©BY BRUNA SPAGNUOLO
Nella foto: Burna Spagnuolo nel deserto del Sudan durante la migrazione degli ibis
BRANI
(da opere pubblicate)
1986-©by bruna spagnuolo-Da risvolto di copertina di "Interspazi": ... quando la tua stanza diventa tante stanze, la tua casa tante case, il tuo paese città e la città tante città, il mondo diventa il tuo vestito e non sai più se sei fortunato: sai soltanto che il cuore è gonfio di qualcosa che vuole straripare e che non sai contenere (sebbene tu non sappia quali e quanti altri qualcosa siano contenuti in esso). E ti feriscono banche-morte sempre più utili, mentre il tempo si dilata in ampolle-attesa (quando libererai i tuoi destrieri alati?). Forse alberi ombrosi continueranno ad affollare cigli umidi di muschio (su fossati nascosti d'oltremare) quando venti radioattivi costringeranno le vanità a colpire trasparenze antiche, tradendo innocenze fiduciose (non vedi? I papaveri rivestono costoni soleggiati: hanno sbagliato stagione). Il bimbo aspetta con aquilone e filo (grande è il rocchetto).
Da: ”La nonna
di Nassiriya”
(Come la tillandsia gli eroi)
© 2005 by Todariana EDITRICE & EURA
PRESS/EDIZIONI ITALIANE
20139 Milano- Via Gardone, 29
Distribuzione
BSC connectione
“ La mattina del 12 Novembre 2003, Nonna Ina si svegliò con uno strano disagio nella mente e con la sensazione di un cattivo presagio
aleggiante. Dormendo senza cuscino, dovette fare una serie di operazioni prima
di poter vedere qualcosa.
Scostò le coperte dal viso, tirò su il capo
e liberò gli occhi: l’alba non aveva ancora schiuso il suo sorriso e
bussava, con un broncio indecifrabile, all’anima di legno dei pannelli
disidratati e scrostati delle antiche finestre.
Fuori, non si sentiva altro che lo stormire
leggero e misterioso del bosco. Dentro, il silenzio era disturbato soltanto
dalla voce familiare e intermittente dei tarli. La vecchia si sentì strana. Non
aveva alcun motivo di essere preoccupata, eppure provava un’ansia
incontenibile e aveva il respiro contratto.
Prima di alzarsi, si accoccolò nella
posizione fetale in cui dormiva abitualmente e socchiuse gli occhi, nel
tentativo di riafferrare il bandolo dell’intricata matassa dei sogni:
nulla.
Non riuscì a rincorrere altro che un
indefinito senso d’angoscia e di tragedia e si rigirò, con impazienza,
cercando di alzarsi.
"Ah, nonna Ina", disse a
voce alta, "sei così infagottata che sembri una delle pupe di pezza con cui
giocavi da bambina".
Da quando il suo nipotino aveva tratto dal
diminutivo del suo nome quel nuovo nome, lei era diventata “nonna
Ina” per tutti e anche per se stessa. Si era così abituata a quel nome
che aveva quasi dimenticato quello anagrafico.
Con quel nome le pareva di essere
l’uno, nessuno, centomila di Pirandello. Quando ci pensava, si sentiva
tante nonne in una, perché, in effetti, Ina avrebbe potuto significare
Teresina, Concettina, Rosina, Antoniettina, Carmelina,
Angelina, Clementina e mille altri nomi. Lo aveva detto a suo
nipote e si era sentita rispondere:
"Tu sei una nonna speciale. Io ti considero il simbolo delle nonne. Se dovessi dare
un volto alla nonna per eccellenza, le darei il tuo. Ina è il tuo nome,
perché potrebbe essere qualsiasi nome. Da piccolo, avrei potuto storpiare il
tuo nome in vari modi; son contento del modo in cui l’ho fatto".
Nonna Ina accantonò quel ricordo in tutta
fretta, insieme al disagio indecifrabile con cui era arrivato. Si mise a sedere
e si tolse il foulard di lana. Si era sempre coperto il capo, nei periodi
freddi, per prevenire i mal di testa, ma, dallo scorso inverno, si copriva
anche il naso. Se non la teneva al caldo, la punta del naso diventava blu e
l’affliggeva con un dolore sottile e fastidioso, obbligandola a non
uscire per diversi giorni.
Sollevò le coperte e mise a nudo le
lenzuola; tra di esse giaceva una coperta, ripiegata quattro volte, che
accoglieva, come un pieghevole, le gambe. Ogni sera ve le infilava, dopo averle
scaldate ben bene accanto al fuoco del camino, perché conservassero il calore
per tutta la notte.
Tirò fuori i piedi con attenzione. Non
voleva far aggrovigliare il tutto, né far spostare l’altra coperta che,
compattata come un cubo e messa in fondo al caldo pieghevole, faceva da
appoggio ai piedi e da supporto alle coperte, lasciando i pollici e le altre
dita libere dal peso dei panni che avrebbero potuto disturbarne la
circolazione. Invecchiando, nonna Ina imparava sempre cose nuove. Una di queste
era che bisognava saper invecchiare, prevenendo, ove possibile, i malanni e gli
acciacchi e prendendosene cura, quando arrivavano, senza fare di essi i propri
padroni.
Si
sdraiò sulla schiena, mise le gambe in alto, le massaggiò, dall’alto verso
il basso, dai piedi verso le cosce, e le mosse in tutte le direzioni, per alcuni
minuti.
Infine, si mise a sedere, si fece il segno
di croce e recitò le sue preghiere. Raccomandò a Dio e alla Madonna tutti i
suoi cari. Nel recitare l’Angelo di Dio per suo nipote, avvertì qualcosa
di perverso e di maligno strisciare da qualche parte. Cercò di ritorcere il
male contro l’essere con i piedi da ciuco, che nelle leggende popolari rappresentava
il maligno e che lei cercava di visualizzare nell’immaginario come
destinatario dei cattivi presagi, ma scoprì che la sua immaginazione era priva
di elasticità e che le rifiutava l’obbedienza abituale. Si segnò tre
volte e cercò di pensare ad altro.
Si alzò, chiedendosi che cosa mai potesse
aver sognato per sentirsi in quel modo. Non le era più accaduto dal giorno in
cui… Oh, ma quel ricordo era troppo doloroso e non poteva riesumarlo.
Il suo corpo vecchio e logoro era ancora
forte e asciutto, ma il suo cuore ormai cigolante non aveva più
l’impalcatura portante, per reggere i grandi dolori che la vita non
lesinava a nessuno e specialmente a qualcuno.
I suoi anni erano tanti, ma nonna Ina li
indossava e li adattava ai suoi giorni come i vestiti che sapeva cucire,
riadattare e rimodernare.
Aveva smesso di preoccuparsi dei suoi
compleanni, all’ottantesimo, e aveva deciso che avrebbe preso nota
soltanto del passaggio dei decenni. In quell’ottica, non aveva vissuto
che otto decenni e tre brevi anni.
Era sicura che non avrebbe fatto fatica a
superare i sette anni che mancavano a completare il suo nono decennio. Era
ancora in grado di muoversi con passo elastico e di camminare a lungo, fin
sulla cima dei suoi monti.
Per raccogliere i frutti, non esitava ad
arrampicarsi sugli alberi e, per rimettere a posto le tegole che il vento e la
neve spostavano, saliva sul tetto senza il minimo capogiro.
Sapeva di non essere simpatica ai vecchi,
che la vedevano come una coetanea troppo diversa, e neppure ai giovani, i quali
non avevano la minima chiave di lettura dei suoi gesti e del suo modo di
vivere. Lei non se ne stupiva: non potevano apprezzare la sua abitudine di
indossare indumenti sempre scrupolosamente puliti, ma spesso anche rammendati
con garbo, coloro che passavano da nuovo a nuovo, che riempivano armadi
interi di vestiario con cui non si coprivano ma si addobbavano, che
erano abituati allo spreco sistematico e che, come il resto del mondo moderno,
erano perennemente affetti dalla carenza di denaro. Nessuno dei giovani poteva
comprendere come mai un’anziana benestante potesse scegliere di vivere
come un antico eremita, in solitudine austera. Nessuno dei giovani aveva
imparato ad apprezzare la parsimonia e a smettere i propri abiti soltanto quando non si
potevano più rammendare, perché nessuno di loro era vissuto nel passato in cui
i bambini non raccoglievano la briciola del pane soltanto quando il cane o il
gatto erano più veloci di loro.
A nonna Ina non importava che i giovani, pur
mostrandole rispetto, la considerassero un po’ selvatica, e li
salutava sempre, quando li incontrava. Godeva, però, dell’amicizia dei
bambini, attratti istintivamente dalla sua personalità schietta e dal suo
sguardo sincero.
I vecchi, invece, la infastidivano. Essi la
guardavano con aria di compatimento e le dicevano:
"Devi deciderti a capire che ormai sei vecchia e ti devi comportare come tale".
E lei, immancabilmente, rispondeva:
" Se volete
restare immobili, far bloccare la vostra circolazione e farvi tagliare le gambe
un po’ alla volta, fate pure. Io non me ne resterò seduta ad aspettare la
morte. Vivrò come ho sempre fatto e come hanno fatto i miei antenati e anche i
vostri, prima di me. I miei nonni e i miei genitori sono morti con il lavoro
alle mani e così farò anch’io".
Sotto, sotto, i vecchi la invidiavano e
borbottavano tra loro:
" Quella nonna Ina ha tutte le fortune.
Bella e ammirata era da giovane e così continua ad essere anche da
vecchia, e gode pure di buona salute".
Volutamente trascuravano di dire che quella
loro coetanea sui generis si guadagnava ampiamente la sua buona salute: non si
era lasciata omologare dalla modernità e aveva continuato a vivere come nei
tempi antichi, ricorrendo ai mezzi della nuova era soltanto in caso di
necessità estrema e facendo a meno, per quanto le era possibile, degli agi.
Nonna Ina era rimasta a vivere in campagna,
nella sua vecchia casa, e si era rifiutata di accettare, nei limiti del
possibile, i tentacoli negativi della modernità. Nulla aveva potuto strapparla
a quella sua casa circondata dal bosco e dal vento.
