delle rondini sono tornati (da quando i corvi che avevano scacciato i colombi-che avevano scacciato le rondini hanno fatto dei garriti una bandiera)… Come colonie di insetti, i paesi si annidano sulle alture (le colline macchiate di stoppie e di ispide chiome esplodono di tenacia nell’assenza dell’acqua)… Nell’erba secca ogni rudere si fa presenza della storia passata; nell’abitato ogni vicolo lastricato si fa ritrovo dei passi che non risuoneranno e degli affetti che mai più imbastiranno sorrisi per i nuovi arrivati… (questa mia valle ha ogni anno più ricordi accesi). I cieli di velluto immortalano i racconti saggi dei nonni (i nipotini attendono i sogni narrati con occhi sgranati). Gli assenti parlano nel vento al cuore attento (i volti incartapecoriti perpetuano di questa terra il fascino fatale). Ogni erba pare ingiallita dal destino (gli sguardi si ammalano di anacronismi senza ritorno). L’asinello tritracca ancora l’antica mulattiera; è monumento al ciò che era la frescura degli orti di fiumara (nel divorzio da discariche abusive). Dissolvenza del vento di ponente, mi spargo nell’aria e… immortale divento.” (Da Le travalicazioni dei promessi sposi del Pollino- copyright by B. S.) |
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Chi torna cerca i percorsi antichi delle vite vissute a fil di respiro, nella completa sintonia con le stagioni. Lo scalpiccio delle orme impresse nella polvere antica risveglia le notti piene di ululati e di luna, i silenzi dei bianchi fiocchi abbondanti che si avvolgevano su uomini e cose come massicce coperte piumose, i tripudi delle primavere precoci, le preghiere trepidanti per il buon seme messo a dimora, le strategie della sopravvivenza creativa e sempre umana, la solidarietà solerte e sincera di quando... "Le case erano un rifugio contro le intemperie, le stanze poche e affollate e le cucine contenevano soltanto uno stipo che odorava di pane. Ogni volta che la tavola veniva imbandita, gli angeli si mettevano in inocchio e pregavano, perché nessuno si strozzasse con i bocconi della fame. Fanciulle solerti sparecchiavano in fretta, perché gli angeli non restassero in ginocchio accanto alla tavola apparecchiata: era peccato lasciare gli angeli in ginocchio per incuria o per pigrizia. Attorno alle tavole frugali, menti assorte accarezzavano i maggesi fumanti delle miserie dignitose. Calli gentili riponevano avanzi preziosi, tenere dita contavano briciole dorate, aspettando le pignatte borbottanti del nuovo domani. Palpebre pesanti e parole stanche rassettavano i giacigli dei risvegli prematuri". (Da Le Travalicazioni dei promessi sposi del Pollino, di B. S.- copyright by B. S.) |
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Chi è rimasto ha assistito , con occhi prima ammirati poi sempre più disorientati, alla graduale trasformazione e alla sparizione della vita rurale... I vecchi hanno visto i figli inurbarsi e hanno dovuto seguirli (perché arriva un tempo in cui la sedia si fa scranno e lo scranno sedia, come dice un antico proverbio sarmentano), abbandonando le case (per costruire le quali i loro padri erano emigrati più di una volta nell'America grande o nell'America piccola) e vedendole trasformarsi in casolari desolati incancreniti dalle intemperie... |
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Da Le travalicazioni dei promessi sposi del Pollino (copyrigut by B. S.):
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il cimitero: "la via dei cipressi", "in Val Sarmento//The way of all flesh" (la via di ogni carne), per gl'Inglesi |
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"Sfilano i visi, le cose e le case, la vegetazione familiare e silenziosa, gli spazi noti e il cimitero-paese degli assenti, le erbe arse, le colline pesanti di verde assetato, le cicale stanche dei ricordi…" (Da Le travalicazioni d. p. s. d. Pollino, di B.S.) |
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Le erbe coraggiose (i CamarrunI) sfidano ancora le timpe (i burroni) e il lentisco custodisce i segreti di millenni fa... |
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"Lo sguardo di lei parve impigliarsi nei cespuglietti turgidi dei camarrunI, le piante grasse abbarbicate alle argille erose e vincitrici delle temute siccità e delle gelate severe. Quelle piantine lattiginose e urticanti, che erano comuni ad altri luoghi-altri lidi del suo passato, calamitarono la mente di Eliade, ma quelle che parvero legarla a quella valle e, in particolare, a quel luogo, furono dei cardi belli come piccoli soli caduti sulla terra. Leuco notò il suo sguardo e... " |