Lei non voleva lasciarsi trasformare in una
delle donne senza cervello, che avevano dimenticato completamente le
loro origini e che si comportavano come esseri dissennati e senza futuro. Tutte
le donne che, come lei, nel passato, si erano recate al fiume a fare il bucato
e avevano candeggiato con la liscivia i loro panni avrebbero dovuto evitare di
usare quintali di polveri candeggianti e di altre varie diavolerie profumate e
colorate.
Tutti coloro che si erano sempre recati alla
fontana ad attingere l’acqua e che ne avevano utilizzato con religiosa
parsimonia ogni goccia avrebbero dovuto capire che non era cosa buona far
scorrere tutti i rubinetti senza moderazione e che era uno sfregio per la madre
terra dalle cui viscere l’acqua proveniva.
Tutti coloro che avevano amato la terra e
che ne avevano dissodato, rivoltato, coltivato, sarchiato le zolle con le nude
mani avrebbero dovuto piangere per lo scempio irriverente perpetrato a danno
dei campi e degli orti ogni giorno.
Nonna Ina non poteva accettare di vedere
l’amata terra buona avvelenata. Persino i trattori e le trebbiatrici, che
violentavano i solchi e le messi con i loro fumi neri, le provocavano un tremolio
nel petto. Conosceva gente che bruciava la plastica negli orti in cui produceva
la verdura e gli ortaggi “genuini” per la famiglia e non conosceva
nessuno che non usasse i concimi e i veleni contro gl’insetti.
No, lei non poteva accettare quello sfacelo
passivamente e aveva scelto di vivere ai margini della società, pur di
circondare i suoi ultimi anni di vita di una parvenza di serenità; ma la gente
conosciuta continuava a morire di tumore e lei si sentiva parte dello sfacelo,
in ogni caso.
Ogni volta che si recava a un funerale,
tornava al suo bosco con un senso di pesantezza e di impotenza che gridava, nel
suo inconscio, tutta la ribellione dei valori antichi. Le avevano portato
l’acqua davanti casa e lei aveva benedetto i passi passati e futuri di
chi aveva avuto l’idea di realizzare quella fontana. Non doversi più
recare lontano per procurarsi l’acqua potabile, era stato un dono
incommensurabile che aveva suscitato uno zampillo di benedizioni nel profondo
del suo cuore.
Per le altre necessità idriche della sua
vita quotidiana, il deposito collegato con il bagno della sua casa, e il pozzo
situato nel suo orto, potevano contare sull’acqua piovana.
L’arrivo della corrente elettrica e,
quindi, della luce nella sua casa l’aveva lasciata quasi indifferente.
Stirava ancora con il suo ferro antico. Le piaceva metterci dentro i carboni
accesi, agitarlo lateralmente, per far volar via i residui di cenere, e stirare
con la fragranza del fuoco la sua biancheria profumata di vento e di sole. Non si
era curata, perciò, di comprarsi un ferro elettrico. Continuava ad asciugarsi i
capelli accanto al fuoco e ad usare la luce della fiamma finché gli occhi non
le si chiudevano per il sonno.
Le lampadine appese nella sua cucina e nella
sua camera erano sempre le stesse e si accendevano soltanto nei periodi in cui
la sua unica figlia e i suoi nipoti le facevano visita.
Nonna Ina continuava a vivere nel rispetto
della saggezza antica e nella parsimonia che aveva contraddistinto i suoi
giorni solerti e laboriosi.
Si coricava quando il buio sopraggiungeva e
si alzava quando la prima luce illuminava il cielo, vivendo come le creature
del bosco e lasciandosi guidare dallo spegnersi o dal riaccendersi del loro
brusio.
Coltivava le verdure che mangiava e le
concimava con le foglie secche che ammonticchiava e che faceva macerare. In
ogni stagione, nel suo orto trovava un mazzetto di verdura da lessare per il
suo pasto quotidiano.
Con poche piante di cavolo era capace di
svernare. Raccoglieva, ogni volta, due o tre delle foglie più vecchie alla base
delle piante e le usava per prepararsi dei minestroni sconditi e spartani. A
giorni alterni condiva il suo cibo con sale e poco olio o lo lasciava
completamente scondito.
Soltanto la domenica, si concedeva un pasto
gustoso e abbondante e durante la settimana non trascurava di inserire tra le
sue pietanze dei piatti di cipolla cruda o delle buone frittate di aglio, che
le tenevano bassa la pressione.
Lavorava regolarmente e senza risparmio come
le donne di un tempo. Per mantenere le sue braccia forti e funzionanti,
trasportava secchi pieni d’acqua, in salita e in discesa, nel suo
orticello scosceso, che pareva appeso alla collina come un lenzuolo sbilenco e
coraggioso.
Viveva tra il Comune di Altastella e quello
di Messacantata. Si riteneva cittadina di entrambi i Comuni e si recava
indifferentemente nell’uno o nell’altro, per fare la spesa o per
telefonare a sua figlia. Pensava che telefonare continuamente fosse una moda
inutile per le persone e dannosa per il portafoglio e che il telefono fosse
un’invenzione meravigliosa e andasse usato per avere notizie e non per
chiacchierare. L’amore bisognava coltivarlo nel cuore e scaldarlo alla
fiamma della costanza e della coerenza, non delle parole, che sembravano aver
invaso il mondo e aver perso valore.
Lei non aveva dimenticato il tempo in cui la
gente partiva per l’America ed era pianta come morta, per la mancanza di
comunicazioni.
Per avere notizie dei suoi cari, nonna Ina
si recava in paese ogni settimana e telefonava a sua figlia. Dal modo in cui
lei rispondeva, capiva se tutto era nella norma o se qualcosa non andava. Dal
tono della voce e dalle sue inflessioni, deduceva la gravità dei problemi e,
quasi sempre, anche la loro provenienza.
Il suo vivere a contatto con la natura aveva
tenuto intatta la forza istintiva del suo legame affettivo e faceva in modo
che, quasi sempre, lei presentisse le gioie e i dolori dei suoi
“amori”, come chiamava i suoi nipoti, sua figlia e anche suo genero,
che meritava di essere considerato come un figlio. Telefonava più spesso
soltanto quando faceva brutti sogni. Se non si sentiva tranquilla, sfidava
tutte le intemperie e si recava in paese, a fare la sua telefonata che,
puntualmente, giungeva proprio a chi aveva più bisogno di lei e delle sue
parole in quel momento.
Quella mattina si sentiva strana.
C’era qualcosa che le sfuggiva da qualche parte e che riportava la sua
memoria a quel giorno…, quel triste giorno, il cui ricordo terrificante,
avvolto in un involucro insormontabile, era stivato dove lei non si era più
recata… Sapeva che, se lo avesse fatto, avrebbe rivissuto quel dolore e,
sicuramente, sarebbe morta…
Per tutta la vita, aveva permesso alla
memoria di girare intorno a quel ricordo, ma mai le aveva permesso di
oltrepassare le periferie infide di cui lo aveva circondato.
Nonna Ina si sentì vacillare: il risveglio
di quella mattina l’aveva portata pericolosamente vicino al confine oltre
il quale non aveva più osato avventurarsi e lo aveva fatto senza prendere per
mano la titubanza circospetta del suo animo. Nel suo inconscio, perciò, un
allarme si era messo a suonare ininterrottamente, come le sirene foriere del
boato dei bombardamenti della guerra mai dimenticata.
Sua figlia e suo genero parvero rivolgerle
un sorriso triste, dalla foto di gruppo, nella quale abbracciavano i figli e ne
erano riabbracciati.
Le nipoti, dalle varie pose impertinenti e
affettuose che le avevano dedicato, non le parvero allegre come sempre.
Accarezzò con gli occhi i volti amati e si
soffermò sulla foto che ritraeva suo nipote in divisa. Guardò a lungo quel
volto perfetto, quel portamento marziale, quello sguardo fiero, poi guardò la
foto del suo defunto marito e sentì una mano arcana stringerle il cuore: la
rassomiglianza di quei due giovani uomini in divisa era sconvolgente.
"Oh, Signore", pregò, " fa’ che il destino non sia lo stesso…, che
non sia lo stesso…"
Nella
foto, suo nipote sorrideva e guardava lontano, proprio come nel giorno in cui
lei lo aveva fotografato.
"Nonna, sono venuto a farti una sorpresa. Mi fermo
solo un giorno e poi riparto. Volevo che tu mi vedessi in divisa. Sei contenta?", le aveva detto.
Certo
che era contenta. Come avrebbe potuto non esserlo? Veder arrivare i suoi cari
era sempre bello, perché la faceva sentire ancora utile al mondo, ancora
cercata e amata, ma veder arrivare quel nipote era come ricevere un messaggio
dal suo Antonio.
Quel nipote era la cosa più bella che la
vita le avesse dato. Era sensibile e intelligente come pochi esseri al mondo e
racchiudeva in sé interi pozzi di ideali. Lei lo sapeva, anche se le palpebre
di suo nipote schermavano con solerzia inavvertita ogni scintillio dei tesori
traditi dai begli occhi cerulei adombrati da lunghe ciglia.
Quel ragazzo aveva un cuore grande, che
sapeva amare con profondità oceaniche e con determinazione incrollabile, e
aveva scelto come oggetto del suo amore la sua carriera.
Si era innamorato dell’Arma Dei
Carabinieri e aveva concentrato tutte le sue energie spirituali e fisiche in
quella direzione. Non gli era stato facile entrare, senza aiuti e senza raccomandazioni.
Aveva tentato e ritentato e, quando, infine, vi era riuscito, era diventato un
giovane maresciallo pieno di speranze e di sogni.
Nulla era stato regalato a quel ragazzo,
mai. Egli si era guadagnato ogni conquista fatta, con una tenacia che la
commuoveva.
Spesso, suo nipote le aveva parlato
degl’ideali ma anche delle delusioni.
Le parve di risentire la sua voce:
" Nonna, ho
imparato che non è sempre oro quello che luccica e che il mondo nel quale sono
entrato non è fatto soltanto di valori e di bellezza. Spesso la fiamma, che amo
tanto e che ho cucito sul mio berretto con determinazione, mi è apparsa
completamente controvento. Ci sono stati momenti in cui ho dovuto lottare, per
tenerla accesa nel mio cuore: quando, pur riuscendo brillantemente
in tutte le discipline dei corsi, dovevo scavarmi con le unghie e con i denti
la mia strada in salita, accanto a quelli che erano scarsi in tutto ma avevano
conoscenze che io non ho mai avuto o in altre circostanze in cui il mio punteggio
non pareva eguagliare mai quello di altri. Ho imparato, proprio grazie alle
delusioni, forse, che esistono cose più importanti e più grandi di tutte le
meschine contingenze umane. Ora so che la vita porta con sé, sempre e in
qualunque dimensione lavorativa o sociale, varie contraddizioni e imperfezioni
e che l’Arma non può esserne completamente immune, per la semplice
ragione che la perfezione non esiste. Eppure, se qualcosa può avvicinarsi alla
perfezione, quel qualcosa è la fiamma che arde sul berretto e sulle divise dei
carabinieri. C’è una cosa che può rendere la vita di un carabiniere degna
di essere vissuta e che pesa, a chi ne è consapevole, come una responsabilità
senza limiti e, insieme, come una gloria. Quella cosa è questa: ogni piccolo
carabiniere ha il potere di spegnere la fiamma o di farla brillare e nessuno di
quelli che comandano può togliere al singolo questo grande potere. Vedi, nonna,
il segreto della grandezza dell’Arma è proprio nella faticosa coerenza
umile e misconosciuta di ogni singola divisa portata senza encomi e senza
elogi, attraverso i piccoli eroismi quotidiani fatti di sacrifici, di riposo
saltato, di rischi corsi all’insaputa di tutti, di giorno e di notte, di
delusioni e, spesso, anche di ingiustizie più o meno volontarie o involontarie,
proprio là dove dovrebbero stare di casa gl’ideali. Per diventare eroi
nazionali, amati e noti, basta l’attimo, in cui doni la vita senza avere
il tempo di rammaricartene. Ma il vero eroismo è quello ignoto al mondo, quello
della quotidianità in cui rinnovi sistematicamente la tua accettazione del
contratto con la morte in ripetuti inni alla vita, senza aver bisogno del
grazie di nessuno e scegliendo di non indossare la tua divisa
inconsapevolmente, ma come un simbolo che si fa pelle su di te. Ho scelto di
diventare soldato di pace e di partire con quelli che la pensano come me,
perché, quando li guardo, negli aeroporti e nelle altre nazioni, li vedo come
tante bandiere italiane in cammino nel mondo. Con loro, mi sento soldato di una
patria allargata al mondo, pur restando un soldato italiano dal più profondo
angolo del mio animo al più insignificante centimetro di pelle del mio corpo".
Un brivido corse lungo la schiena di nonna
Ina. La sua mente continuò a ricordare…
Mentre suo nipote era in bagno, lei gli
aveva spazzolato e stirato la divisa e l’aveva appesa alla sedia, poi
aveva preso il berretto e glielo aveva messo sul letto, dopo averne lucidato
con un panno la visiera.
All’interno del berretto, scritte a
penna, aveva scoperto le parole: “Obbedir tacendo e tacendo morir”.
Lei si stava asciugando le lacrime con il dorso della mano, quando lui era
uscito dal bagno ed era corso verso il letto, dicendo:
"
Nonna, non si
mette il berretto sul letto di un carabiniere, non in quella posizione!"
Aveva
tolto il berretto dal letto, si era avvicinato alla finestra e, guardando
fuori, aveva mormorato:
"A meno che… non gli si voglia augurare
un destino da eroe…"
Nonna Ina si portò una mano al cuore, come
per proteggerlo dalle emozioni. Si fece il segno della croce, per scacciare
l’alone di cattivo presagio che l’attanagliava e si recò in bagno.
Mise il catino sotto il rubinetto, vi fece
cadere un po’ d’acqua e v’immerse le mani, bagnandosi il
viso, le orecchie, il collo, le braccia e tutto il busto.
S’insaponò e si risciacquò, insistendo
sotto le ascelle, poi si asciugò, mise dell’acqua in una bacinella e si
lavò dalla vita in giù.
Si vestì, si sciolse la lunga treccia grigia
non più vigorosa come in gioventù, pettinò ben bene i capelli, li intrecciò e
li avvolse a crocchia dietro la nuca, poi, gettandosi il vecchio scialle sulle
spalle, uscì.
Era un giorno terso e bello. L’aria
profumava di vento. Tutto era familiare e rassicurante come sempre.
Il cielo occhieggiava, amichevole e buono.
Era lo stesso cielo che copriva la città dei suoi cari, il mondo lontano in cui
suo nipote si trovava e tutto il mondo lontano che lei non conosceva.
Nulla di brutto poteva accadere a coloro che
amava e nulla di terribile poteva verificarsi sotto quel cielo così bello e
così in pace.
Le ginestre accolsero i suoi passi, in fondo
all’orto, con un’aria più antica del solito. Nonna Ina le interrogò
con la mente, come aveva fatto quel giorno…
No, non doveva permettere alla mente di
rincorrere i ricordi con la dolorosa frenesia che conosceva bene. Si voltò
verso il fiume e rimirò la valle, che si stendeva a perdita d’occhio, con
la sua gloria di spazi ad ampio respiro, così bella e così crudelmente
immemore, come allora…
Cosa le stava accadendo? Non voleva
ricordare e pareva non saperselo impedire. Di solito, amava sostare su quella
sua collina e lasciare che la mente vagasse, come sospesa sui burroni.
Quel giorno, qualcosa arretrava
dolorosamente di fronte a qualcos’altro, ma lei non sapeva cosa
fosse… Nonna Ina cercò di concentrarsi e di afferrare quel sentore, ma
non vi riuscì.
Il ricordo del giorno in cui era giunta la
notizia che il suo Antonio era morto in guerra la colpì quasi fisicamente.
Dopo circa sessant’anni, avvertì di nuovo quel senso di nausea e di
instabilità che aveva preceduto, allora, il buio dello svenimento.
Sedette accanto al pozzo, con il volto
rivolto al fiume. Guardò il versante opposto e risalì il pendio, tra bosco e
sottobosco, cercando di focalizzare la mente su qualche particolare e sul
silenzio che avvolgeva la valle e le alture e che pareva estendersi a tutto il
mondo. Le piaceva guardare i paesi da lontano e vederli come entità serene,
silenziose e contemplative, prive dell’umano patire.
Quella mattina non poté soffermarsi a lungo
su nessun particolare, inseguita e come perseguitata da una sorta d’alveare
sconosciuto che le sciamava nel petto.
Non aveva alcun dolore fisico ed era sicura
di stare bene. No, non era nulla di fisico, ne era sicura. Il disagio doveva
avere a che fare con le sue premonizioni e con quel sogno che non riusciva a
ricordare. Il sogno…
Da
“Il destino ti abita”
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:
Il mito non cantò le gesta dei molti figli e dei molti nipoti di Priamo,
né cantò il valore di suo nipote Baletos, figlio di Brentos.
Nella notte del tragico incendio e della triste fine di Troia, dalle
rive del Simoenta, ove si era recato in ricognizione con una piccola
guarnigione, Baletos vide le fiamme levarsi e crescere alte nel cielo e sentì
il boato dell’orrore invadere e squarciare il suo cuore.
Seguito dai suoi uomini, che parevano avere le ali ai piedi, e
affiancato dal valoroso Falanto, suo alter ego, fece ritorno a Troia.
Alle porte della
città, ingaggiò una furiosa battaglia con il nemico. Neppure gli dei medesimi
avrebbero potuto frenare l’impeto ruggente della sua ira dolente. Sfondò
la resistenza nemica e penetrò nella città devastata, rendendosi conto che
ormai tutto era perduto e che ai sopravvissuti non restava altro che la fuga.
Sperando ardentemente di trovare ancora in vita i suoi cari, si addentrò
tra fiamme e macerie, dopo aver mandato nei campi il valente Kaibel, perché,
con il suo passo leggero e i suoi occhi penetranti, evitasse il nemico nella
notte, raggiungesse i Troiani, sparsi nei campi per la pastura e il raccolto, e
li riunisse sulla riva del mare, in un punto buio e sicuro.
I fidi guerrieri, al comando di Baletos, lottarono come leoni,
sopravvivendo al massacro e stringendosi intorno al loro condottiero, mentre
scandagliavano freneticamente i quartieri della città, in cerca dei superstiti.
Un drappello di guerrieri addestrati alle missioni senza speranza,
precedette Baletos, a sua insaputa, verso la reggia e all’interno di essa.
Pur di proteggere la vita del loro condottiero, avrebbero fatto
qualunque cosa e non avrebbero permesso ai maledetti Achei di bagnare il loro
ferro nel sangue di Baletos; non avrebbero permesso loro di estinguere la
stirpe di Priamo!
Tra le varie formazioni di guerrieri, si materializzava ovunque, come
furia di vento, l’eroe da tutti ritenuto di stirpe divina, Falanto.
Ovunque il pericolo impazzasse, le sue apparizioni parevano portare il
favore degli dèi; e Falanto apparve, inaspettato, anche quando il piccolo
drappello di coraggiosi si fermò nella reggia, a raccogliere Brentos, che,
ferito mortalmente, stringeva ancora al petto una piccola urna di penati
salvati dalla furia del nemico.
Brentos, che aveva la metà degli anni del suo venerando padre Priamo,
aveva messo al sicuro i suoi due nipoti Egeo e Cheones, primo e secondogenito
di suo figlio Baletos, all’interno della gradinata del trono, che
possedeva un’entrata segreta. Li aveva affidati alla nutrice e aveva
ordinato al principe schiavo Leuco di proteggerli a costo della vita. Leuco
aveva dovuto, tristemente, accettare il suo ruolo di schiavo escluso
dall’uso delle armi e dalla difesa di una patria che, pur essendo
divenuta la sua, non si configurava come tale nella cultura di quel tempo.
Brentos si era accertato prima della salvezza della sua progenie futura
e successivamente si era recato a cercare coloro che lo avevano generato,
pronto a dare la vita per loro.
Aveva assistito a distanza alla caduta del suo vecchio padre, odiandosi
per la lentezza delle sue gambe incapaci di volare e di soccorrerlo.
Il venerando Priamo, colpito, gli era apparso come una nobile aquila
che, stanca, aprisse le ali nell’ultima tragica picchiata.