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"La barca raggiunse il grande fiume e ne percorse un breve tratto; quando venne a trovarsi in linea con la dimora dei defunti, Leuco fece un cenno e la barca venne tirata dolcemente a riva. Cheones scese, prese in braccio la sua defunta sposa e si avviò su per il ripido pendio; quando giunse alla piccola grotta, le donne d’alto rango gli si fecero incontro, per prendergli Eliade dalle braccia: al suo diniego, due uffuciali fecero il gesto di trattenere le sue braccia robuste, per obbligarlo a cedere la defunta; allora egli parlò con calma e determinata autorità e li fece indietreggiare, portando di persona la sua amata al letto estremo. All’interno della piccola grotta (dissimulata da una folta macchia di lentisco), le donne avevano preparato il charpoy regale. La fedele Tiala precedette Cheones. Uno stuolo di ancelle la seguì: ognuna di loro portava un oggetto importante per la sepoltura: gl’indumenti che Eliade indossava quando era spirata, un materassino ripieno delle piume degli uccelli che lei stessa aveva cacciato, un cuscinetto ornato con i merletti che lei aveva tessuto, pane e acqua. Cheones si fermò davanti al charpoy, depose Eliade e, voltandosi verso Tiala, disse: “Prepara la mia sposa per il suo riposo!” Tiala fece un cenno e le ancelle si disposero in cerchio intorno alla defunta, affaccendandolesi attorno, come ogni sera nell’ora del riposo. La sollevarono, misero gli ultimi indumenti che lei aveva usato in bell’ordine sulle funi del charpoy, li ricoprirono con il materasso di soffici piume e con tessuti preziosi ricamati in oro, poi ve la deposero con movimenti leggeri. Tiala controllò che ogni piega del magnifico vestito fosse in ordine e che la defunta avesse il busto sollevato e appoggiato ai cuscini, come nelle ore in cui riposava senza dormire. Controllò che i capelli fossero ben pettinati, poi li intrecciò, partendo dalla fronte, in una treccia multipla che si allargava a tutta la testa, prima di continuare come treccia normale per tutta la lunghezza dei capelli. Infine, annodò la treccia a forma di nastro dietro la nuca, prese il piccolo cuscino orlato di merletti dalle mani della terzultima ancella e lo mise sotto la nuca della sua signora, in cima ai cuscini dorati. La fedele dama, a quel punto, fece cenno alle ultime due ancelle di deporre il pane e l’acqua, s’inchinò e indietreggiò, con il volto rigato di lacrime, dopo aver nascosto nell’abito di Eliade il coccio del piccolo vaso: aveva cambiato idea e non avrebbe conservato per la piccola Egea quel simbolo di sofferenza. Cheones depose un’ultima carezza sul volto e sui capelli della sua amata e così parlò: “Dormi, mia adorata. La natura ti è amica e non oserà sfigurare la tua immensa bellezza; tra poco le vergini danzeranno ancora per te; penserò io a sorvegliarle, perché non trascurino nessun elemento della natura. Sei bella, mia amata, bella, come mai corpo mortale fu su questa terra e così resterai, te lo prometto. Oh, Dèi, io vi sfido: non deturpatela o avrete la maledizione mia e di tutta la mia numerosa stirpe passata e futura! Se non la deturperete, io, Cheones, il re guerriero, vi prometto in pegno la mia forza e la mia virilità che, oggi qui, deporrò nella terra, con la mia leggendaria sposa! Dormi, mia amata, nessuno oserà disturbarti”. Le parole di Cheones caddero e si diffusero tra i suoi sudditi come serpenti e passarono tra le file dei guerrieri, gelando il sangue nelle loro vene. La gente parve volersi fare piccola e sparire; quando i dignitari giunsero, portando una moneta da un obolo, su un rosso cuscino frangiato d’oro, Leuco avanzò timidamente verso il suo sovrano. Cheones distolse lo sguardo dal volto della defunta e si rabbuiò: “No! Non deturperete la bellezza della mia sposa, mettendole l’obolo in bocca, come se fosse un cane! Se il suo rango non fosse onore sufficientemente grande per la barca di Caronte, la bellezza di Eliade sarà un privilegio talmente grande che egli dovrà traghettare senza compenso tutta la nostra stirpe, da qui all’eternità! Da oggi e per sempre non si metta più obolo in bocca ai nostri morti!” I dignitari indietreggiarono, a testa bassa, provando costernazione per quell’innovazione, dolore per il loro re e pietà per la dolce Eliade che, nonostante il suo rango, non avrebbe avuto di che pagarsi la traversata estrema. Tutti sapevano che Caronte respingeva i vivi, gl’insepolti e coloro che non potevano pagare la traghettata. Gli astanti trassero un sospiro di sollievo, quando Leuco depose il cuscino scintillante, su