Brentos si era slanciato verso suo padre e aveva afferrato al volo la
piccola urna che il vecchio re aveva lasciato cadere; in quell’attimo, il
ferro nemico aveva trapassato il suo petto. Nella sala del trono, cosparsa di
cadaveri, alla luce delle fiamme che avevano scacciato il nemico, Brentos aprì
le braccia ed espose allo sguardo di Falanto e dei guerrieri troiani la sacra
urna appoggiata al suo petto. Con un rantolo nella voce, disse:
“Mio fido nobile Falanto, il
tuo valore è inferiore soltanto alla tua lealtà… Sei vivo…, sia
lode agli Dèi… Allora tutto non è perduto, la nostra stirpe
sopravviverà… Dimmi di mio figlio…, dimmi come…”
L’agonia del dolore che si disegnò sul viso di Brentos, più forte
dell’agonia della morte, disse a Falanto che, non vedendo Baletos al suo
fianco, lo aveva creduto morto.
Nonostante avesse la gola serrata dal dolore, Falanto trovò un sorriso
per quell’uomo morente:
“Il principe Baletos è vivo,
mio signore, e sta venendo qui. Ha sfondato la resistenza nemica e sta
raccogliendo i superstiti intorno a sé. È pronto a ricostruire la nostra amata
e gloriosa città in qualche dove. La mia vita, il mio braccio e il mio
prestigio sono e saranno sempre…”
Brentos lo interruppe, con un gesto della sua debole mano:
“So…, conosco la nobiltà
del tuo cuore valoroso… Non mi rimane molto tempo… Porta a Baletos,
mio figlio, quest’urna e digli che, con gli Dèi patri, riceve la mia
benedizione paterna e quella regale… Io sono l’unico erede al trono
ancora vivo… Gli Dèi mi hanno dato il tempo necessario per passare a mio
figlio il trono del grande Priamo, perché la stirpe di Ilo non perisca per
sempre e perché la vittoria vile dell’inganno sia soltanto
apparente… Con i miei passi già risuonanti nell’ade, vedo…
una terra di sole e di ulivi, una terra di foreste e di acque, una costa di
cinque fiumi forti e belli e una città sull’ultimo fiume…, una
città grande e potente su un fiume che si getta in un altro…, un fiume
navigabile e prepotente sotto le montagne…, tante città…, e la mia
stirpe numerosa e forte che cresce… e altre stirpi… Vedo secoli prosperi
e …guerre e… pace e… Fedele e valoroso Falanto, sarai tu a
portare a Baletos, figlio di Brentos, che è figlio di Priamo di Troia, il mio
ordine, come ultimo volere e comando del re. Prenda gli Dèi patri e ciò che
resta del nostro popolo e vada alle navi. Tu, fedele e valoroso Falanto,
comanderai ciò che resta della gloriosa flotta troiana, ai diretti ordini di
mio figlio, il principe Baletos, che, da oggi, sarà re Baletos di Troia e che
disporrà della corona secondo le tradizioni storiche della discendenza e le
leggi tradizionali del nostro popolo. Dopo di lui sarà re il suo primogenito
Egeo. Se Egeo avrà primogenitura femminile e Cheones primogenitura maschile, la
corona passerà al primogenito di Cheones. Se entrambi i miei nipoti avranno
primogenitura femminile, la corona passerà alla primogenita di Egeo e, se Egeo
non avrà discendenza, sarà la stirpe di Cheones che erediterà la corona. Tu
sai, fedele Falanto, dove il re Priamo celava la flotta regale. Tutte le navi,
intatte, sono ancora là, perché dietro quella vegetazione impenetrabile il vile
nemico non ha mai sospettato la presenza di una flotta ben equipaggiata e ben
armata. Speravamo che un giorno il conflitto si potesse decidere in acqua e
quel giorno gl’infidi Achei avrebbero rimpianto di essere venuti ad
aggredire la nostra città, ma eravamo stolti a pensare di avere a che fare con
un nemico forte e leale. Abbiamo combattuto senza tramare inganni, immolando i
nostri valorosi a migliaia come le stelle del cielo… Oh, Dèi, come avete
potuto permettere che si versasse tanto sangue glorioso? Abbiamo rispettato le
leggi del coraggio e dell’onore e abbiamo intriso la nostra terra del
sangue dei nostri figli… Oh, Dèi, come avete potuto permettere che gli
Achei ci annientassero senza gloria e senza valore, nel buio della vergogna? Se
ora stanno festeggiando l’intelligenza della loro invenzione nefasta,
chiamandola vittoria, sono più stolti che vili, perché, mio valoroso Falanto,
le generazioni future li condanneranno per la viltà e per l’inganno e le
lune del tempo che verrà, eterne come gli Dèi, diranno ai popoli vicini e
lontani ciò che fu fatto a Troia con la viltà e con la vergogna. Sappia il mio
popolo che, lungi dall’essere vinto, ha mantenuto intatto il fulgore del
suo coraggio senza confronto. Sia tramandato, di generazione in generazione,
che il potenziale bellico di Troia era ancora invincibile, benché i morti eroi
oscurassero il sole di ogni radioso mattino con l’indimenticabile dolore.
Troia è stata tradita, non vinta, questo sappiano i nostri figli e i figli dei
nostri figli e i figli dei figli dei nostri figli e lo tramandino alla loro
stirpe, che sarà innumerevole come l’erba dei prati, come gli alberi
delle foreste oscure, come le gocce d’acqua del mare e dei fiumi, come i
pesci e come gli uccelli e come i raggi di luce con cui gli Dèi favoriscono la
vita di tutte le creature. Questo dico e questo sia tramandato di reggia in
reggia, di popolo in popolo in tutte le città future che da Troia saranno
generate e sappia il nostro popolo che gli Dèi hanno in serbo per lui un ben
più glorioso destino e che, forse, questa immane sciagura è stata da essi
permessa per costringere il nostro popolo ad andare incontro al glorioso
futuro. Ogni nave possiede un equipaggio completo e addestrato e una stiva fornita
di cibo e di sementi da portare nella nuova patria, insieme a varie piantine da
frutto, come parte di questa amata terra. Il re Priamo, mio padre, aveva
preparato tutto per la fine della guerra. Intendeva inviare parte del suo
popolo a cercare una nuova terra in cui fondare una nuova Troia sconosciuta
agli Achei, che ormai conoscevano troppo bene la strada dell’antica
Troia; quando mio fratello Ettore era caduto combattendo, per il re mio padre
il dolore era stato duplice… Se soltanto mio fratello non avesse dovuto
affrontare quella terribile sfida… Oh, Dèi! Che spreco di giovinezza, di
valore e di prestanza… Per lui mio padre aveva preparato le navi, a lui
aveva assegnato il compito di cercare una terra simile a questa e di costruire
una nuova Troia… L’altro designato era stato Troilo, il giovane
erede dal cuore di leone e dal braccio ancora imberbe, che finì con la gola
infilzata dalla terribile lancia del leggendario Achille. Achille,
Achille…, il terrore delle nostre schiere, dal braccio feroce e dal
nobile cuore…, assassinato da lontano, con viltà pari a quella con cui è
stata distrutta Troia… Se lui fosse stato in vita, le sorti della guerra
non avrebbero subito l’affronto di questo vile tradimento. Egli non
l’avrebbe permesso… Dopo la morte dei figli, mio padre non aveva
più pensato alle navi e le aveva lasciate nascoste, in attesa della fine della
guerra. Avrebbe deciso dopo a quale dei suoi nipoti affidare la nobile impresa.
Soltanto noi, i suoi figli, sapevamo dei suoi piani. Ma tu sai, nobile e insostituibile
Falanto, tu soltanto, oltre ai figli di Priamo… Devi riferire tutto
questo a mio figlio, re Baletos. Il compito, che il grande Priamo aveva
destinato a colui che era il vanto e la gloria delle nostre schiere armate e di
tutto il nostro regno, ora tocca a lui. Digli di raccogliere intorno a sé ciò
che resta del popolo spaventato e disorientato e di portarlo alle navi. Digli
di prendere il largo con il favore delle tenebre… So che l’esecrato
nemico aspetterà la luce, per danzare sulla cenere della gloriosa Troia e so
che trovarsi al comando di una flotta insperata vorrà dire per mio figlio voler
raggiungere le navi nemiche e distruggerle, ma devi dirgli che i miei ordini e
il mio volere sono per la partenza immediata. La città è perduta e tutte le sue
ricchezze con essa. Decenni di guerra hanno azzerato le possibilità di
prestigio e di pace di questo nostro regno distrutto. I nemici si sono
moltiplicati come le cavallette e sconfiggere gli Achei non sarebbe abbastanza,
perché altri vorranno impadronirsi delle vie del mare che appartenevano a
Troia. Il risorgere di Troia, se dovrà accadere, non sarà ora né tra queste
mura. Spero che mio figlio non si lasci accecare dalla giusta ira e dal
desiderio di vendetta, ma, se dovesse ignorare il mio volere, i miei ordini per
te sono di scavalcare Baletos, il re, e di portare lontano le navi. Devi dire a
mio figlio che un giorno lontano…, molto lontano…, la sua
discendenza si farà pellegrina itinerante, verrà alla Troade e, dal silenzio
delle nostre indistruttibili mura, sentirà la storia della nostra grandezza e
della nostra disgrazia… Tu hai capito, mio valoroso Falanto, non è vero?
E sai che una battaglia vorrebbe dire danneggiare le navi e le scorte stivate
su di esse e perdere altre vite insieme alla progenie futura… Di’ a
Baletos che abbandoni l’orma nefanda del nemico piede traditore e sleale,
che prenda il mare subito e porti in salvo i suoi figli e i superstiti…
Andate con la mia be…ne…”
Brentos smise di respirare, con un piccolo rantolo. Falanto, già chino
su di lui in attento ascolto, gli abbassò le palpebre sullo sguardo appannato.
Il piccolo drappello si mise sull’attenti e salutò con le lance.
Bentos, fra tutti i figli di Priamo, era stato il più umile e il più
silenzioso. Nessuno aveva avuto modo di conoscere la grandezza e la nobiltà del
suo animo; in quella reggia devastata e abitata dalla morte, la sua nobiltà,
sbucata dall’oblio di tutta una vita, sembrò fare più luce delle stesse
fiamme.
Falanto e il piccolo drappello di
valorosi avevano dimenticato la fretta di uscire dalla reggia in fiamme e
avrebbero voluto restarvi a piangere tutti i nobili morti sparsi ovunque.
Le fiamme non erano più una minaccia per quell’ala della reggia
costruita in solida pietra e con ogni drappo o arredo completamente arsi;
neppure il pericolo che gli Achei potessero tornare in quel luogo pareva
verosimile, poiché la vergogna della loro vile ferocia ergeva monumenti
probabilmente invalicabili per essi medesimi, per via della completa assenza di
prigionieri e di rispetto delle leggi della guerra e dell’onore.
Falanto e il manipolo di fidi valorosi non se ne preoccuparono. Il
testamento dell’ultimo rappresentante di Priamo e il volere del loro re
valeva il sacrificio estremo di alcune delle loro vite o anche di tutte, ma
Falanto credeva che i traditori non avrebbero rimesso piede nella sala del
trono, perché il canuto capo reciso del venerando Priamo, sprofondato nella
noncuranza della morte, li avrebbe accusati in modo insopportabile di quei
crimini che neppure la guerra avrebbe potuto mai giustificare. Passata
l’euforia dell’alienazione collettiva, la vergogna del loro operato
avrebbe schiacciato le menti e le coscienze guerriere e pochi sarebbero stati
coloro che volontariamente avrebbero voluto rivedere il massacro compiuto ai
danni del re e di tutti coloro che, con lui, avrebbero dovuto trovarsi
prigionieri tra le schiere nemiche.
Non potendo dare ai nobili cadaveri onorata e lacrimata sepoltura,
Falanto e i suoi guerrieri decisero di rimettere ordine nella sala del trono.
Riunirono la testa di Priamo al suo corpo e ricomposero il loro defunto
re sul trono, con la corona in testa, nella posa che era solito prendere nelle
udienze ufficiali; misero ogni cadavere al posto che occupava da vivo e
lasciarono la sala del trono in una parvenza impressionante di normalità.
Il sopraggiunto Baletos si fermò sulla soglia della sala del trono e
sentì il cuore balzargli in gola, speranzoso, mentre emetteva un grido e si
precipitava ai piedi del trono, ove scopriva la macabra realtà e ne rimaneva
agghiacciato; al suo grido rispose quello dei suoi figli, che, riconoscendolo,
uscirono dal nascondiglio, insieme alla nutrice e a Leuco.
Falanto e i suoi uomini avevano torto a pensare che gli Achei non si
sarebbero avventurati nuovamente nella reggia. Poco dopo, sul far del giorno,
Neottolemo sarebbe inorridito di fronte allo spettacolo della sala del trono
ricomposta in quella dignità spettrale; avrebbe impedito ai Greci di deridere e
mutilare i defunti, si sarebbe messo di guardia alla sala del trono e avrebbe
minacciato di passare per le armi chiunque avesse osato profanare ulteriormente
la scena già raccapricciante. Egli avrebbe pronunciato una cruda condanna
dell’accaduto. Le sue parole sarebbero state tramandate:
“Giove mi sia testimone che il
massacro indiscriminato senza prigionieri è contrario ai miei sentimenti e
offende il mio onore di guerriero. Di fronte al cadavere del re di Troia, il
grande Priamo, che ci avrebbe dato gloria da vivo e ci dà vergogna da morto, affermo
che mai il grande Achille, mio padre, avrebbe lasciato i lidi patri, se avesse
saputo che il suo esercito di valorosi Mirmidoni sarebbe uscito coperto di
vergogna da quella che avrebbe dovuto essere una vittoria gloriosa. Ben diverso
aveva mio padre immaginato questo giorno e ben diverso l’ho immaginato
io, quando ho preso il mare, per riunirmi al mio eroico padre e guadagnare la
mia porzione di gloria al suo fianco. Avevo sei anni, quando mio padre mi
lasciò alle cure di mia madre Deidamia, e non ho avuto la gioia di rivederlo né
di mostrargli il coraggio che ho ereditato da lui, ma avrei voluto tornare dal
mio vecchio e potente nonno Peleo, alla guida dei suoi Mirmidoni coperti di
gloria, della gloria che il grande Achille si era guadagnata. Avrei dovuto
condurre in Tessaglia, come principe ereditario e come degno figlio del più
grande degli eroi, le numerose colonne dei prigionieri, che sarebbero spettati
al grande Achille e che avrebbero dovuto soffrire soltanto per l’esilio.
Mi pento di non aver dato retta a mio nonno Licomede, quando mi diceva che non
sarei dovuto salpare per questi luoghi e che avrei dovuto aspettare di avere
diciotto cicli completi di stagioni, prima di immergermi negli orrori finali di
una guerra lunga e cruenta come questa. Appena uscito dal cavallo del
tradimento, ho ucciso Priamo, per vendicare la morte del mio valoroso padre, e,
per tutta la notte, ho partecipato alla carneficina dei Troiani indifesi, ma
ora rifiuto di associare il mio nome all’empietà contro i defunti. Questa
città presa con l’inganno, questo re decapitato e questi nemici,
sgozzati, trafitti, arsi vivi, sono oggi la vergogna di domani, anche perché,
in tanti anni di assedio, tra i due popoli nemici era nato un legame che
avrebbe meritato lealtà. Noi non ci saremmo aspettato dal nobile Priamo un
tradimento come quello che abbiamo tramato e i Troiani non se lo sarebbero
aspettato da noi. L’onore, per un vero guerriero, conta al di sopra di
ogni e di qualsiasi vittoria. Io, dunque, qui, nella reggia del re che abbiamo
annientato, dichiaro di tornare alla mia patria da sconfitto e di avere il
cuore pesante, al pensiero dell’eredità gloriosa che il valoroso Achille
aveva inteso lasciare a me, suo figlio, e che io avrei voluto tramandare ai
posteri, e al pensiero della pesante eredità di vergogna che, invece, verrà
tramandata. Dichiaro, pertanto, di non voler gravare i miei figli e i figli dei
miei figli di tale lascito traligno e di preferire l’oblio di una morte
senza memoria alla trasmissione del mio nome legato al ricordo della
conclusione nefasta di questa guerra combattuta con onore e con valore da mio
padre e da tanti eroi greci e troiani. Sì, meglio che il mio nome scenda
nell’Ade con me e che non resti legato alla vergogna di questa notte.
Prima di partire da questa terra, che, oltre alle onorate battaglie, ha dato a
mio padre cibo, salute e anni di vita per niente cattiva, chiedo alle donne
troiane, che ormai sono come spose per gli Achei e che con loro hanno messo al
mondo dei figli, di recarsi alla reggia e di dare lacrimata e onorata sepoltura
alla famiglia reale. Nessuno osi opporsi, se non vuole combattere con me. Ho
indossato l’armatura del grande e valoroso Achille e sono pronto a
ricevere chi volesse sfidarmi. Se il mio nome dovrà essere associato al crimine
commesso contro i Troiani, potrà bene essere associato a una leale sfida contro
gli Achei più infidi e più vili, perché credo che soltanto chi sa nascondersi
nel buio e colpire a tradimento possa opporsi alla pietà che deriva
dall’onore. Se il mio giovane braccio è lontano dall’avere la
prestanza e la forza di quello possente del leggendario Achille, la corazza
d’oro, che Teti ha fatto costruire con il fuoco di Efesto, basterà ad
incenerire, con il suo splendore, coloro che le hanno creato intorno questo
scenario di viltà, se soltanto oseranno avvicinarsi. Ha figure fuse nel ferro e
non bulinate nell’oro, che può essere graffiato; l’oro è stato
successivamente levigato, lasciando intatto il duro ferro che ha assorbito la
sabbia in fusione. È appartenuta a Minosse, che, con Radamanto e con il mio
bisnonno Eaco, siede nell’Ade a giudicare i morti quando si riuniscono
sulla riva dell’Acheronte. Il mio braccio, comunque, ha già possanza
sufficiente a versare il sangue indegno. Vengano le donne, ricordino di essere
troiane, piangano e si cospargano il capo della cenere che, grazie a noi,
abbonda in Troia come la sabbia accanto al mare. Tributino al loro re tutti gli
onori degni del suo rango; quando saranno pronte, io, figlio del pelide
Achille, provvederò agli onori delle armi. Sia il vecchio re sepolto con la sua
armatura regale. Se fosse sparita nel sacco della città, se ne trovi una degna
del suo rango. Sia il suo regale volto coperto da una rituale maschera
d’oro adatta al suo passato. Con lui siano sepolti gli oggetti necessari
al suo viaggio e lo stesso avvenga di tutta la defunta famiglia reale. Se noi
Achei siamo responsabili della distruzione, con inganno, di un intero popolo
civile e timorato degli Dèi, nonché della mancata sepoltura della maggior parte
di tale popolo, non saremo responsabili del vagare triste e perenne di tutta la
famiglia reale. Guai a noi, guai agli Achei! Il ritorno a casa potrebbe
risultare nefasto più della permanenza sotto le mura di Troia. Molti Achei
potrebbero rimpiangere gli anni trascorsi tra il mormorio delle acque e degli
alberi della bella Troade. Abbiamo bisogno del favore di tutti gli Dèi”. Gli
antichi credevano che persino il vento potesse raccontare ai rapsodi erranti e
ai…”
Da
: Le travalicazioni dei promessi sposi
del pollino
©by bruna spagnuolo
“Rosa prese in mano un coltello e lo tenne
nella sinistra; con la destra si segnò e fece il segno di croce sulla fronte di
Lucrezia. Mosse le labbra, recitando in segreto: “Chi ti ha
affascinato? Gli occhi, il cuore e la mente. Chi ti deve sfascinare? Il Padre,
il Figliuolo e lo Spirito Santo”. Disegnò sulla fronte di Lucrezia
un segno di croce ad ogni nuova frase, poi vi tracciò un ultimo segno di croce
e recitò un Pater, un’Ave e un Gloria, sempre in segreto.
Infine si segnò e disse:
"Se non ti passa, domani lo facciamo meglio".