cui era appoggiato l’obolo, ai piedi della defunta e mise nella sua mano un ficaruolo di pelle pieno di argoria(1). Era giusto che chi non aveva versato in condizioni di indigenza in vita, non vi si trovasse neppure in morte e che la posizione sociale fosse chiara anche tra le ombre. La collera di Cheones esplose di nuovo, quando Leuco stese la mano, per staccare la grossa lacrima degli dèi dal collo di Eliade: “Non osare toccarla! Se gli occhi magnifici, che facevano invidia alla bellezza del cielo d’estate, non hanno più luce, che muoia per sempre la luce!” Il popolo rabbrividì, a quelle parole blasfeme, volte a rafforzare il buio, e al pensiero di quella grossa lacrima luminosa relegata nel buio. I sudditi si sentirono invadere da un’inquietudine insopportabile, sapendo che relegare nel buio la luce racchiusa nelle lacrime degli dèi era un delitto e che gli dèi punivano chi ingenerasse squilibri nell’eterno equilibrio tra luce e ombra, tra bene e male. Cheones salì sulla piccola altura, sopra la grotta, e sorvegliò la bianca riva del fiume, dove le vergini scalze e con i capelli al vento, erano schierate. Sul capo portavano serti di messi dorate, intrecciati a forma di trono. Stavano immobili, come statue erette nel sole. Il suono della conchiglia riempì la valle con la sua eco di luttuosa aspettativa e di mistero: la valle seppe che la leggendaria Eliade era pronta per la traversata estrema e le vergini seppero che il re era al suo posto di osservazione. Come fiori mossi da un unico soffio di vento, cominciarono a muovere passi di danza sulla sabbia cosparsa di petali profumati. Leggere, come libellule senza peso, cominciarono a danzare e ad emettere mormorii votivi tristi e soavi. La gente si strinse ai propri cari, pensando che quel giorno pure le pietre della via restavano acchiassicate, agghiacciate. Mentre i sudditi prostrati, chiedevano perdono agli dèi per il comportamento blasfemo del loro re pazzo di dolore, le vergini sembrarono prendere il volo, come bianche farfalle leggere. Disegnarono saltelli di numero pari, usando le braccia come ali, e mormorarono: “Oh, aria, soffia benevola, tieni lontana la morte dai vivi e non decomporre il corpo leggiadro della nobile Eliade!” Ondeggiarono, come verdi campi di grano nel vento, con passi laterali che avanzavano e regredivano, accompagnati da corpi e braccia flessuosi come giunchi, e mormorarono: “Oh, vento,canta inni di vita, a dispetto della morte, e narra a questa valle, a tutte le valli e a tutte le generazioni future della bellezza della leggendaria Eliade!” Fecero ruotare le braccia, le gambe, i corpi come girandole e mormorarono: “Oh, sole, splendi sugli armenti e sulle messi e sul nome di Eliade, perché mai venga dimenticato!” Disegnarono con i piedi le stelle e con le mani i raggi di luna e recitarono: “Oh, luna, non disertare mai la nostra valle e il luogo in cui Eliade è sepolta!” Sembrarono alberi conficcati nella terra, ebbero mani vibranti come rami e mormorarono: “Oh, pioggia, cadi lontano dalla sua bellezza! Va’ su pascoli e raccolto e rispetta colei che aveva voce più dolce delle tue liquide gocce di vita”. La natura parve unirsi alle vergini, con un concerto tutto suo e la folla respirò piano, mentre gli alberi stormivano, il vento mormorava tra case e persone, gli uccelli turbinavano in voli e canzoni e l’acqua del fiume pareva essere piena di una folla che borbottava, scalpitava, crepitava, rideva e piangeva con voce cupa e sommessa o limpida e argentina; quando le vergini tacquero, tutto tacque e un silenzio irreale scese sulla valle. Le vergini biancovestite, allora, si schierarono a forma di stormo pronto al volo e, vibrando sulla punta dei piedi, con le braccia che battevano l’aria come ali, si diressero verso la piccola caverna della sepoltura; con i serti di messi in equilibrio sul capo,parevano creature eteree coronate, pronte a decollare per la volta del cielo. Le truppe dei giovani guerrieri, a breve distanza, marciavano in file serrate, come ad assicurarsi che le fragili creature giungessero a destinazione con il loro dono prezioso. Giunte alla tomba, le fanciulle entrarono a turno e deposero il loro dono intorno alla defunta Eliade, che pareva sorridere in mezzo a quei troni di spighe. ( Da Il destino ti abita di Bruna Spagnuolo -copyright by Todariana ed Eurapress editrice) (1) denaro/monete in lingua messapica (come risulta dalla testimonianza rinvenuta a Brindisi e messa insieme prima da Deecke e Torp e poi da Ribrezzo e pubblicata dalla Treccani come probabile “decreto monetario o bulé dei Brundisini”). |