Intendeva
dire che, se fosse stato necessario, avrebbe potuto recitare le preghiere un
numero di volte che poteva andare da una a nove. Pensandoci meglio, Rosa aggiunse: "Magari
domani, possiamo anche fare il lavaggio della faccia nella bacinella e buttare
l’acqua al crocevia. Tu sei tornata dalla fiera dopo di me, mi pare. Ecco
dove hai preso il mal di testa: ho visto la moglie del Massaro che buttava l’acqua al crocevia dopo che ero passata
io. Fa bene maritimo che al crocevia
fa una cacchiavota nei campi, allunga
il tragitto ma non passa negli incroci, piccoli o grandi che siano".
Lucrezia
tornò e trovò tutta la famiglia a letto, a parte Angela, che, come sempre, dopo
aver rassettato, rammendava accanto al fuoco. Lucrezia l’accarezzò con lo
sguardo e, con tenerezza malcelata, le disse: "Vai a riposare, figlia mia. La
giornata è stata lunga anche per te. E poi ricorda che, con il buio è meglio
dormire: se il buon Dio ha fatto il buio, vuol dire che è necessario che stiamo
nel buio un certo numero di ore. Dormendo si risparmia la vista e si
risparmiano pure la legna e il petrolio della luce".
Angela
obbedì prontamente e più che volentieri. Lucrezia ricoprì la brace con la
cenere, spense i tizzoni, soffiò sullo stoppino della piccola lucerna di ferro e andò a coricarsi, dando lode a Dio.
Quella fu una delle notti in cui poter crollare,
stanchi, in un morbido letto faceva germogliare in Lucrezia e Giovanni un dolce
senso di gratitudine verso la Divina Provvidenza. Dopo qualche ora di sonno
ristoratore, Angela e i suoi genitori furono svegliati da una serenata, mentre
il resto della famiglia, che avrebbe continuato a dormire anche attraverso le
cannonate, non sentì nulla. Lucrezia capì che Pietro e Gennaro non avevano
scherzato mentre andavano alla fiera: quella notte si ritrovarono entrambi
sotto la finestra di casa Nelli e misero da parte la loro rivalità, lasciando
ad Angela il potere di decidere quale delle due serenate accettare.
Nel bel
mezzo delle due serenate, che si alternavano, una terza serenata si antepose
alle due già cominciate. Angela e i suoi genitori riconobbero la voce forte e
poco colorita di Francesco Lequerce:
“La neve si squaglia sui timponi e l’acqua fresca cala alle fontane. È tanto fresca che i malati sana, pure ai muti la parola viene. Pure il cuore mio è malato, pure la voce mia è ammutolita. Squaglia codesto cuore tuo che è di neve, fammi guarire o mi farai morire.”
Per
controbilanciare la sorpresa, Prospero e Pietro unirono i loro sforzi e
cantarono insieme:
“Quando sei nata tu,
fonte di bellezza, mamma ti ha partorito senza dolori. Sei nata in un giorno di
allegria, quando le campane facevano suona suona.”
Poi, Prospero e Pietro intonarono il canto della
tristezza e la voce di Francesco si unì alla loro. Ne scaturì un effetto a tre
voci che toccò il cuore di Lucrezia e Giovanni:
“Hai, per caso, visto tu la bella mia? Quella che in petto portava un tesoro? Io l’ho vista in mezzo a due stelle: faceva la caporale del sole. Mo si marita e se ne va al castello, a comandare servi e cavalieri. In mezzo al capo suo una scriminatura bella: ogni capello getta un’oncia d’oro.
Io darei la vita tutta quanta, se potessi avere il suo amore.
Chissà chi l ’ha costretta a lasciarmi, ché io non trovo pace e lei amore”.
Rannicchiata
nel suo letto, Angela finse di dormire e di non sentire nulla, ma tutte le
parole e le suggestioni della serenata intercedettero nel suo cuore per Gaetano
e le lasciarono un senso di solitudine e di aspettativa che mai avrebbe
concepito prima. Come se si fosse svegliata da un letargo, Angela si accorse di
avere in sé abissi di nostalgia, in cui l’immagine di quel guagnone malvestito e dei suoi occhi
belli ingigantivano in modo imprevedibile. I tre portatori della serenata non
avrebbero mai immaginato di aver lavorato per il loro peggiore nemico.
Giovanni e
Lucrezia scacciarono la stanchezza dalle ossa, si alzarono e accolsero i tre
giovanotti nella loro casa. Offrirono loro qualcosa da mangiare e li trattarono
con affetto e gentilezza, provando pena per i loro occhi inquieti, che
correvano sempre alla scala, nella speranza di vedere apparire Angela e di
capire dal suo sguardo chi di loro potesse sperare.
Angela non
si alzò e non si fece vedere e i tre giovanotti tornarono alle loro case, attraverso
il buio della notte, sentendosi stanchi e demoralizzati.
Il giorno
dopo, Lucia giunse da San Costantino e seppe della serenata e del passaggio del
figlio di Angiolamaria. Le bastò guardare Angela per capire che qualcosa
era sbocciato nel cuore della sua corteggiatissima sorella minore. Cominciò a
lanciarle battutine scherzose e, tra il serio e il faceto, disse: - Si vede che
quello spilapipe magro e alto ti ha conquistato, non mi dire di no.
Consultiamo l’erba d’amore, così sapremo se ti ama. –
Ignorando le proteste di Angela, Lucia entrò nel campo del grano ormai alto e
cercò l’erbetta dalle foglioline tonde, piatte e carnose. Ne raccolse una
foglia, la masticò e l’applicò sul braccio di Angela, recitando:
“Fronda d’amore,
ti mastico e ti odoro.
Se mi vuol bene ci nasca una
rosa,
se
mi vuol male una spina mentosa.”
Prese il fazzoletto dalla tasca, lo piegò,
afferrandolo da due angoli e lo legò intorno al braccio, a protezione
dell’impiastro di erba d’amore, dicendo: "Non lo togliere fino a
domani, tanto non t’impedisce di lavorare".
Angela rise,
tirò giù la manica e si dimenticò dell’accaduto, ma la sera,
spogliandosi, vide il fazzoletto e se lo tolse dal braccio, accingendosi a
lavarsi prima di andare a letto. Appena infilò le braccia nell’acqua,
avvertì una fitta là dove l’erba d’amore era stata applicata.
Guardò il braccio e vide che la foglia masticata le aveva prodotto una
scottatura profonda e dolorosa. Si ripromise di rimbrottare Lucia o almeno di
fingere d’inseguirla con la scopa.
Da quel
Primo maggio, uno speciale calendario cominciò a disegnarsi nella mente di
Angela. Ogni giorno fu un tempo di attesa in cui il suo inconscio si aspettava
di vedere il volto di Gaetano apparire nel riquadro della mezza porta sempre
aperta. Non dovette aspettare che qualche settimana. Finalmente, egli arrivò,
per parlare con i suoi genitori. Angela ebbe l’impressione che la lampada
a petrolio splendesse più del solito; armeggiò a lungo con la rotellina che
regolava la lunghezza dello stoppino, attirandosi le occhiatacce di sua madre.
Se avesse potuto avrebbe tirato giù lo stoppino, fino a spegnerlo, perché già
il fuoco pareva illuminare a giorno il suo viso concitato. Aveva paura che
tutti potessero vedere il suo florido seno sollevarsi ritmicamente dietro i
battiti del cuore. Il pallore di Gaetano era quasi pari al colore indefinito
della sua camicia stropicciata.
Angela si
sentì in preda al panico. Sua madre era così critica..., aveva sempre detto che
l’abito non faceva il monaco intero, ma che almeno mezzo monaco lo
faceva... Le sembrava che da un momento all’altro sua madre avrebbe
potuto dire: la trippa, per quanto la lavi, fa sempre della mamma, per
sottolineare il timore che Gaetano somigliasse a suo padre. La voce di mamma
Lucrezia interruppe il fluire dei pensieri di Angela:
"Non dico né sì e né no. Porta tua madre e tuo
padre e vediamo se si può combinare. Ma ricordati di dire ai tuoi genitori che,
se vengono qua per parlare di dote, li caccio fuori, perché non si vendono
vacche come alla fiera in questa casa. Io dico a te come stanno le cose e deve
bastare: se te la sposi e te la porti via, sono tremila lire di dote e il
corredo a dieci; se ti sposi e vieni a vivere qua, c’è sempre il corredo
a dieci e, in più, c’è la casa con la terra che comincia davanti alla
porta e finisce in fondo alla destra, il terreno soleggiato esposto a
est".
Angela quasi
svenne, quando Gaetano, con un filo di voce e con la testa bassa, disse: "Non
m’interessa la dote. Non c’è giovinella
più ricca di Angela, perché la natura le ha dato tutte le ricchezze che servono
ad una fanciulla. Bella e virtuosa com’è, se me la date anche senza uno
straccio, mi rendete l’uomo più ricco e felice della terra. Se lei vorrà
sposarmi e se voi acconsentirete, avremo bisogno soltanto di noi stessi e di
quello che abbiamo addosso. Il resto ce lo costruiremo insieme vitavivendo".
Sentì che
qualcosa, come un lastrone di ghiaccio, si scioglieva irrimediabilmente nel suo
animo e seppe che quelle parole avevano conquistato anche sua madre e suo
padre, perché entrambi si scambiarono uno sguardo furtivo e trattennero a
stento un sorriso. Sua madre rispose: " Con i tempi che corrono è meglio non
parlare ancora di matrimonio. Porta i tuoi vecchi per il fidanzamento e al
resto Dio provvede. Oggi in paese ho sentito che in città si vedono cose
terribili. Qualcosa mi dice che presto saremo in guerra, non possa mai venire. Ah, un’ultima cosa: quando verrai con i
tuoi, non vi aspettate festa, perché in questa casa si piange ancora la perdita
del mio sventurato Pasquale. Bene di mamma, come sarebbe stato contento di
vederti qua, se quella fortuna stracciona nera non me lo avesse ucciso".
La notizia
delle belle speranze di Gaetano suscitò nella zona una specie di uragano. Che
fossero della campagna o del paese, i giovanotti erano tutti invaghiti della
bella Angela, palesemente o segretamente, perché il suo brioso carattere di
sana campagnola, stemperato dal portamento altero e pudico, la sua capacità di
risposta pronta e pungente e il suo modo di distogliere lo sguardo, arrossendo,
erano praticamente irresistibili. Pur essendo passata attraverso la fucina del
dolore, Angela possedeva, intatta, la propellente carica vitale, istintiva e
innocente dei suoi diciotto anni, unita a una sorprendente capacità di
inventiva e di intuito. Tutti si aspettavano che facesse un matrimonione;
quando si cominciò a vociferare che Gaetano ci aveva mandato e che,
forse, la zita si combinava, ci fu una specie di sbalordimento generale,
seguito, ben presto, dall’incredulità.
Bastò
che uno desse l’esempio, perché tutti si comportassero come se Angela
fosse ancora libera. Tutti speravano che cambiasse idea in tempo, se davvero si
era impegnata. Il primo a presentarsi sotto la finestra di Angela fu un giovane
contadino di nome Egidio, di una contrada vicina. Egli era pieno di boria e di
presunzione e gli stessi campagnoli capivano che, quando “ci
metteva” le parole taliane, “non ce le azzeccava
bene”. La sua aria sicura un po’ antipatica, però, non lo aveva
protetto dal fascino di Angela. Egli si era innamorato come un ragazzino e
soffriva tanto da fare pena a tutti. Appena sentì le voci sul fidanzamento di
Angela, non seppe fare a meno di portarle la serenata della gelosia.
Accompagnato dalla chitarra, così cantò: “Io mi prendevo mille
giuramenti che non avresti cambiato me con un altro amante. Adesso mi
hai cambiato e che hai vinto ? Il cuore tuo non
sta mai contento!”
Nel buio
della notte, la persona che affrontava lunghe distanze, tra vari rischi e
difficoltà, per poter esprimere i propri sentimenti e renderli pubblici in modo
così romantico, faceva sempre un po’ di tenerezza e, quando era senza
speranza, provocava una certa tristezza senza nome. La voce adatta al farsetto
e la prepotenza implicita in essa risultarono antipatiche ad Angela, come
sempre le risultava Egidio. La scelta di quello specifico antico canto la
irritò oltre ogni dire, perché Egidio non aveva mai avuto da lei
incoraggiamenti di sorta. Ma quel motivo triste e quella musica dolce parvero
perforare la notte e aprire uno squarcio di luce nel buio. In quello squarcio
il cuore di Angela trovò il ricordo di immagini che non sapeva di possedere.
Ebbe la sensazione di trovarsi in una tenda, di essere sdraiata su morbide
pelli e di avere addosso dei veli. Mise a fuoco sensazioni che le parvero
familiari. Che strano! Quando era tra veglia e sonno, non era la prima volta
che aveva l’impressione di sentire il contatto di morbide pellicce, di
percepire il chiarore di fuochi accesi all’aperto, di sentire un canto di
molte voci maschili sommesse e tristi accompagnate da un suono struggente che
non conosceva, e di..., di percepire un..., sì... un lieve respiro accanto a
sé... Quella notte, rannicchiata nel suo letto e immersa nelle sue sensazioni,
Angela ebbe quasi l’impressione di sentire il tepore di un corpo virile
accanto al suo e si spaventò, tanto da aprire gli occhi. Ma anche con gli occhi
aperti non riuscì a liberarsi di quella sensazione o, meglio, del ricordo
di..., del dolore per la sua assenza. Richiudendo gli occhi, riuscì a dare un
volto a quella sensazione: il volto di Gaetano. Allora Angela si disse che
doveva aver perso la testa per quel mingherlino alto e malvestito che per lei
era bello come il sole. Forse aveva ragione sua madre a chiederle, a volte:
“Ma che ci vedi?” Le sue amiche le dicevano, invece, con
un’esagerata dose di condiscendenza: "Sì, sì, non è brutto, è pulito come no, è bello come no!"
E lei aveva la sensazione che fossero invidiose da
morire. Intanto, i genitori di Gaetano tardavano a farsi vivi e tra i
giovanotti dei dintorni andava rinascendo la speranza. Non di rado capitava di
assistere a battibecchi tra pretendenti.
- Se il figlio di Filippo Borbone si fidanza con la
bella Angela, addio mia bella Napoli per te!
- Non ci credo né mo né mai! Ha più
pretendenti che capelli in testa, perché dovrebbe fidanzarsi con quello spilapipe, cioè con quell’allampanato?
- Nonostante la sua folta chioma, si può proprio
dire che ha più pretendenti che capelli. Eh, sì! A chi non piace sognare a
occhi aperti la bella Angela fresca e formosa, dai capelli soffici e lunghi
fino alla vita, dagli occhi pampanuti
e dalla pelle bianco latte...
- Se non la smetti, ti prendo a pugni, capito? Non
ti permettere di parlare così di lei per la seconda volta, se non vuoi che
ti... Ma quando l’hai vista con i capelli sciolti? E che ne sai tu della
sua pelle? Non è che qualche volta ti nascondi e la spii quando è sola in casa
e si lava , si scioglie e si pettina le sue lunghe trecce... ? Se scopro una
cosa del genere, ti cavo gli occhi, amico o non amico!
- Ma non lo vedi che ti manca il fiato solo a
nominare i suoi capelli sciolti...? Povero Francesco, povero ‘Ngicco, povero ‘Ngiccariello, rassegnati: non ti v-u-o-l-e, non ti vo’!
- Al cuore non si comanda, mio caro Giuseppe, al
cuore non si comanda...
Le serenate ripresero sotto la finestra di
Angela. Venne dal paese un ricco che possedeva molte terre al Calorio e si fece
accompagnare da suonatori bravi anche a cantare. Una fisarmonica, una chitarra,
un organetto e un’armonica a bocca, uniti alle parole dei canti
tradizionali, eseguiti sui motivi del carnevale o ad aria, crearono nella notte
un’atmosfera indimenticabile.
1) “ Affacciati alla finestra, bella
fidanzata, fatti vedere codeste trecce legate. Gli occhi tuoi sono belli
guarniti, mi sembrano due palle incatenate. Una me ne hai lanciata e mi hai
ferito, il cuore da parte a parte mi hai parciato.
Il sangue che è uscito dalla ferita conservalo in un’urna e dopo tanto
tempo vallo a vedere: sangue di primo amore chiede pietà.”
2) “E tu, amore, amore, quante me ne hai fatte
aaaahaaaaa
Dai quindici anni mi hai fatto impazzire aaahaaaa
aaahaaaa
Madre e padre mi hai fatto scordare aaahaaaa
e la quinta parte dell’Ave Maria aaahaaaa
aaahaaaa
Il credo non lo so più cominciare aaahaaaa
vado per dire: ‘credo’ e penso a te
aaahaaaa aaahaaaa
Per favore, amore mio, vieni presto aaahaaaa
ché non ce la faccio più ad aspettare aaahaaaa
aaahaaaa.”
Alla fine della serenata, il pretendente
gridò: - Ehi, di casa! La mia è una famiglia onorata e benestante, sono venuto
a portare onore e non vergogna! –“
Ho cercato il mio perché e il perché delle cose sempre. Ho cercato il senso della vita che fugge nel vento dei pensieri.
Ho trovato altri perché..., finché ho trovato Te, Signore, seduto come roccia, in fondo al mio dirupo sgretolante, sicuro come il sole, caldo come il fuoco, dolce come l’aurora, ineffabile come l’amore. Sei diventato il mio respiro, la risposta ai dubbi più oscuri, la scala per per uscire dal buio, la porta per raggiungere ed essere raggiunto e il mondo mi appartiene. …e io che ho solo limiti posso donarti il mondo. Sai che non so pregare, né vivere, né amare e il piccolo granello imperfetto che io sono metto nelle tue mani. Un giorno ti darà gloria, se Tu lo plasmerai… |
Ho rimirato vetri nella notte, cercando la mia immagine nel vento, poi la tua voce-seme mi ha raggiunto e nel mio specchio ho trovato il mondo… rannicchiato e vilipeso in un giornale, senza più cuore lungo un marciapiede, impaurito dietro il nucleare, inseguito da fratelli d’altri lidi, condizionato-cieco-sordomuto, malato-affamato e massacrato, dimenticato-solo e rifiutato. Ti ho chiamato, cercando provviste-amore da spartire, e il cuore vuoto colmo è diventato. Grazie, Signore, di valorizzare il nulla e un poco che io posso dare… |
- 1982- ©bruna spagnuolo- da "Antologia sulla mamma" : ... quando non hai altro da dire, quando non c'è altro da fare, quando sei sì nudo da urlare, quando entra piano ed è arcana la mano che ti stritola il cuore, quando non hai maschera o scudo, quando cavalchi bambino dentro i flash-back della mente, quando più vero diventi, un soffio chiama grida di vento: mamma... |
...è parola o è un nido sicuro? ...è un soffitto, un tepore lontano, un lettino, l'abbaiare di un cane, una mano , una nenia di veli, un camino, un profilo di sole... E quell'oasi dolce e lontana, evocata dal fondo di un mare, torna grembo a proteggerti ancora... |
Bambini di poche spanne impareranno a leggere violini (per cambiare inni in piantagioni). La tua casa ha rastrelliere vuote sulla collina ove la gente non si ammazza (ma devono frustrarle sempre le povere bestie?). Non posso fermarmi. Una terra (da vedere e non dimenticare) aspetta orizzonti indomabili (pensi spesso alla morte?). Come una giraffa altera lascerò impronte soffici (oh, Signore, ho il vento alle spalle) sperando che il leone non carichi. E un gesto-vibrazione dolce come il destino (l’incendio è ineluttabile) brucia (accarezzandola, ferita) la spiaggia bianca. |
Se una voce-favola regala pezzi d’anima a fiamme affascinate dalla signora della notte, non donarmi abbandoni intrisi di canti di grilli. Corse-desiderio impreziosiscono determinazioni armate (contro veli-kaiser e regine). Fammi vittima sacrificale di benvenuto-addii (arriveranno orde vinte da cieli-palpito). Bue da soma romperò guerre perse con ruggiti ventosi (usciti dalla mente). L’aria bollente priverà guerrieri alteri di deserti-furia (non guardare troppo lontano). Un tremito di spiragli naviga su rotta altra (quando torni a casa?), torna per farti curare. La pazzia è un dono meritato (voglio partire-partire con te) e i saluti non trovano voce (i fiori aspettano- la stanza è vuota). Un safari è partito senza libri (le prossime piogge troveranno germogli) e segui sfilate di saluto cercando nel buio (quel viso non vuoi dimenticarlo). |
… se la tua carne ti strapperà il cuore, nel petto ti tremerà il dolore (può il vuoto dolerti nel petto?) e l’eco dilaniata cercherà burroni per seppellirvi demoni risvegliati. Fugato dal cielo di Eva, l’inventore dei cuori da coniare attraverserà pietraie umane in cerca del perdono. |
Ti affatichi a levigare porzioni di anima, raggrinzita come plastica al sole e trovi incisioni insospettate incistate (“nemo potest duobus dominis servire”). Lo sguardo vetrifica visi e ti senti gocciolare sul fondo di megaEre stanche (“vade ad formicam, piger, et disce Sapientiam”). |
©bruna spagnuolo- da La lentezza dell'ora "Premio Alessandria 1983":-
San Baudolino
Cercando solitudine
affollavi meandri/misteriosi
di echi dolorosi/ansanti.
Ti rispondeva amore/lentamente
con lucida certezza/trepidante
e andavi…
per erbe tinte di vento
incontro a specchi lucenti,
fruscii di luna e
gemiti di mondo,
lasciando impronte sofferte/di sole.
Il tuo silenzio tesseva scintille/divine
in inciendiaria tela/opalescente.
Ignaro, il “forum” indossava un faro/fatto cuore
e ad Alessandria altera lo donava.
Furono gemme di acque rispecchianti,
mari di silenzi per la mente,
mali in fuga,
gloria per l’oblio e
un’etrnità “torno” di tempo.
Pungoli da imparare
Il foglio bianco tace, la sabbia dei pensieri scivola. Goccioli sul fondo di ere stanche e trovi pungoli da imparare. Nel pianeta degli esseri indifferenti armat spina rosam e poiché amor gignit amorem divieni custode-vestale dell’amore. |
Il sonno dell’albero vigila dalla dignità impassibile della vita che solca cortecce nell’immobilità dello squallore che attende. Un alito di moto muove cristalli di fonemi e l’armonia sprofonda nel torpore di un oblio sconfinato mentre il risveglio freme fuori dalle cellule dell’io e un richiamo affonda inosservato un amo inestirpabile nel profondo: fatti tarlo fatti tarlo fatti tarlo |
Cortecce di verità
Ho srotolato tesori in carta di giornale tra castagne nutrite di anni poderosi. Ho rovistato tra frammenti di vita acerba e prepotente. Ho sentito ruvide cotogne tormentare memorie di rifugi misteriosi e sicuri e tra sapori stentati ho masticato cortecce di verità dissepolte. |
©bruna spagnuolo-Da "Linfa guerriera"- 1997:
SILENZIO Sterile il silenzio, scarse le penne, pigra la matita, duro il pavimento su cui siedo, provvisoria la posizione di tutto, precaria la sensazione del momento; quando sentirò di nuovo cantare il cuore nella veglia ininterrotta del vento senza fine? |
SILENCIO Estéril el silencio, escasas las plumas, perezoso el lapiz, duro el piso sobre el cual estoy sentada, provisional la posición de todo, precaria la sensación del momento. ¿ Quando oiré de nuevo cantar el corazón en la vela seguida del viento sin fin? |
VOCI DI STELLE Il nero falcone chiama Amazzonie vere; nell’intricata foresta il bianco volo danza da solo. I risvegli dell’anaconda attendono acquattati. Ti amo tanto, airone che voli all’impazzata, e tu, ramo contorto attorcigliato, sai che ti ammiro? E già ti porto in cuore: ascolta per me le notti dei silenzi nelle voci di stelle, lasciati corteggiare dal diamante liquido di luna, lasciati incastonare dall’aria di seta del mistero, lasciati incantare dal canto amante del verde passato. Che silenzio! Portami, libellula di Guri, come riflesso argenteo delle tue ali cangianti. Sfogliami, vento, in duplicazioni impensate che s’involino senza di me verso l’inesplorato che mi lascio alle spalle e che pure mi abita. E già più non è il futuro, mentre mi appaiono indenni i fili di luce trapassante tra i quali piovo nell’immensità. Le lucciole siderali sono replicanti/ per inseguirle vado rotolando. L’oasi del moriche è già matura: ha pronti un nido e una fucina d’ali. |
VOCES DE ESTRELLAS El negro halcón llama a Amazonas verdaderas. En la enmarañada selva el blanco vuelo danza de por sí. Los despiertamientos de la anaconda esperan ocultados. Te amo tanto, airónque vuelas a tontas y a locas, y tu, rama torcida, ¿ sabes que te admiro? Y ya te llevo in mi corazón: escucha por mí las noches de los silencios en las voces de estrellas, dejate cortejar por el diamante liquido de luna, dejate engastar por el aire de seda del misterio, dejate encantar por el canto amante del verde pasado. Que silencio! Llevame, libelula de Guri, como reflejo argenteo de tus alas cambiantes. Esfoyame, viento, en duplicaciónes impensadas que se levanten en vuelo sin mí hacia lo inexplorado que me dejo a la espalda y que habita en mí. Y ya mas no es el futuro, mientras me aparecen indemnes los hilos de luz trapasante entre los cuales lluevo en la inmensidad. Las luciérnagas siderales son replicantes/ por persiguirlas me voy rodando. El oasis del moriche ya está maduro: tiene listos un nido y una fragua de alas. |
IL MIO MORICHE Sentinella dell’acqua/ da un capo all’altro dell’ora rischi le tue radici e doni soffi di pace, mio moriche. Da un arabesco all’altro dell’aurora sposi i sogni lucenti delle tue foglie imponenti/ la tua linfa guerriera non trema. E nel tuo ultimo giorno terreno canteranno per te gl’incanti delle fresche sere/ i voli/ i fruscii del tuo incondizionato dono; quando verrà il tuo rogo, l’indomito tronco-meraviglia emetterà crepitii di perdono per le verdi generazioni estinte da ignara ignavia assassina. In quell’ultima ora, mio moriche, stormisci per il risveglio della saggezza e anche- ti prego- per la mia umanità recalcitrante, che non sa accettare l’attesa di tregue vecchie e di guerre nuove (senza frontiere). |
MI MORICHE Centinela del agua desde un cabo al otro de la hora arriesgas tus raices y donas soplos de paz, mi moriche. De un arabesco al otro de la madrugada desposas los sueños lucientes de las hojas imponentes: tu linfa guerrera no tiembla y en tu último día terreno cantarán para tí los encantos de los frescos crepúsculos: los vuelos, los murmullos de tu incondizional don. Quando llegará tu hoguera, el indómito tronco-maravilla lanzará chisporroteos de perdón para tus verdes generaziones extintas por ignara mano asesina. En esa última hora, mi moriche, susurra para el despertamiento de la sabiduría y tambien, te lo ruego, para mi humanidad recalcitrante, que no sabe aceptar la espera de treguas viejas y de guerras nuevas sin fronteras. |
CANTO Canto all’imbrunire nell’immensa Gransavana. Canto senza luce. La penna non ha voce. È altrove il mio cuore. All’orizzonte rintocca dolce il ricordo dellemie creature. Irrinunciabile è l’apice del mio vademecum mai stanco, pacata la sera nel crepuscolo umido della pensosa savana, ininterrotto il fluire comunicante dell’amore (bonifica, Signore, il presagio insinuante dei disturbati sogni di prima mattina). L’uragano sorprende l’imprevedibile sole (diffida, mio cuore, dell’armonia duratura). Il ponticello sbilenco sbigottisce il suo fiume (c’è troppa gente dietro i fari in cammino). Le lettere a quattro ruote, con indirizzi sui vetri, non si arrestano mai (è grande grande la savana da amare). |
CANTO Canto al oscurecer en la inmensa Gransabana. Canto sin luz. El bolígrafo no tiene voz. Está en otro lugar mi corazón. En el horizonte repica, dulce, el recuerdo de mis criaturas. Irrenunciable es el ápice de mi vademecum nunca cansado, pacato el anochecer en el crepúsculo humedo de la pensativa Gransabana, ininterrumpido el fluir comunicante del amor (bonifica, Señor, el presagio insinuante de los molestos sueños de primera mañana). El huracán sorprende el imprevisible sol (desconfia, mi corazón, de la armonía durable). El pequeñito puente sesgo pasma su río (hay demasiada gente tras los faros en camino). Las cartas con cuatro ruedas y direcciones sobre los cristales de los ventanillos, declaran su amor a la Gransabana, nadie las detiene (es grande grande la Sabana del corazón). |
HO VISITATO Condotta da nocchiero senza paura, ho attraversato Stige soleggiati e salutato Caronte assenti, nella terra dei diamanti allagati. Ho visitato paradisi di oceano senza mari e amato voli presenti anche nelle assenze. Ho rubato il Gran Canyon ad architetture di vento e il ferro alle colline arrugginite. Ho strigliato trofei, cullando doni pesanti (hanno rapito il fiore da un crogiuolo spuntato). Un bimbo mi ha donato arabeschi nella pietra fioriti. Accarezzo (allo specchio accoccolata) sculture-sugheri rocciosi e stratificazioni di palle di cannone. Nella mia foresta di quarzi ghiacciati s’inceppa la pubblicità di una bimba viziata. Nella mia casa sono germogliate scogliere e sul candelabro attende ancora il Natale… |
HE VISITADO Conducida por piloto sin miedo, he atravesado Estiges asoleados y saludado Carontes ausentes, en la tierra de los diamantes inundados. He visitado paraisos de océano sin mares y amado vuelos presentes tambien en las ausencias. He robado el GranCanyon a arquitecturas de viento y el hierro a las Colinas aherrumbradas. He almohazado trofeos, acunando regales (han arrebatado la flor por un crisol brotada). Un niño me ha entregado arábigos en la piedra florecidos. Acaricio (al espejo acurrucada) esculturas de corchos rocosos, estratificaciones de projectiles de cañon. En mi selva de cuarzos helados se encepa la publicidad de un niña viciada. En mi casa han germinado escolleras y en el candelabro espera todavia la Navidad… |